Tender is the night, notte di Halloween w/ Unconsoled

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view post Posted on 11/12/2020, 22:25
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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overlayariel Originariamente l'intento di Ariel era quello di prendere la Metropolvere e andare direttamente a casa di Jolene, invece si era distratta come suo solito, finendo non si sa come (il suo sesto senso, avrebbe detto) verso lanterne fluttuanti e fantasmi di passaggio fino a raggiungere Zarathustra.
Quindi ora era in ritardo sulla tabella di marcia, ma in compenso carica nuove leccornie e un regalo impacchettato che aveva nascosto nella tasca della giacca.
Andava sottolineato, però, come il ritardo fosse fittizio: non c'era una data e un'ora a stabilire quell'incontro; si stava autoinvitando, insomma, come la migliore delle persone invadenti.
Si era fiondata in quella "missione segreta" a capo chino, come una bestia nell'intento di una carica aggressiva.
"Sarà felicissima" si ripeteva nella sua mente, mentre continuava a muoversi fra le vie di Londra, cercando di ripercorrere rapidamente con lo sguardo i nomi delle vie agli sbocchi.
"Methley Street" gliel'aveva indicata un gruppo di giovani di passaggio, carichi di trucchi pesanti che volevano riprendere le fattezze di spettri e teschi.

Il numero nove venne raggiunto a passo svelto con esattamente un'ora e ventidue di ritardo nella sua elaborata e complicata tabella degli Impegni della Festa Segreta di Halloween per Jolene.
Le mani erano pallide per il freddo e irrigidite dalla morsa in cui le aveva costrette per reggere con il fagotto che la giovane Gwen le aveva fatto alla festa, cariche di un sacco di sfiziosi piatti dalle proprietà magiche con cui avrebbe voluto strappare una risata alla ragazza.

Era arrivata, ma d'un tratto non si sentiva poi così tanto sicura delle sue idee.
"Oh no. E che succede se qualcuno mi ha anticipato e ha fatto qualche stupido scherzo di Halloween che le ha ricordato qualcosa di brutto? E ora piange? E ora è IN FRANTUMI?"
Il fiume di pensieri autosabotanti di Ariel Vinstav, un'appassionante serie dai contenuti tragici e comici.
"Giuro che se becco qualche ragazzino che fa qualche cattiveria gli faccio imparare l'Animagia facendolo diventare un vermiciattolo."
E dove c'era il panico, c'era anche un'inspiegabile rabbia assolutamente non richiesta ed esagerata oltremodo.
"Ma poi mi sto autoinvitando?"
«Ma perché sono sempre così impulsiva? Ma non potevo tipo chessò: mandare un gufo? Parlarle nel camino? Ma che poi lo ha un camino?»
Sospirò rumorosamente, prima di BAM BAM battere la testa contro la porta di casa.
No, non stava bussando, si stava solo autocommiserando da sola contro il legno.
La speranza era che Jolene non aprisse la porta di casa in quel momento.
Perché una tipa che si inchina per percuotersi la testa contro la porta mentre tiene in mano un bento di tessuto nero, oltre a sembrare cultural appropriation di un brutto film comico americano babbano, faceva anche tristezza. E lo zaino gigante sulla schiena le faceva la gobba.
Peccato, si era pure truccata e vestita carina (dove carina sta per "con una coerenza nella scelta dei capi e i colori"), doveva rovinare usando la testa... letteralmente.
«Disonore su di me, sulla mia famiglia.»



 
 

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view post Posted on 26/12/2020, 23:22
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overlayjolene Per Jolene la notte di Halloween si avviava sulle note del suo stereo, dalle cui casse proveniva, un po' metallico, un vecchio successo dei Blur. Semi sdraiata tra i cuscini del divano, Jolene muoveva i piedi a tempo, dicendo a se stessa che non avrebbe potuto immaginare un modo più piacevole di passare quella serata se non rimanere a casa, a canticchiare e sgranocchiare dolci di Mielandia. Di certo non sarebbe potuta andare ad una festa, non con la prospettiva di imbattersi in frotte di mostri, cadaveri e fantasmi accuratamente truccati, tutti intenti a fare baldoria in un chiasso insopportabile. Certo, non le sarebbe dispiaciuto avere la compagnia di qualcuno che non fossero Mr Butler e Daisy, accoccolati rispettivamente dentro alla poltrona e sullo schienale della stessa; di Nephelae per il momento non c'era traccia, doveva essere tra le piante sul terrazzo. Era per ovviare a quella compagnia così silenziosa che aveva fatto andare un disco dietro all'altro, affrettandosi a cambiare traccia per non dover trascorrere nemmeno un minuto a sentire solo il proprio respiro e gli scricchiolii della casa. Per quanto avesse reso accogliente la propria abitazione, infatti, persisteva sempre un certo aspetto spiacevole a rimanervi da sola, specie nelle serate fredde e uggiose di fine autunno. L'isolamento era reso ancor più pressante dalla consapevolezza che perfino la sua vicina era uscita a festeggiare – per brontolona e stramba che fosse, la sua presenza distante aveva sempre confortato Jolene.
«So gimme coffee and tv, easilyyyaaaah Allungata al massimo della propria estensione verso il tavolino, Jolene non riusciva comunque a raggiungere i cupcakes. «Easily un corno di Erumpent» brontolò, risolvendosi ad appoggiare l'altra mano sul tappeto per riuscire a spingersi fino ad arraffare, finalmente, un Ghost Cupcake che a quel punto si era più che meritata. Si lasciò affondare ancor di più nel divano, felice della sua refurtiva. Stava vivendo i suoi ventun anni al massimo del loro potenziale esplosivo, pensò sarcastica, mentre addentava il dolce. Era tutto una meraviglia, no? Essere troppo spaventata per uscire durante le feste comandate, o, se non proprio spaventata, quantomeno riluttante, o svogliata, o quel che era. Forse il problema consisteva in una debolezza di carattere che avrebbe fatto meglio ad allenare, fu la successiva considerazione, che ebbe il gusto del cioccolato e della zucca – decisamente troppo dolce e piacevole per quei pensieri oziosi.
Aveva comprato i dolci pochi giorni addietro, ma di fatto si era già scordata degli effetti magici cui avrebbero dovuto dare luogo. Così, quando il fantasma comparve accanto a lei, tranquillamente appollaiato sullo schienale del divano come una qualche civetta troppo cresciuta, Jolene per poco non si strozzò con il suo cupcake.
«Madre di Merlino! E tu?» L'apparizione era la sua copia esatta – una Jolene argentea e trasparente, avvolta come l'originale in una veste da notte e un lungo maglione di lana pesante.
La Jolene in carne ed ossa si sollevò di scatto, mettendosi a sedere per poter meglio osservare l'intrusa. Quell'altra ricambiava il suo sguardo senza alcuna espressività. «Ciao? Parli anche? Mi sa di no. D'accordo, ehm... Beh...» Non era particolarmente piacevole fissarsi così, avendo conferma di una capigliatura a dir poco imbarazzante e di un paio di occhiaie che riuscivano ad apparire pronunciate anche in opacità 0.7. Farlo in silenzio, poi, aveva un che di atroce.
Per fortuna, qualcuno là fuori disponeva di un tempismo particolarmente azzeccato e decise di bussare alla porta d'ingresso proprio in quel momento. Jolene si prese un altro spavento, a dire la verità, ma già l'istante successivo era pronta ad accogliere l'inaspettata distrazione con una certa gratitudine. Ben felice di sottrarsi allo sguardo vuoto del suo fantasma, si tirò in piedi. «Io vado ad aprire, tu resta qui. Ok?» Circumnavigò il divano con una certa riluttanza, che alla fine si dimostrò giustificata: il fantasma, lungi dal darle retta, prese a tallonarla. «Non segue le istruzioni semplici, fantastico...» Borbottò cupa mentre raggiungeva la porta. Dovevano essere i ragazzini che passavano per il loro giro di dolcetto o scherzetto, ma lei ci aveva già pensato e aveva lasciato un vassoio di caramelle e altri dolcetti su un tavolino appena fuori dall'ingresso.
Dischiuse la porta lentamente, facendo attenzione a coprire interamente lo spiraglio, così che nessun babbano si facesse venire un colpo a vedere un fantasma in carne ed ossa, se un'espressione del genere è consentita. Mentre girava la maniglia si schiarì la voce, cercando di darsi un tono anche se probabilmente avrebbe fallito miseramente.
«I dolcetti sono tutti lì sul vassoio, alla vostra des- Ariel?» Dopo aver premuto il naso contro ad uno spiraglio minuscolo, Jolene spalancò improvvisamente l'uscio in tutta la sua ampiezza. Davanti al suo sguardo stupito stava un'Ariel vestita di toni scuri e carica di un pacchetto piuttosto voluminoso. Ed era anche... truccata? Jolene non l'aveva mai vista col rossetto, ma pensò che avrebbe dovuto metterselo più spesso, perché le stava molto bene. E non appena quell'idea le ebbe attraversato la mente, si scoprì improvvisamente consapevole del suo aspetto in tutto e per tutto da casa; d'istinto si avvolse le braccia intorno al busto, tirando i lembi del maglione per coprirsi meglio. Sarebbe potuta passare per la reazione ad una folata di corrente, forse.
«È successo qualcosa?» Immediatamente si vergognò della nota apprensiva nella sua voce, di quel qualcosa che la portava così spesso a saltare alle conclusioni peggiori. Nel cercare di scacciare la propria inquietudine, però, non fece che accentuarla, e ciò si riflesse nella piega incerta che presero le sue labbra quando finalmente si fece da parte. «Voglio dire, entra. E non fare caso a lei, è uscita fuori da un cupcake.» Perché sì, Jolene-fantasma si trovava ad appena mezzo metro dalla sua controparte, fissando un punto imprecisato a metà tra quella e Ariel. La sua vista, ora che si offriva anche alla bionda, irritò particolarmente Jolene, che non le risparmiò un'occhiataccia – e sì, era molto strano guardare male se stessi.



