| Jolene guardò distrattamente la sua stessa figura argentea, quello spettro finto che l'aveva pedinata negli ultimi minuti. La voce di Ariel le arrivava ora seria, severa quasi, segno che i pregiudizi riguardo agli spettri le stavano realmente a cuore. Jolene, a dire la verità, non aveva mai dedicato grandi riflessioni all'argomento. Era cresciuta a Hogwarts, lì continuava la propria vita come lavoratrice e, come ogni abitante dell'antico castello, era abituata a condividerlo con i fantasmi. Non era alla morte che pensava ogni volta che scorgeva la Dama Grigia, e non veniva attraversata da brividi di orrore quando qualsiasi altra figura spettrale compariva all'improvviso, come un ricordo rigurgitato dai muri di pietra. Il Barone Sanguinario sapeva infondere una buona dose di inquietudine, ma quello dipendeva meno dalla sua natura di fantasma che dallo sguardo terrificante che probabilmente aveva avuto anche in vita. Tutto ciò avrebbe potuto dire ad Ariel, ma si trattenne, perché un'unica espressione aveva invischiato i suoi pensieri come in una tela di ragno: una paura irrazionale della morte. Più si rigirava quelle poche parole nella testa, meno si sentiva propensa a chiacchierare. Forse non la associava così direttamente agli spettri, ma l'idea della morte rimaneva una costante tra i suoi pensieri. Prima il rischio che le venisse portato via il padre, in seguito il massacro di quarantuno innocenti avevano esasperato la tendenza alle riflessioni morbose. Ripensò al minuscolo cadavere di rondine che aveva trovato qualche mese addietro – tra tutte, era quella l'immagine che immediatamente associava alla morte – e si sentì rabbrividire, mentre le labbra restavano serrate nel rifiuto di produrre un qualsiasi suono. Forse la paura era irrazionale, e allora? C'era mai stato qualcosa che aveva cessato di fare male solo perché irrazionale? «Insomma, se ne andrà a breve!» Jolene staccò gli occhi dal punto indefinito che aveva fissato attraverso i contorni semi-trasparenti dello spettro e li riportò su Ariel. Annuì leggermente: «Hm-hm», ma era chiaro che stava ancora girando nel vortice dei propri pensieri. Notò solo allora che Ariel aveva cominciato a preparare la tavola, aprendo i sacchetti di patatine e disponendo i pezzi di sushi mentre lei, Jolene, era rimasta lì come assente. Le capitava, talvolta, di accorgersi all'improvviso di non aver prestato attenzione; ma non era ciò che desiderava per quella serata, non quando Ariel meritava che ogni suo sguardo fosse presente, ed ogni espressione vicina. Fu particolarmente facile tornare interamente lì, nel momento presente, mentre, il fiato sospeso, attendeva che l'altra completasse la propria affermazione. «E tu sei...» La guardò di sottecchi, ma poi Ariel tacque. Lo fece perché era inutile ripetere molte altre occasioni, o perché da allora era sopraggiunto qualcosa di inesprimibile? Ma Jolene rimuginava troppo, come suo solito. Fu una fortuna che desse le spalle ad Ariel quando quest'ultima continuò a parlarle di Maurizio. Anche quello, aveva detto, inaspettatamente, quando Jolene aveva desiderato solo stuzzicarla. L'idea che tra i due ci fosse una relazione sfumò nell'immediato, ma per qualche ragione Jolene continuò a pensarci. «Oh sì, l'Italia è tutto un altro mondo, meravigliosa.» Se ne andò in cucina sulla scia di una delle affermazioni più generiche e banali con cui se ne potesse uscire. Si era ripromessa di essere presente in ogni momento, eppure già veniva assorbita da se stessa, da quella sgradevole sensazione di stare scomoda, nei propri vestiti o nella propria pelle, in tutto il momento presente.