 
 
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view post Posted on 28/12/2020, 17:44
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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overlayariel «La bella fronte alta si arrotondava delicatamente dove i capelli, cingendola come uno scudo di blasone, esplodevano in onde biondo cenere e oro. Aveva gli occhi chiari, grandi, luminosi, umidi e splendenti, il colore delle guance era autentico, e irrompeva alla superficie dalla giovane pompa vigorosa del suo cuore. Il corpo aleggiava delicatamente sull'estremo limite della fanciullezza.»
– Tender is the NIght, Francis Scott Key Fitzgerald.


Proprio come Rosemary nel libro del babbano Fitzgerald, Ariel si mostrava con i suoi occhi grandi carichi di uno splendore che faceva eco alla genuinità delle sue emozioni. La chitarra di Graham Coxon stava scemando nello sfondo per dare spazio alla chiusura su diamonica, lenta e melanconica, decisamente distante dai suoi duri e grunge del britrock.
Ariel seguiva la musica con la testa senza rendersene conto, mentre gli occhi si facevano carichi del timore di aver sbagliato e di aver appena interrotto un momento che doveva essere solo di Jolene.
Così imparava ad essere così impulsiva.
«I dolcetti li ho già, o uhm ... posso entrare?»
Si era risvegliata intimidita dal suo stesso flusso di (in)coscienza che la portava a incurvare la schiena in avanti, appesantita dal senso di colpa e la convinzione di aver commesso un grave errore.
«Oh non è successo niente di brutto, no. Cioè sono successe tante cose, ma... woah.»
Normalmente si sarebbe incuriosita non poco alla comparsa dello spirito nella sua periferica, ma l'inquietudine di Jolene era stata colta nel soppesare delle sue parole e la pesantezza dello sguardo che sfuggevole cercava di alternarsi fra lo spettro disprezzato e la sua abitazione. Aggrottò la fronte, occhieggiando a destra e manca spettro e Jolene, indecisa sul da farsi.
Soltanto quando l'album scivolò alla canzone seguente e le note di Swamp Song riempirono l'appartamento che si sentì ispirata nel rispondere.
Mosse qualche passo in avanti, spintonando con il tacco degli stivali la porta perché si chiudesse dietro di lei con un tonfo, impedendo a chi potesse passare per il corridoio del terzo piano di notarla.
«Sono qui per "giving you good times"» Scimmiottò la voce di Damon Albarn con scarsi risultati visto che la voce di Ariel era molto più soave e leggera di quella graffiata del frontman dei Blur. Non conosceva la canzone, né il gruppo, ma la ripetizione della frase nel bridge avevano reso abbastanza prevedibile l'andazzo della canzone. Mentre Albarn continuava il verso con un tormentato "...I want to be with you", la ragazza cercava di aggirare la spettrale manifestazione di Jolene per affiancare quella autentica e permettersi di osservare il soggiorno.
Lo sguardo soppesò la figura dell'infermiera, soffermandosi sui calzoncini multicolore che indossava, prima di tornare verso l'alto sul volto della ragazza. Sfarfallò le ciglia, prima di tendere le labbra in un sorriso «Ho pensato che volessi evitare di sentire e vedere le solite cose da Halloween da sola, quindi sono venuta a portare cibo e cosine carine!»
Stava evitando di parlare direttamente del problema che portava Jolene a voler evitare la folla proprio in quella giornata, tentando anche di dissimulare il proprio imbarazzo per essere piombata lì senza preavviso. Riguardo come l'altra fosse vestita, sembrava abbastanza indifferente ai suoi "abiti da casa" e più preoccupata dei suoi.
«Però ora ho il dubbio di essermi vestita troppo... uhm bene. Perché ho immaginato che potremmo avere una festa, una nostra festa. Però poi mi sono ricordata che ti sto invitando in casa tua e che forse non era il caso renderla una sorpresa: se avevi già ospiti o non volevi festeggiare che si faceva?» Eccolo il fiume di parole che tornava rapidissimo a incalzare ed evidenziare la sua paranoia, la paranoia di commettere errori e perderle quelle poche amicizie che aveva.
Era già un miracolo non avesse chiesto scusa quelle cinque-dieci volte come suo solito.
«Però se può farti sentire meglio ho qua dentro abbastanza cibo da poter sfamare anche una tua copia.» E scoccò un'occhiata al fantasma dietro di lei, prima di allungare la mano con cui reggeva il fagotto di Himiko's Taste e poi scuotere le spalle per far notare il grosso zaino che aveva caricato sulle spalle.
Era arrivata preparata per una festa, sì, perché presumibilmente l'aveva messa tutta dentro il suo zaino.
«E sarei in realtà pure in ritardo, anche se non potevi saperlo, perché ho trovato una festa ad una bottega magica qualche quartiere più in là e sono dovuta assolutamente entrare per vedere se c'era qualcosa di interessante. C'era un mio amico e abbiamo urlato nelle orecchie di un tipo che si è arrabbiato da morire: è stato molto divertente, penso che Maurizio ti starebbe super mega simpatico, dona pure a lui il rosa!»
Coprire il disagio con le parole? Fatto √


 
 

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view post Posted on 21/1/2021, 19:25
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overlayjolene «La guardò e per un attimo lei visse nel luminoso azzurro del mondo dei suoi occhi, con curiosità e fiducia.»
– Tender is the NIght, Francis Scott Key Fitzgerald

Se in quel momento Jolene avesse potuto disporre di parole che non fossero le proprie, avrebbe preso in prestito il dolce potere evocativo di Firzgerald per descrivere la propria esistenza nel fascio dello sguardo di Ariel. Accantonati per un istante tutti quegli aspetti che smuovevano le acque torbide della sua inquietudine, Jolene si scopriva illuminata da un insperato cono di luce, caldo come una piacevole sorpresa, dorato come la prospettiva di una serata piena di musica. E la musica c'era davvero – c'era in quel momento per la prima volta, portata in vita dal soffio di Ariel, trasportata al di qua delle casse dal suono etereo della sua voce che ne ripeteva i versi. Le tracce, allora, persero la loro funzione riempitiva: smisero di essere talismani contro il silenzio, e acquistarono una forma morbida che si sarebbe potuta esplorare, e tradurre in azione, e apprezzare come il dettaglio di un ricco scenario. Jolene, allora, non poté fare a meno di sorridere, e quel semplice gesto accantonò per qualche momento la preoccupazione, così come ogni senso di inadeguatezza nel percepire lo sguardo dell'altra sul proprio aspetto disordinato. Niente di tutto ciò aveva importanza di fronte al semplice quanto immenso fatto che Ariel aveva pensato a lei – in quella serata dedicata ai festeggiamenti più sfrenati, alle lunghe ore di risate sguaiate in ampia compagnia, fatta apposta per lasciar sfuggire di mente ogni considerazione uggiosa, come poteva essere quell'amica che non si trovava a suo agio tra i rumori della folla. Qualcosa scattò nel petto di Jolene, accompagnato da quella particolare sensazione di cedevolezza che presagisce gli occhi umidi. Non essere sciocca, si rimproverò, allargando rapidamente il sorriso nella speranza di distrarre l'attenzione dal luccichio del proprio sguardo.
«Non voglio sentire altro!» esclamò allegramente, così da fermare il flusso delle giustificazioni di Ariel prima che potesse giungere a quella fatidica parola, scusa. «Non avevo invitato nessuno, io... Io non pensavo che qualcuno volesse rinunciare a tutti quei bellissimi festeggiamenti. Non sai quanto sono felice di vederti qui.» Senza che Jolene l'avesse premeditato, la sua mano cercò quella dell'altra, in quella che sarebbe stata una stretta tanto fugace quanto carica d'affetto. Era questo, la dolcezza che le traboccava dal petto, e che ne definiva lo sguardo quando esso sorrise a quello di Ariel.
Si sentì avvampare leggermente, e subito dopo la timidezza dei rapporti ancora acerbi la strappò via da quel rapido contatto, il cui ricordo cercò di sommergere tra le mille parole che seguirono: «Di cosa ti preoccupi? Sei molto bella, così stai benissimo. È un'occasione speciale, come hai detto tu, dobbiamo festeggiare. E sarà una festa coi fiocchi, vedrai. Abbiamo tutto: la musica, il cibo, un sacco di dolci anche, e un ospite speciale». Scoccò un'occhiata al fantasma, che ancora aleggiava silenziosamente, anche se Jolene sospettava si sarebbe dileguato tra pochi minuti. Questa volta la sua vista non la disturbò come prima, anche se dovette sopprimere l'impulso di sciogliersi quei capelli orrendamente disordinati.
Si mosse nel soggiorno, facendo strada ad Ariel. Gli angoli della stanza si perdevano in una penombra soffusa. La zona centrale, invece, era ben illuminata da due lampade a paralume sferico, poste ciascuna ad un capo del divano. Quest'ultimo era appena in disordine, con i numerosi cuscini azzurri sparsi alla rinfusa; il basso tavolino lì davanti era sgombro, se non per il sacchetto colorato di Mielandia. Sullo schienale della poltrona, la piccola civetta continuò a sonnecchiare indisturbata dal chiasso, mentre Mr Butler, affondato nei cuscini della stessa, aprì sulle due donne uno sguardo di desolato rimprovero. Lo stereo tacque per pochi secondi prima che il brano successivo, Trailerpark, sopraggiungesse su note più rilassate, quasi pigre.
«Dai, accomodati» esortò Ariel, facendo per prenderle dalle mani l'involto, così da lasciarla più libera. «Quello zaino sembra terribilmente pesante, mettilo giù dove preferisci. Che cosa hai preso? Possiamo mangiare di là in cucina, o anche qui, se ti va. Mettiamo i cuscini per terra intorno al tavolino, che ne dici?» Nella fretta di mostrarsi come una buona ospite, oltre che mossa da un generale entusiasmo, Jolene a malapena si rendeva conto della voce che, un po' più acuta del solito, rincorreva le sue stesse parole con vivace energia. E pensare che si era sentita ragionevolmente stanca solo fino a pochi minuti prima! Ora pensava che avrebbe potuto chiacchierare fino a notte fonda; per Merlino, avrebbe perfino potuto ballare. La sua risata era carica e allegra – era pronta a commentare la curiosa attività di urlare nelle orecchie degli sconosciuti, ma il nome che seguì a quella confessione attirò tutta la sua attenzione. «Maurizio? Alto-più-o-meno-così, gli-piace-la-musica, squadra-Antimago Maurizio?» Si premette il vassoio contro al busto, così da poterlo reggere con una mano sola mentre portava l'altra una spanna o due sopra alla propria testa, ad indicare all'incirca l'altezza raggiunta dall'italiano. «Perché se è lui, so che oltre ad urlare nelle orecchie della gente è molto bravo anche a cantare nelle biblioteche. E questa è solo una delle ragioni per cui mi sta simpatico.» Lo disse con una certa scherzosa solennità, prima di abbassarsi per appoggiare il vassoio sul tavolino.
«Vado a prendere dei piatti e qualcosa da bere, torno subito. Intanto puoi sistemarti, conoscere Emerald Butler e Daisy.» Fece cenno alla poltroncina su cui i famigli di casa continuavano a riposare indisturbati.
Jolene percorse quasi di corsa i pochi metri che la separavano dalla cucina, senza nemmeno accorgersi del suo spettro che, dopo averla seguita per pochi secondi, sbiadì velocemente fino a non lasciare più alcuna traccia.
Ogni passo veniva mosso da Jolene in una leggerezza che pareva volerla trasportare in alto, come un palloncino a stento attaccato al suo filo. Lo stesso si poteva dire degli angoli delle labbra, che continuavano a sollevarsi anche ora che era fuori dallo sguardo di Ariel. Era tutto così bello e allegro, pensò, mentre impilava un paio di piatti. Sembrava di aver scoperto l'organizzazione di una festa a sorpresa, e così era, in un certo senso. Indugiò qualche attimo di fronte alla credenza dei bicchieri, valutando ora quelli bassi, ora i calici dallo stelo sottile. Alla fine, a voce abbastanza alta da farsi udire dall'altra stanza, disse: «Ti piace il vino bianco?». Sarebbe stata una festa coi fiocchi, loro e di nessun altro.



 
 
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view post Posted on 22/1/2021, 01:25
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overlayariel «She smiled at her, making sure that the smile gathered up everything inside her and directed it toward her, making her a profound promise of herself for so little, for the beat of a response, the assurance of a complimentary vibration in her.»
– Tender is the NIght, Francis Scott Key Fitzgerald.


Lo spettro di Jolene viene osservato con la coda dell'occhio, accompagnato da una smorfia leggera che anticipa il muoversi muso delle labbra, una domanda più per se stessa che per il fantasma stesso: "Non sei reale, vero?" che nella sua mente non era che una domanda retorica; la bocca dello stomaco le si sarebbe chiusa, probabilmente, se l'essenza di qualche spirito si fosse manifestata in quella casa.
Dicevano così nei libri del resto, no? Quando vedi la morte in faccia ti si raggela il sangue.
"Si vede che non sono islandesi quelli che lo dicono." Scacciò le cattive sensazioni e preoccupazioni con un umorismo amaro che viveva solo nella sua testa, alla larga da Jolene il cui sorriso le illuminò il volto di riflesso.
Le labbra rosse per il rossetto si erano aperte a mostrare parte della dentatura e un'espressione solare si accostava al battito sempre più concitato del cuore, trasportato dall'adrenalina e la gioia.
«Ma Jolie, l'ho detto: avremo la nostra festa; non sto rinunciando a niente e ... e sei felice di vedermi, ecco
Era partita molto bene, ma ecco che nel parlare il batticuore per l'emozione era stato accompagnato da un momento di confusione.
Jolene era felice di vederla, Jolene era felice perché lei era lì.
Era così difficile da credere, ma così facile da confermare.
Era empatica e sensibile: respirava le emozioni anche quando non le appartenevano e si sfamava delle conferme dei sentimenti di chi la circondava.
Poteva vederlo che la ragazza al suo fianco era genuinamente felice di averla lì.
Era così estraneo sentirsi necessari, sentirsi importanti.
Sentirsi legati.
Le si strinse il cuore.
Se Jolene nascose le lacrime dietro un sorriso, Ariel le indossò come un velo lucido sugli occhi azzurri con lo stesso orgoglio con cui un militare ostenta le mostrine sulla propria divisa.
Quale sentimento doveva prendere il comando?
La gioia di vedere un'amica sorridere? Il sollievo nello scoprire di non essere stata di disturbo o il vanto che sarebbe dovuto nascere spontaneo nel venire trattati con tanta importanza?
«Sei molto bella, così stai benissimo.»
Il suo cervello decise che avrebbe vinto l'imbarazzo. Non riuscì ad avanzare nel discorso, ma ebbe un gran successo nel mostrare le guance tinte improvvisamente di rosso, più forte del leggero velo di blush che la truccava.
«O uhm, anche tu. Cioè nel senso che anche tu sei bella. Cioè stai bene anche così, cioè stai anche benissimo ...argh! Ecco perché scrivo alla Gazzetta e non parlo alla Radio.»
Morse leggermente l'interno della guancia per imporsi una pausa, una digressione.
Consegnò il vassoio in mano a Jolene, lasciando che questa glielo sfilasse prima di muovere qualche passo verso l'interno del salone, decisamente più illuminato dell'androne di ingresso in cui si erano fermate.
«Ho un sacco di dolci, patatine e regali!»
Nel dirlo avrebbe cercato di raggiungere i piedi del divano per farvi ricadere contro lo zaino, una volta sfilato di dosso. Sotto la luce di una delle lampade cominciò a sfilare il tutto e cercare di disporlo sul tavolino di fianco al sacchetto solitario di Mielandia.
Nemmeno si era concentrata sugli animali (uno scandalo) tanto era presa dal voler estrarre tutto e finalmente mettere in atto i festeggiamenti.
Decise di estrarre le cose dalle meno sorprendenti alle più sorprendenti: quattro sacchetti di fagottini ripieni di Burrobirra, un sacchetto di Lumache Gelatinose, due sacchetti di patatine (paprika e classiche) e una scatola contenente due cupcake Graffio di Lupo Mannaro e quattro Attenti al Ragno. Il simbolo di Mielandia era sparso su ogni confezione dei dolciumi, proprio come per quelli che sul vassoio erano stati lasciati da Jolene.
Il vassoio che aveva preso la padrona di casa, invece, una volta liberato del suo involucro di tessuto avrebbe rivelato due futomaki che avrebbe indicato «Quelli a destra sono gli unici magici, fanno fare PUFF alle gambe per svolazzare un po' da terra.» come i fantasmi, ma quello evitò di dirlo «Quelli al centro sono normali» e indicò la portata tombale, composta da 3 Hosomaki (ripiena di tonno), 3 Nigirizushi (con rafano e cetrioli) e 3 Futomaki ( ripiena di uova di lompo, surimi e avocado). «E le mele ti fanno avere la voce che fa "uuuuuh".» le mele caramellate venivano interpretare in una resa molto comica e teatrale del classico lamento del fantasma che fatto da lei sarebbe risultato temibile quanto un coniglietto ciccione in posa.
«E poi c'è questo...» Si interruppe solo quando venne citato Maurizio dalla ragazza.
Gli occhi si aprirono e chiusero rapidamente, stupiti.
"Si conoscono?"
Per un momento il sorriso si fece più ampio, mentre già la lingua si scioglieva per l'entusiasmo:
«Mauri canta benissimo! Pensa che l'ho incontrato proprio ad un locale per quello! Usciamo spesso per bere insieme e fare karaoke, o stiamo in casa a divertirci quando abbiamo giorni liberi. Come ho fatto a non scoprire prima che vi conoscevate? Tendo a nominarti in continuazione e io e te siamo amiche da più di un anno!»
Come si soleva dire fra i giovani babbani: Ariel era un TMI; Too Much Information, lo stesso che con lei spesso mancava di contesto perché parlava con la stessa velocità con cui produceva pensieri, affrettandosi a vuotare il sacco come se l'altra persona sapesse benissimo a cosa Ariel potesse riferirsi o in generale fosse interessata a sentirla blaterare.
Bastò che Jolene si allontanasse verso la cucina perché la sua spensieratezza venisse meno in favore degli ultimi oggetti riposti al fondo dello zaino.
Tirò fuori dal fianco dello zaino una copia di Ventus caelo con la sua particolare copertina rigida pastello e i suoi ornamenti perlati e subito dopo la sua macchina fotografica, disposta per sicurezza in cima alle patatine – che per contro, quindi, saranno probabilmente ridotte per metà in brandelli a furia di sostenerne il peso.
Cibo e libri erano la summa del suo bottino, eccezion fatta per ciò che teneva nelle tasche del cappotto.
«Tutto tranne il Whiskey Incendiario!»
Rispose di rimando, allungando istintivamente il collo verso l'alto nell'alzare il tono per farsi sentire da Jolene. Si sporse per un attimo a sinistra, oltre il divano e in favore della porta aperta di quella che a logica doveva essere la cucina. Rapidamente cercò di sfilarsi di dosso il cappotto e ripiegarlo di lato lungo il bracciolo del divano.
La padrona di casa probabilmente l'avrebbe colta in flagrante mentre si sfilava di dosso il maglione largo verde, mostrando meglio il resto del vestito e i dettagli dei ricami a trama floreale sulle maniche.
«Quando vuoi c'è un'altra cosa nella tasca del cappotto di fronte a me: pacchetto nero col bollino di Zarathustra!» Le alternative alla pesca erano un galeone, sei falci, la sua bacchetta e un pacchetto di mentine.