In qualche modo aveva accantonato tutto ciò che avrebbe potuto guastare il buonumore suo o di Ariel. Gli unici ricordi che sarebbero rimasti di quella serata sarebbero stati caldi, dorati, scanditi da sorrisi reciproci. Questo, quantomeno, si era detta Jolene nel tornare dalla cucina, ma forse avrebbe dovuto ascoltare con più attenzione la malinconia profonda che aleggiava nella stanza – una malinconia lenta e vagamente metallica, così come veniva riversata dalle casse dello stereo. A malapena si accorse del movimento di Ariel quando questa si girò verso la musica, quasi che vi avesse riconosciuto qualcosa di importante. Ma Jolene, rapita dal bracciale, lo inclinava dolcemente da una parte e dall'altra, cullando il liquido argenteo che continuò a studiare per la maggior parte del tempo che servì ad Ariel per spiegare la sua natura e il suo significato. Lo sguardo di Jolene pesava, tanto era difficile smuoverlo. Se ne stava lì, come lontana, i movimenti dei polsi dolci e distratti. Solo il tremito del labbro inferiore sfuggiva ad ogni controllo come un indizio rivelatore, l'unico, quando qualsiasi altro restava intrappolato tra le sue ciglia abbassate. Quella bocca esitante non avrebbe potuto rispondere all'istinto primo, che altro non era se non il desiderio di una leggerezza falsa. Aveva di fronte la stessa persona che tante volte l'aveva presa per mano e, con la fermezza morbida di chi non ha bisogno di spiegazioni, l'aveva guidata fuori da un mondo di orrori – come quella volta in cui stavano passeggiando per Hogsmeade, e Ariel aveva saputo leggere l'improvviso bisogno di Jolene di allontanarsi da ogni sconosciuto. Altre volte non c'era molto da fare se non aspettare, e Ariel si era dimostrata paziente anche allora. Perché, allora, Jolene era così ingrata? Perché desiderava nascondersi come una cosa che appartenga alle tenebre, che strisci lontano da ogni sguardo perché non sopporterebbe di vedervisi riflessa? ”When you see me Please turn your back and walk away.” Non avrebbe saputo dire che cosa la spinse a fare un passo in avanti. Era vagamente cosciente del corpo di Ariel a qualche metro di distanza, davanti alla poltrona verso cui si era allontanata, tradita probabilmente da qualche timore a cui Jolene non poteva giungere. L'istinto era distanza, era la solitudine di una vita. Quando decise di lottare contro di esso, Jolene serrò la mascella e il labbro smise di tremare – fu il primo indizio che stesse per rompere il silenzio. «Quello che appare sempre è il venditore di fiori.» Si interruppe, trasse un respiro profondo. Avvertiva già il pizzicore agli occhi, ma voleva continuare: avrebbe chiamato a raccolta tutti i suoi spettri, li avrebbe allineati di fronte all'amica, cui non aveva mai voluto nemmeno descriverli. «Lui... Lui è morto mentre si aggrappava a me e cercava di dirmi qualcosa di importante. Non ho mai saputo cosa fosse.» Strinse le labbra, sapevano di salato. Piangeva silenziosamente, e ancora guardava il bracciale tra le sue dita. «C'è anche una bambina. L'hanno coperta con un lenzuolo, non l'ho mai vista in vita. C'erano così tanti bambini lì, Ariel, doveva essere una festa. Uno era stato trafitto dal palo di un carretto, proprio al centro del petto. L'abbiamo aiutato, credo... credo che sia vivo. Ma quando lo vedo io non lo è mai, è sempre morto.» Si passò la mano su una guancia, poi sull'altra, asciugandosi le lacrime come meglio poteva. La voce le tremava, ma voleva terminare. «È morto anche un Medimago che mi ha aiutato. L'ho scoperto dopo, avevo chiesto di lui per ringraziarlo.» Ormai aveva perso del tutto il controllo. Le spalle sussultarono quando tentò di reprimere un singhiozzo. Non importava, si disse. Non importava, perché finalmente aveva dato voce ad ogni fantasma che si portava dietro. «A volte vorrei che ci fossero tutti» mormorò alla fine, e il suono umido della sua voce era appena udibile. Avrebbe voluto ospitare tutte e quarantuno le vittime di quel giorno – sembrava l'unico modo per rendere giustizia alla loro morte ingiusta. code © petrichor.
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