 
 

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overlayjoleneJolene assistette con una certa meraviglia mentre Ariel dispiegava le forze di un intero esercito di cibo e spuntini.
«Di' la verità, pensavi che avresti trovato mezza Londra riunita qui» scherzò. Accennò distrattamente al sacchetto di Mielandia che originariamente si era trovato da solo sul tavolino:«Ho preso anche io dei dolci. È così che è comparsa lei», e non c'erano dubbi che l'entità in questione fosse il suo fantasma, che allora aleggiava ancora a qualche passo dall'originale.
Inginocchiata accanto al tavolino, Jolene si dedicò al vassoio che aveva preso dalle mani di Ariel, cercando di sbirciarne il contenuto già mentre lo spacchettava. «Ho un debole per la cucina giapponese» ammise. Ripiegò velocemente il panno che aveva coperto tutto, appoggiandolo ordinatamente in un angolo del tavolino; teneva lo sguardo sollevato sull'altra e sottile nelle piccole pieghe che la risata vi disegnava intorno. «Uuuh?» la imitò su un tono leggermente interrogativo, come a chiedere conferma. Si poteva quasi credere che la Jolene-fantasma avesse assunto un'espressione di leggera indignazione – e come darle torto, quando quelle due si facevano beffe del suo stato di spettro?
«Tendo a nominarti in continuazione...»
L'attenzione di Jolene si inceppò su quelle poche parole che, a dispetto forse delle intenzioni di Ariel, suonavano tanto come una confessione. La rossa si dovette mordere la guancia per non lasciarsi andare ad un sorriso troppo ampio ed un po' ebete, come dettava il primo impulso dei suoi stessi muscoli. Fosse stata un altro tipo di persona – più diretta, meno assorbita da quella che poteva essere paura, ma che allo stesso tempo aveva il retrogusto piacevole del più dolce degli indugi –, se si fosse ribellata al comportamento che più le riusciva naturale, Jolene avrebbe probabilmente colto quell'indizio per guidare la conversazione su una strada più dritta, ad esplorare ciò che, tra lei e Ariel, ancora indugiava nell'ombra. Perché, per quanto potessero essere vicine, e nonostante i momenti che trascorrevano insieme fossero plasmati delle straordinarie capacità di ascolto di Ariel in una forma sempre veritiera, anche più di quanto Jolene avesse inteso in un primo momento – nonostante questo, continuavano ad essere divise da una zona di estraneità. Era lì, indugiava appena oltre alla comprensione immediata del modo confortevole in cui le loro personalità si adagiavano una accanto all'altra. Quello spazio, Jolene lo sapeva, poteva ospitare in egual misura incertezza e sorpresa; avrebbe potuto premere al fine di coprirlo, forse, ma la verità era che le piaceva. Le piaceva, anche se non aveva idea di come quella zona di possibilità si fosse espansa nel tempo. Probabilmente avrebbe potuto far risalire tutto a quell'incontro nel giardino di St Dunstain – per molti versi, era quello il loro primo momento insieme, perché la solitudine aveva permesso loro di vedersi con una pienezza che sarebbe stata impossibile tra il caos della partita di Quidditch. Era a St Dunstain che Jolene aveva scoperto come la pelle di Ariel sapesse catturare le trame più delicate della luce, come i capelli chiarissimi scivolassero a coprirle il viso quando si chinava. Forse, si diceva Jolene a volte, solo forse, se lei non fosse stata così assorbita dai suoi mostri, allora quell'attenzione iniziale avrebbe potuto crescere senza essere divorata dalla sua piccola e buia sfera fatta di io.
Ogni considerazione passò in lei nel tempo di un battito di ciglia; e già Jolene sorrideva maliziosa, già voltava la testa appena oltre la spalla per guardare di nuovo Ariel, prima di correre in cucina. «In casa a divertirvi. Capisco

Ariel beveva tutto tranne whisky incendiario.
«E vino sia!» Catturò tra le dita due calici, tenendoli capovolti per lo stelo. I vetri mandarono un tintinnio allegro, festoso come ogni cosa che filtrasse attraverso la percezione della rossa. Riuscì ad incastrare nella sua presa anche la bottiglia di vino, che aveva tirato fuori dal frigo qualche tempo prima affinché raggiungesse la temperatura appena fresca a cui le piaceva gustarlo. Poteva solo sperare che Ariel non trovasse troppo tristi i suoi piani originari di ubriacarsi da sola.
Fece per tornare in salotto, ma poco prima della porta deviò di qualche passo, finendo per specchiarsi nella vetrina dell'ennesimo mobile. Le tornarono in mente le parole impacciate di Ariel – che era bella, e stava bene, e anzi benissimo, e ogni cosa alla fine si era tradotta in una risata che era sgorgata da Jolene come di fronte ad una bella sorpresa. Ciò nonostante, si voltò per appoggiare sul tavolo le cose che teneva tra le braccia; si rifece rapidamente uno chignon più ordinato.
La sua ricomparsa – il CD ruotava ora sulle note di Trimm Trabb – venne anticipata dal tintinnio del vetro e della ceramica. Per qualche passo indugiò con lo sguardo sul vestito di Ariel, con i fiori di pizzo che risaltavano sulle sue braccia bianche.
«Non dovevi disturbarti così tanto» disse poco dopo, mentre appoggiava ogni cosa sul tavolino e Ariel le annunciava un pensiero che aveva preso per lei – un altro, oltre ad ogni modo in cui era riuscita a sorprenderla fino ad allora. «Mi dispiace non avere molto da offrirti, a parte dei dolci incantati e una solida sbronza.»
Ad ogni modo, era curiosa, e così accettò l'invito di Ariel e, dopo a qualche istante di ticchettio di mentine, estrasse il pacchetto dalla tasca che le era stata indicata. Si lasciò scivolare sul tappeto accanto ad Ariel. «Posso?» Le aveva già detto che poteva aprirlo, così quella richiesta di conferma, fatta da Jolene in balia di una certa timidezza, era completamente superflua. Ad un eventuale cenno di Ariel, allora, avrebbe scartato il pacchetto.
«Che cos'è?» chiese mentre ancora cercava il modo per disfare il tutto senza strappare la carta. Quando infine ce la fece e scoprì il bracciale, Jolene fu subito colpita dalla sfera riempita da quello che poteva sembrare mercurio. Immediatamente, le sue oscillazioni pigre ne catturarono lo sguardo.



 
 
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view post Posted on 27/2/2021, 19:27
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overlayariel Cosa tirare fuori prima dallo zaino? Da dove cominciare a mangiare? Cosa fare per divertirsi? Aveva numerose liste di possibili attività da proporre, ma non sapeva da dove iniziare.
Fu un bene che Jolene fosse partecipe alla conversazione, così da poterla condurre lontano dall'ansia che rischiava di auto-indursi nel continuare a mettere in discussione le proprie idee e buone intenzioni.
«Mezza Londra? L'unico motivo per il quale non ho sempre del cibo in mano è perché sono troppo occupata a scrivere.» Non a caso mentre lo diceva, avrebbe aperto il sacchetto di patatine classiche, poggiandolo sul tavolino subito di fianco ai dolciumi di Jolene.
Del resto, già dal loro primo incontro Ariel si era presentata con un menù ipercalorico che aveva mandato giù con la nonchalance e la rapidità che ci si sarebbe aspettati da un licantropo; come facesse ad avere così tanta fame con un corpo così minuto non era noto.
«Non è male.» Ribadì verso il Fantasma di Jolene che ancora specchiava i movimenti dell'originale. Ogni tanto lo sguardo non poteva evitare di ricadere sulle forme opache dello spettro e storcere il naso.
Non era la presenza ideale di un fantasma a turbarla, quanto l'effettiva illusione che era consapevole costituisse.
Era una mancanza di rispetto, la scimmiottatura di qualcosa di molto importante. «Sono dell'idea ci siano troppi stereotipi sugli spettri da smontare. Un fantasma è sinonimo di qualcosa di negativo, spesso, solo perché chi lo vede non riesce ad essere a suo agio con qualcosa di diverso da se stessi o per una paura irrazionale della morte.»
Si morse l'interno della guancia quando finì di parlare.
Aveva reagito d'istinto, mossa da quel "principio etico" che solitamente sfoderava solo quando era protetta dal cartellino della Gazzetta del Profeta, quando ci si aspettava di vederla prendere tutto seriamente e con un approccio spesso critico.
"La sto prendendo sul personale come i bambini, diamine."
«Ma non sono qui per fare un'inchiesta sui pregiudizi, giusto? Insomma, se ne andrà a breve!» Deviò da sola il discorso, sempre pronta a sfoderare dell'autoironia per sminuire sé e ciò che stava dicendo.
Si voltò, tornando a preparare la tavola: aprì i sacchetti dei fagottini ripieni di burrobirra e poi si occupò di disporre con cura i pezzi di sushi sul panno che Gwen le aveva gentilmente preparato all'evento.
«Ho un debole per la cucina giapponese»
Nella sua mente si sollevò un'entusiasta "YESSS" che venne trasmesso al corpo sotto forma di un brivido che la porto a incassare istintivamente la testa fra le spalle, schiacciando le guance e un sorriso soddisfatto.
«Beh sì! Ti nomino spesso, magari non direttamente.» Allungò il braccio verso l'altro sacchetto di patatine, questa volta gusto paprika. «E' facile che tu mi venga in mente. Solitamente non ho rapporti che durano a lungo, quindi voi due siete un'eccezione inaspettata. E tu sei ...»
Si interruppe. "E tu sei?
Per un attimo la stanza si riempì del fragore degli strumenti musicali: Trimm Trabb era alla sua conclusione e Ariel non poté pensare di essere incredibilmente vicina al caos degli strumenti nell'ultimo tratto del brano; la sua sensibilità era tanto forte da portarla a incespicare sulle proprie emozioni con grande facilità, ricordando proprio il "clash" della distorsione musicale delle chitarre elettriche.
Strinse l'occhio destro di scatto, frastornata non tanto dai piatti della batteria, quanto dal mulinare di pensieri che le attraversò la mente.
Sapeva benissimo cosa fosse Jolene.
Era speciale, glielo aveva detto milioni di volte.
Argomentare cosa sentisse, però, non era qualcosa che aveva facilmente desiderio di fare. Esporsi era per Ariel era la causa di piccole cicatrici che aveva accumulato fin da piccola.
«In casa a divertirvi. Capisco
Quindi ripiegò su Maurizio, l'amico inaspettato con cui aveva costruito un rapporto intimo ancor prima di quello amicale: era diventato un inaspettato stimolo intellettuale, tanto quanto una valvola di sfogo di tutti quegli istinti caotici che si era abituata a reprimere.
«Beh sì, anche quello, ma c'è tanto altro che non ci si aspetterebbe! Tipo cantare canzoni italiane che non so pronunciare quando beviamo, o cercare di fargli rimorchiare una bella ragazza al Pub quando andiamo in giro per locali. O parlare di libri: sa un sacco di cose del suo paese che non avevo nemmeno mai sentito nominare.»
Eppure, nonostante il suo desiderio di rimanere lontano da legami duraturi, Ariel era una persona che agognava il contatto col prossimo. Si schermava dietro uno scudo fatto di ambiguità e bizzarrie spesso impossibili da prendere sul serio, ma amava le persone e amava le emozioni che provava quando intraprende una conversazione con loro.
Anche per questo non si ritrovò ad avere problemi ad accogliere l'apparente battuta maliziosa di Jolene e confermarla senza batter ciglia: nella sua testa l'espressione fisica dell'affetto era una conseguenza tanto naturale da non riuscire a comprendere - come per tante altre cose - il taboo che vi stava dietro il vivere un rapporto intimo come un'attività per pochi da nascondere dietro le mura di casa.
Maurizio era un suo amico, gli voleva bene e a volte lo dimostrava col corpo.

«Vinooo.»
Quindi se Jolene avesse reagito male alla sua affermazione, stavolta non avrebbe potuto seguire facilmente il filo dei suoi pensieri, complice la mancanza di contatto visivo fra le due una volta separate dalle pareti della cucina.
Notò, però, come si fosse riordinata l'acconciatura al suo ritorno. Spostò alcune buste per fare spazio ai calici e la bottiglia di vino e donò un sorriso timido all'amica.
«Non è un disturbo, Jolie. Ho deciso tutto io da sola, ricordi?» Avrebbe a quel punto scostato lo zaino, quasi del tutto vuoto, per portarlo al fianco del divano per non essere di impiccio a Jolene quando si sarebbe voluta mettere a sedere.
«Mi dispiace non avere molto da offrirti, a parte dei dolci incantati e una solida sbronza.»

Le scoccò un'occhiataccia di sbieco, come a volerle dire un "non osare scusarti".
Nel mentre a musica scemava in favore di No Distance Left to Run.
La dolcezza del ritmo scandito dal basso dei Blur era particolarmente azzeccata al momento e quando le orecchie captarono qualcuna delle parole riprodotte dal cd, non poté evitare di girarsi verso lo stereo, scoccandogli un'occhiata sorpresa.
"I hope you're with someone who makes you
feel safe in your sleeping tonight"

«E' un Bracciale Yurei.» Parlò a mezza voce, distratta dal brano.
"Ci sto ricamando sopra perché sono scema. No. No. Oscilla sul posto, ma non romanzarci sopra, Ari. Ricorda: controllo sulle emozioni."
Aveva cominciato a muoversi lentamente sul posto, oscillando fra un ginocchio e l'altro contro il tappeto su cui era ancora seduta dopo aver disfatto la sua borsa.
«Il liquido al suo interno sembra quello di una ricordella: diventerà simile ad una nube quando ci saranno degli spiriti vicino a te.» La mano destra venne sollevata, mostrando il palmo come a dirle prontamente uno "Stop". «Quelli veri. Quelli che si temono. Se hanno intenzioni ostili il fumo diventa rosso.»
Lo sguardo oscillò fra il volto curioso dell'infermiera e l'accessorio che aveva sfilato dal suo pacchetto.
Fu così che si rese conto di come, per l'ennesima volta, avesse fatto qualcosa seguendo un "perché" che probabilmente riusciva a comprendere solo lei, provocato da tutti i monologhi interiori con cui era solita intrattenersi.

«Sappiamo entrambe perché Halloween non è una buona festa per te quest'anno. Non so cosa di quello che hai vissuto ti abbia scosso di più.»
La strage di High Street a Hogsmeade gravava sulla mente di Jolene dall'Agosto scorso e lei lo sapeva. Numerose erano state le occasioni in cui aveva dovuto prendere il controllo e gestire i passi di Jolene per condurla lontano da qualunque trigger di un attacco di panico o un flashback di cui spesso non avrebbe nemmeno sentito i dettagli.
«Ma so che a volte li vedi. Lo hai detto.» O urlato, o singhiozzato. «Lo hai detto alcune volte, hai accennato. E ... se non ci sono io a dirti che sono solo lì.» Piegò la mano destra puntando con l'indice il suo petto, il cuore. «Può esserci quel bracciale a farti capire che non sono reali. Che è tutto un ricordo, un incubo.»
Si morse il labbro inferiore, lasciando che la musica invadesse nuovamente il salone, coprendo i silenzi.
Fece spallucce, poi, quasi come a voler dire col corpo un "tutto qua" e insabbiare il vorticare di emozioni che sicuramente presto avrebbe investito anche Jolene.
Fu anche per quello che decise in quel momento si alzarsi da terra e aggirare il tavolo per raggiungere la poltrona dove civetta e gatto stavano ancora poltrendo: coccolare un'animale, si sa, era il metodo migliore per calmare il cuore.


 
 

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Bracciale Yūrei
Gioiello dal cinturino in cuoio, porta incastonato in una piccola sfera di vetro infrangibile un fluido argenteo, il cui potere è connesso alla presenza di spiriti e spettri. Se colui che lo indossa si trova nei pressi di uno Spirito, ad esempio, il fluido diviene gassoso e si connota di sfumature dal bianco al rosso, attraverso tonalità intermedie, che ne certifica la pericolosità.
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view post Posted on 13/3/2021, 20:10
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overlayjolene Jolene guardò distrattamente la sua stessa figura argentea, quello spettro finto che l'aveva pedinata negli ultimi minuti. La voce di Ariel le arrivava ora seria, severa quasi, segno che i pregiudizi riguardo agli spettri le stavano realmente a cuore. Jolene, a dire la verità, non aveva mai dedicato grandi riflessioni all'argomento. Era cresciuta a Hogwarts, lì continuava la propria vita come lavoratrice e, come ogni abitante dell'antico castello, era abituata a condividerlo con i fantasmi. Non era alla morte che pensava ogni volta che scorgeva la Dama Grigia, e non veniva attraversata da brividi di orrore quando qualsiasi altra figura spettrale compariva all'improvviso, come un ricordo rigurgitato dai muri di pietra. Il Barone Sanguinario sapeva infondere una buona dose di inquietudine, ma quello dipendeva meno dalla sua natura di fantasma che dallo sguardo terrificante che probabilmente aveva avuto anche in vita. Tutto ciò avrebbe potuto dire ad Ariel, ma si trattenne, perché un'unica espressione aveva invischiato i suoi pensieri come in una tela di ragno: una paura irrazionale della morte. Più si rigirava quelle poche parole nella testa, meno si sentiva propensa a chiacchierare. Forse non la associava così direttamente agli spettri, ma l'idea della morte rimaneva una costante tra i suoi pensieri. Prima il rischio che le venisse portato via il padre, in seguito il massacro di quarantuno innocenti avevano esasperato la tendenza alle riflessioni morbose. Ripensò al minuscolo cadavere di rondine che aveva trovato qualche mese addietro – tra tutte, era quella l'immagine che immediatamente associava alla morte – e si sentì rabbrividire, mentre le labbra restavano serrate nel rifiuto di produrre un qualsiasi suono. Forse la paura era irrazionale, e allora? C'era mai stato qualcosa che aveva cessato di fare male solo perché irrazionale?
«Insomma, se ne andrà a breve!»
Jolene staccò gli occhi dal punto indefinito che aveva fissato attraverso i contorni semi-trasparenti dello spettro e li riportò su Ariel. Annuì leggermente: «Hm-hm», ma era chiaro che stava ancora girando nel vortice dei propri pensieri. Notò solo allora che Ariel aveva cominciato a preparare la tavola, aprendo i sacchetti di patatine e disponendo i pezzi di sushi mentre lei, Jolene, era rimasta lì come assente. Le capitava, talvolta, di accorgersi all'improvviso di non aver prestato attenzione; ma non era ciò che desiderava per quella serata, non quando Ariel meritava che ogni suo sguardo fosse presente, ed ogni espressione vicina. Fu particolarmente facile tornare interamente , nel momento presente, mentre, il fiato sospeso, attendeva che l'altra completasse la propria affermazione.
«E tu sei...» La guardò di sottecchi, ma poi Ariel tacque. Lo fece perché era inutile ripetere molte altre occasioni, o perché da allora era sopraggiunto qualcosa di inesprimibile? Ma Jolene rimuginava troppo, come suo solito.
Fu una fortuna che desse le spalle ad Ariel quando quest'ultima continuò a parlarle di Maurizio. Anche quello, aveva detto, inaspettatamente, quando Jolene aveva desiderato solo stuzzicarla. L'idea che tra i due ci fosse una relazione sfumò nell'immediato, ma per qualche ragione Jolene continuò a pensarci. «Oh sì, l'Italia è tutto un altro mondo, meravigliosa.» Se ne andò in cucina sulla scia di una delle affermazioni più generiche e banali con cui se ne potesse uscire. Si era ripromessa di essere presente in ogni momento, eppure già veniva assorbita da se stessa, da quella sgradevole sensazione di stare scomoda, nei propri vestiti o nella propria pelle, in tutto il momento presente.

In qualche modo aveva accantonato tutto ciò che avrebbe potuto guastare il buonumore suo o di Ariel. Gli unici ricordi che sarebbero rimasti di quella serata sarebbero stati caldi, dorati, scanditi da sorrisi reciproci.
Questo, quantomeno, si era detta Jolene nel tornare dalla cucina, ma forse avrebbe dovuto ascoltare con più attenzione la malinconia profonda che aleggiava nella stanza – una malinconia lenta e vagamente metallica, così come veniva riversata dalle casse dello stereo. A malapena si accorse del movimento di Ariel quando questa si girò verso la musica, quasi che vi avesse riconosciuto qualcosa di importante. Ma Jolene, rapita dal bracciale, lo inclinava dolcemente da una parte e dall'altra, cullando il liquido argenteo che continuò a studiare per la maggior parte del tempo che servì ad Ariel per spiegare la sua natura e il suo significato. Lo sguardo di Jolene pesava, tanto era difficile smuoverlo. Se ne stava lì, come lontana, i movimenti dei polsi dolci e distratti. Solo il tremito del labbro inferiore sfuggiva ad ogni controllo come un indizio rivelatore, l'unico, quando qualsiasi altro restava intrappolato tra le sue ciglia abbassate. Quella bocca esitante non avrebbe potuto rispondere all'istinto primo, che altro non era se non il desiderio di una leggerezza falsa. Aveva di fronte la stessa persona che tante volte l'aveva presa per mano e, con la fermezza morbida di chi non ha bisogno di spiegazioni, l'aveva guidata fuori da un mondo di orrori – come quella volta in cui stavano passeggiando per Hogsmeade, e Ariel aveva saputo leggere l'improvviso bisogno di Jolene di allontanarsi da ogni sconosciuto. Altre volte non c'era molto da fare se non aspettare, e Ariel si era dimostrata paziente anche allora. Perché, allora, Jolene era così ingrata? Perché desiderava nascondersi come una cosa che appartenga alle tenebre, che strisci lontano da ogni sguardo perché non sopporterebbe di vedervisi riflessa?
”When you see me
Please turn your back and walk away.”

Non avrebbe saputo dire che cosa la spinse a fare un passo in avanti. Era vagamente cosciente del corpo di Ariel a qualche metro di distanza, davanti alla poltrona verso cui si era allontanata, tradita probabilmente da qualche timore a cui Jolene non poteva giungere. L'istinto era distanza, era la solitudine di una vita. Quando decise di lottare contro di esso, Jolene serrò la mascella e il labbro smise di tremare – fu il primo indizio che stesse per rompere il silenzio.
«Quello che appare sempre è il venditore di fiori.» Si interruppe, trasse un respiro profondo. Avvertiva già il pizzicore agli occhi, ma voleva continuare: avrebbe chiamato a raccolta tutti i suoi spettri, li avrebbe allineati di fronte all'amica, cui non aveva mai voluto nemmeno descriverli. «Lui... Lui è morto mentre si aggrappava a me e cercava di dirmi qualcosa di importante. Non ho mai saputo cosa fosse.» Strinse le labbra, sapevano di salato. Piangeva silenziosamente, e ancora guardava il bracciale tra le sue dita. «C'è anche una bambina. L'hanno coperta con un lenzuolo, non l'ho mai vista in vita. C'erano così tanti bambini lì, Ariel, doveva essere una festa. Uno era stato trafitto dal palo di un carretto, proprio al centro del petto. L'abbiamo aiutato, credo... credo che sia vivo. Ma quando lo vedo io non lo è mai, è sempre morto.» Si passò la mano su una guancia, poi sull'altra, asciugandosi le lacrime come meglio poteva. La voce le tremava, ma voleva terminare. «È morto anche un Medimago che mi ha aiutato. L'ho scoperto dopo, avevo chiesto di lui per ringraziarlo.» Ormai aveva perso del tutto il controllo. Le spalle sussultarono quando tentò di reprimere un singhiozzo. Non importava, si disse. Non importava, perché finalmente aveva dato voce ad ogni fantasma che si portava dietro. «A volte vorrei che ci fossero tutti» mormorò alla fine, e il suono umido della sua voce era appena udibile. Avrebbe voluto ospitare tutte e quarantuno le vittime di quel giorno – sembrava l'unico modo per rendere giustizia alla loro morte ingiusta.



 
 
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view post Posted on 17/3/2021, 03:23
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overlayariel Mr. Butler aveva preso il ruolo da quel giorno di scudo felino per le emozioni di Ariel.
La giornalista si era rannicchiata contro il bracciolo della poltrona, avvicinando il volto al gatto affinché questo potesse annusarla e memorizzare il suo odore, oltre che comprendere le sue impressioni.
L'empatia animale avrebbe potuto percepire una punta di apprensione e tensione mescolate ad angoscia, mal nascoste nel profumo dell'incenso alla lavanda che le impregnava la pelle.

Poi Jolene cominciò a parlare e qualcosa si mosse rapidamente nel cuore di Ariel.
L'empatia si mescolava a quel sentimento di profondo affetto che provava per l'amica.
Alzò di scatto il volto, cercando uno sguardo spezzato dai ricordi che le venivano descritti.
Egoisticamente il suo desiderio di conoscenza le fece pensare "Finalmente": la storia stava venendo esposta assieme alle sue emozioni. Stava viaggiando nuovamente nella vita di qualcuno e alla sola consapevolezza dell'importanza del momento il cuore cominciò a battere rapidamente, pompando adrenalina nel sangue.
Poi l'empatia scostò la curiosità, sospingendo il volto di Ariel oltre le parole.
Le bastò mettere a fuoco le lacrime che sporcavano il volto di Jolene perché un nodo si stringesse alla bocca dello stomaco.

Jolene avrebbe avvertito il calore della pelle di Ariel e la delicatezza con cui le mani pallide avrebbero risalito le sue braccia, cercando di risalirne il profilo con delicati movimenti delle dita, tracciando linee sottile con la punta degli indici.
Lasciò che si asciugasse le lacrime da sé, non impose la propria presenza, seppur con quei gesti avrebbe cercato di lasciare al corpo di Jolene un input chiaro: non era tornata indietro ad High Street, ma era ancora a Londra, un anno e due mesi dopo il disastro.

Quando i primi sussulti ruppero la struttura di apparenze dietro cui Jolene cercava ancora di aggrapparsi, mosse due passi in avanti cercando di irrompere nello spazio personale della ragazza.
Le braccia si sarebbero sollevate leggermente, quanto le bastasse perché le mani potessero cercare le dita altrui per intrecciarle in una stretta leggera.
Le avrebbe sfiorato la guancia umida con la sua, mentre in un gesto istintivo avrebbe cercato di strofinarle il volto col proprio, ricordando nel gesto un gatto in cerca di contatto fisico.
Doveva essere una vista buffa da un punto di vista esterno, ma la dolcezza con cui lo sguardo melanconico di Ariel si concentrava sul profilo vicinissimo di Jolene avrebbe dovuto lasciare intuire come vi fosse una necessità di contatto a muoverla: era il suo linguaggio del corpo a imporglielo.
Jolene doveva starle vicina. Doveva toccarla. Doveva farle sentire la sua presenza, il suo odore. la sua dolcezza, il suo affetto
«Non sono più qui.» la sua voce,
«La Morte li ha dovuti portare lontano, oltre il Velo, lontano dalle fiamme dove non fa più male, Libi.».
Molti avrebbero trovato fuori luogo una considerazione tanto pragmatica in un contesto così fragile pieno di vulnerabilità, eppure Ariel suonava accorta, leggera. "La Morte" che faceva paura anche a loro maghi, venne pronunciata in un sussurro morbido che rendeva il ruolo del cupo mietitore meno un taboo temuto, più un amico lontano, un parente saggio da ricordare con dolcezza.
La ammirava la Morte per ciò che faceva, per il ruolo di spicco che aveva nel cerchio delle loro vite, ma empatizzava con lei: mal vista per ciò che poteva significare, sola nei suoi viaggi in cerca delle prossime anime da accompagnare, vittima di pregiudizi, ma sempre pronta ad andare avanti nel proprio ruolo a testa alta.
«Ma tu sei ancora lì. Sei ancora fra le fiamme.»
Voltò il capo lentamente, sollevandolo per cercare di portare le labbra contro la fronte altrui, sfruttando quei pochi centimetri d'altezza di differenza.
Le avrebbe dato un bacio leggero, prima di allontanarsi appena, quanto servisse perché Jolene potesse alzare indisturbata il volto per guardarla.
«Non farti portare via anche tu.»
Suonava come se sottintendesse un "ti prego" che non osava pronunciare. Si sarebbe sentita pretenziosa, egocentrica: come poteva pensare di potersi imporre così sulla vita di Jolene?

Quindi diede spazio non alle parole, troppo codarda per spingerle fuori dalla gola, oltre il nodo che le stringeva ancora la gola.
Si sporse appena in avanti, flesse il busto e d'istinto avrebbe cercato di accentuare la presa delle dita intrecciate con quelle di Jolene.
Avrebbe accostato le labbra prima all'occhio sinistro, dando tempo all'infermiera di chiuderlo e poi al destro, sempre nelle stesse tempistiche. Erano baci leggeri, carichi di affetto e senso di protezione. Non si sarebbe frapposta fra il dolore di Jolene e le sue lacrime, ma le avrebbe accompagnate con affetto, discendendo dopo il secondo bacio contro la guancia destra, umida per le lacrime. Un terzo bacio sarebbe stato lasciato sulla gota arrossata, prima di voltarsi e cercare di fare lo stesso con un quarto bacio sulla guancia sinistra.
«La mia famiglia.»
Le tremò la voce nel riprendere a parlare.
Si stava esponendo.
Era davvero una buona idea farlo?
Il nodo allo stomaco risalì l'addome improvvisamente contrattosi e cercò di avvilupparsi ora alla gola.
"Non è così importante, alla fin fine, quando era per lei, no?"
«Mi è stato insegato il valore della vita partendo dall'importanza della Morte. E' la presenza stessa di questa a dare peso a ciò che si è e si è stato.
Una vita si dice abbia valore quando lascia qualcosa dietro di sé. Tu hai i ricordi, la consapevolezza di una storia dietro i volti di ognuna di quelle persone. Significa che il tuo dolore ha dato ulteriore valore alla loro perdita e … ci piace pensare loro lo sappiano e lo sentano e te ne siano grati. Va bene ricordare il dolore, Jolene.»

Era difficile la chiamasse per nome, preferendo solitamente vezzeggiativi e nomignoli tutti per loro.
Ma ora che la guardava, leggermente china perché fossero l'una perfettamente di fronte all'altra, aveva cura di voler trasmettere quelle che per lei non erano più solo parole di supporto, ma anche una lezione importante che a suo tempo sua madre e suo nonno le insegnarono a Skjòl.
«Ma rivivere il dolore e ricordarlo sono due cose diverse. Il primo ti intrappola in un incubo, il secondo ti fa crescere.»
Voleva capisse la differenza, proprio come un tempo aveva dovuto fare anche lei da più giovane, seppur in una condizione di beata ignoranza lontana dalla sofferenza che stringeva il cuore di Jolene.
«Ma fino ad allora, fino a quando non riuscirai a capirlo davvero, sarò qui a ripetertelo. Potrai piangere e urlare senza vergogna.»
Provò a deglutire di nuovo, seppur con fatica.
Strinse ancora le dita attorno alle sue, cercando inconsciamente di scaricare la tensione nella ricerca di contatto fisico.

Erano vicine, avrebbe potuto sentire il fiato caldo della ragazza contro il suo, ma non osava scostarsi da lei.
Le sarebbe piaciuto poter dire a se stessa che era mossa solo da affetto incondizionato per lei e non vi fossero secondi fini dietro quella vicinanza e quell'ossessione per il costante contatto fisico.
Eppure, ea era grande abbastanza da sapere di non avere bisogno di mentire anche a se stessa — era una codarda, non una bugiarda.
L'istinto di Ariel le stava dicendo di non piantare i piedi per terra ma farsi avanti, rompere la tristezza del momento con un'azione più avventata e dare la possibilità a Jolene di decidere se accogliere o meno un gesto che avrebbe reso il loro rapporto meno un'amicizia, più ben altro.
Ariel lo sapeva bene cosa volesse dirle lo stomaco chiuso, il nodo alla gola, il petto che si alzava e abbassava rapidamente mentre lei cercava di darsi un contegno.
"No."
Era codarda, però e quindi rimaneva dov'era.
Troppo vicina, ma anche troppo lontana.

 
 

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view post Posted on 13/4/2021, 22:13
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overlayjolene Accartocciata su se stessa, Jolene non si accorse dello spostamento che portò Ariel al suo fianco. In un momento la percepiva lontana, una figura ai margini del proprio campo visivo; in quello dopo, ecco il suo tocco percorrerle le braccia con gentilezza, ecco l'intreccio delle sue dita tra le proprie. Jolene non si ritrasse; non strisciò via, come la cosa infelice che sentiva di essere. Allontanarsi avrebbe significato offrirsi in preda al passato, diventare ancora una volta quell'essere minuscolo ed impotente sotto ad un gigante in collasso. Ma, soprattutto, avrebbe significato allontanarsi da Ariel, e ciò sarebbe stato insopportabile. Sotto al macigno che le opprimeva il petto rischiando di compromettere la sua respirazione, Jolene per poco non sbuffò una risata, quando pensò che non aveva mai conosciuto qualcuno che strofinasse il volto contro al suo, proprio come un gatto.
Si aggrappò a quel pensiero per appropriarsi pienamente della realtà presente. Si impose di sentire ciò che la circondava: le dita di Ariel strette ad una mano, il tappeto lanoso sotto all'altra, e il leggero dolore alle ginocchia dopo che era rimasta a lungo nella stessa posizione. Non c'era più musica, ora, nella stanza, il cui silenzio veniva interrotto solo dai suoi respiri pesanti e irregolari, e dalla voce di Ariel. Jolene la ascoltava senza incontrare il suo viso, lo sguardo abbassato verso le loro dita intrecciate. Chiuse gli occhi inspirando bruscamente, mentre l'istinto di piangere sfuggiva ancora una volta al suo controllo. Tu sei ancora lì, aveva detto Ariel; il corpo di Jolene, le sue emozioni, tutto tradiva la verità dolorosa di quell'affermazione. Era ancora lì, a dispetto – o forse proprio a causa – del fatto che i suoi giorni non fossero terminati nella piazza sotto attacco. Da allora, aveva avuto molto tempo per conoscere la Morte, colei che Ariel aveva nominato come se non ci fosse nulla da temere da lei. Era la morte a dare valore alla vita – così proseguì l'islandese, le sue parole un balsamo che Jolene avrebbe voluto accogliere affinché lenisse le sue ferite. L'avrebbe voluto – ma troppo a lungo aveva nutrito consapevolezze ben diverse, che ora le si affacciavano alla mente ricordandole che nessuna di quelle persone aveva desiderato trarre le somme della propria vita in quel momento; no, Jolene non poteva vedere nessuna grandezza consolatrice, che nondimeno ascoltava dalle labbra di Ariel come un canto di consolazione. La morte poteva essere terribile e fin troppo reale, ma lì, lì non poteva raggiungerle.
Questo sentiva Jolene, mentre indugiava in lenti battiti di ciglia su cui sentiva ancora aleggiare baci leggeri. Là dove Ariel la sfiorava con il suo calore, la pelle perdeva la sua rigidità di piombo e cessava di essere la prigionia mortale che Jolene aveva imparato a riconoscervi. Ad ogni nuovo contatto il suo corpo si era ammorbidito, reclinandosi contro quello dell'altra mentre le dita rafforzavano la stretta sul loro intreccio. Arrivò, come una sorpresa a lungo attesa, la consapevolezza che lei desiderava quella vicinanza. Eppure, si mostrava timida, reticente a chiedere più di quanto non le fosse già stato concesso. A dispetto di ciò che le aveva detto Ariel, la vergogna – di essere così spesso debole, di chiedere, senza chiederlo, ad Ariel di trovare forza per entrambe –, quella reticenza bruciante si insinuava nel suo corpo, limitandone la libertà. Quanto poteva ancora domandare ad una persona che già stava facendo così tanto per lei? Che prometteva di esserle accanto, per quanto difficile fosse?
Il pianto si era calmato, e il respiro stava tornando al suo ritmo naturale. Sotto a quel che rimaneva di un umido velo salato, però, il rossore non accennava ad attenuarsi sulle guance. Ora che il suo corpo le dava una tregua, Jolene cominciava ad accorgersi di una certa tensione in quello dell'altra – o se lo stava forse immaginando? Ariel era così vicina, e non accennava a volersi allontanare; nemmeno Jolene lo fece. Sollevò lo sguardo, cercò di specchiarsi nel suo.
«Io...» Intercorse l'esitazione di un respiro. Voleva dire che le dispiaceva, ma sapeva quale sarebbe stata la risposta di Ariel: che non doveva. E così, Jolene scelse altre parole: «Io voglio davvero essere qui, con te, Ariel. Solo qui, per intero». Lì, invece che nei suoi incubi, nei ricordi che riprendevano il sopravvento con tutta la forza di un vissuto insopportabile. Non voleva piangere, anche se andava bene. C'era così tanto altro che la attendeva, fuori dal suo dolore, e in quel momento, più che mai, ne sentì l'importanza.



 
 
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Edited by Unconsoled - 4/5/2021, 20:39
 
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view post Posted on 18/4/2021, 03:16
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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overlayariel Il primo giro di scanalature vuote venne percorso dalla testina del giradischi.
La conclusione dell’album dei Blur venne accolta da suoni bianchi, rimbalzi di singulti che con un ultimo eco si confondevano fra le parole di Jolene.
“Solo qui, per intero”
Ariel fremé. Un sussulto le risalì impetuoso il petto, un secondo le aggredì la spina dorsale costringendola a irrigidire il busto e premere le ginocchia contro la setole morbide del tappeto.
Voleva piangere.
Voleva piangere perché il dolore di Jolene le pizzicava le labbra con ogni bacio che aveva apposto sul suo viso.
Il salato delle lacrime versate e raccolte dietro le sue attenzioni si era tramato in un gusto amaro ed acidulo.
Jolene voleva essere lì con lei, ma non ci riusciva. Avrebbe voluto, quindi non era possibile.

Ariel aveva vissuto per decenni con la convinzione di dover vivere una vita fatta di distanze e solitudine.
I Vinstav erano fatti per esser storie, folklore, perché di esseri e spiriti non era bene parlare nemmeno fra i maghi, non quando ci si sporcava il sangue come loro con presagi di malaugurio e animali bastardi.

E ora Jolene White, che strinse amicizia con lei chiedendole di non chiedere mai scusa a nessuno per ciò che era, era in ginocchio, esposta nella sua fragilità e con il volto gonfio di lacrime.
Voleva essere lì con lei.
Soffriva perché la morte le era stata troppo presto vicina, soffriva perché il dolore non le permetteva di stare con lei.

Ariel voleva piangere.
Voleva piangere perché sennò avrebbe riso. L’avrebbe fatto così forte da far paura alla Morte e farla tornare indietro, oltre il velo, a controllare che quella sua vecchia amica non fosse diventata matta del tutto.
Che ironia la vita. La morte aveva spezzato le ali della rondine più bella di quel grigio cielo d’Inghilterra e l’aveva portata fra le braccia di chi del presagio ne sentiva l’eco.
Il Karma se esisteva era un pezzo di merda.
Se lo ripetè con rabbia, mentre le mani stringevano di rimando le dita contro cui erano intrecciate.
Le labbra umide delle lacrime raccolte contro la guancia sinistra di Jolene si abbassarono, sfiorarono la punta del naso arrossato per schioccarle un bacio leggero e poi si fermarono, sospese a mezz’aria di fronte alle labbra tremanti dell’amica.

Schiuse la bocca, pronta a dire parole che le morirono in gola.
Stupida codarda.
Titubava con il corpo, titubava con la mente.
Lo sguardo scivolò sulle loro dita, pallide per la stretta che insistevano a mantenere.
«La morte dà importanza.»
Le tremava la voce. Avrebbe voluto suonare sicura, impavida nel portare avanti la sua lezione. Invece tremava e scappava fra le dita di Jolene, seppellendo gli occhi blu tra le ombre che i loro corpi proiettavano in terra.

«È colei che ci permette di poter ricordare tutto ciò che ci ha fatto sentire vivi fino al momento in cui la incontriamo.
Non è la morte il problema, Jolene, ma morire. È chi ha ucciso ad aver fatto le cicatrici, non il sangue.
Lei ti accompagna dove non soffri, non è lei a pronunciare gli anatemi.
Non è importante quanto a lungo vivi, ma a quante cose ti hanno fatto sentire viva.»

Un fremito percorse le braccia, discese i polsi e si scatenò sulle mani.
Non poteva più nascondersi, nemmeno quella stretta era abbastanza.
La gola si era stretta, si era fatta riarsa e bollente.
Era una barzelletta.
Come sempre Ariel si confermava per se stessa un’idiota, una barzelletta di un comico che era uno stronzo.

Non poteva dirle di odiare insieme la morte come le persone normali.
No. Ariel di normale aveva soltanto la voglia di scappare da quell’appartamento.
Perché era assurdo, si diceva, era assurdo che fosse lì a parlare di un attentato e farne un’analisi filosofica per cercare di spiegare ad una donna spezzata da un trauma che ciò che aveva vissuto non era poi così brutto come pensa. Perché senza contesto poteva suonare così, no?
Una deposizione a sostegno della morte.
Era l’avvocato del diavolo, letteralmente, che stringeva le mani al testimone in lacrime al banco del giudice.

«Ma dovrei dire qualcosa di diverso.
Dovrei dirti che sei sempre con me anche quando non è vero.»
.

Così nella disperata necessità di spezzare le catene del proprio personaggio, Ariel cominciò a farneticare.
Le parole vennero lasciate andare.
I pensieri le cominciarono a scaldare il volto e le lacrime a pizzicarle gli occhi.
« Perché in questa vita che mi è stata insegnata essere fragile, ho imparato a vivere di un ottimismo insano. È come un raggio di sole nelle notti più buie. Sono i momenti che colleziono a farmi capire che ho vissuto. Che valgo.
Sono i miei sogni e le mie speranze che mi muovono.»
Si fermò.
Da quando aveva smesso di guardarla?
Sfarfallò le ciglia. Mise a fuoco a fatica la trama irregolare del tappeto sotto di lei e le chiazze scure che le sue lacrime avevano disseminato.
Ah. Stava piangendo?
« Qualunque cosa succeda ancora o dopo, mi dico che ci sono ricordi ed esperienze che mi renderanno felice. Che mi faranno sentire di aver ancora di che sperare.
Perché potrebbe sempre essere troppo tardi, capisci Libi? Potrebbe sempre essere troppo tardi per vivere, quindi non puoi mai smettere.»


Le mani persero della loro forza, lasciando il vincolo della stretta a Jolene.
L’avrebbe guardata solo a quel punto, conscia di avere gli occhi velati ancora dalle lacrime e il volto arrossato per quelle emozioni che le stringevano il cuore.
Deglutì a fatica, stringendo le labbra che per la tensione schiacciò sotto la pressione degli incisivi.

«Quindi qualunque cosa succeda non vorrei mai soffrire perché non ho provato ad esserci o farti rimanere.» Si irrigidì, incapace di capire dove andare avanti col discorso.
Era ad un bivio.
Poteva dirle che le voleva troppo bene per vederla così.
Era un cliché, certo, ma era una conclusione degna per un discorso così pesante da continuare.

Ma avrebbe mentito.

Ariel era triste, certo, ma non solo.
Soffriva perché era Jolene a farlo, perché Ariel era empatica, perché teneva al loro rapporto più di quanto avesse mai ammesso a voce.
Ariel era anche felice, perché Jolene White – che le Rune l’assistessero! – aveva bisogno di stare con lei.
Era egoista, era stupido e Ariel si odiava un po’ ad ammetterlo, ma sentirsi importanti era una cosa che le andava alla testa e a cui non era abituata.
Non era la gloria, non era l’ego a farle battere il cuore così.
Era Jolene. Era sapere che lei stesse combattendo la sua sofferenza per cercare di dirle, almeno, che avrebbe voluto stare al cento per cento con lei, invece che tornare ad High street nei suoi incubi ad occhi
«Non voglio rimorsi. E non dovresti volerli nemmeno tu.»
Lo disse in un sussurro.
«Quindi puoi stare con me, ora?»
Era una preghiera, l’ennesima richiesta che in ginocchio le veniva rivolta.

 
 

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view post Posted on 9/5/2021, 17:39
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overlayjolene Il silenzio si avvolgeva come un bozzolo protettivo intorno alle loro due figure intrecciate. Lontano, incredibilmente lontano, sulla strada, qualcuno rideva a gola spiegata, mentre il rombo di un motore nasceva solo per spegnersi, qualche istante dopo, oltre alla prima curva. Tanti suoni arrivavano attutiti dentro all'appartamento in penombra, perdendo completamente di importanza; Jolene, che non se ne accorgeva se non distrattamente, aveva come l'impressione che non esistesse atmosfera al di fuori della ristretta area occupata da lei e Ariel. Sentì il corpo dell'altra tendersi contro il proprio, sentì il sussulto cui non avrebbe saputo dare un significato, appena prima che Ariel le donasse un altro bacio carico di tenerezza. Le sue palpebre, le sue guance, la punta del suo naso; Ariel aveva percorso ogni centimetro del suo viso, e Jolene desiderò che non indugiasse ancora di fronte a quell'ultima barriera che erano le sue labbra. Non era un pensiero nuovo, non del tutto, ma si rivelava ora con una concretezza che altre volte gli era stata negata.
Ariel, però, scelse di colmare il silenzio piuttosto che le distanze. Lo sguardo muschiato percorse per qualche secondo ancora il volto che conosceva così bene e che, tuttavia, le appariva ora come per la prima volta. Le lunghe ciglia erano calate sugli occhi di Ariel, nascondendone il colore di cielo sereno; Jolene venne presa da un'analoga timidezza, e tornò anche lei ad osservare il tappeto, e le loro ombre intrecciate. Cercava di leggere, al di là delle parole in cui si articolava il pensiero dell'altra, il tono con cui esso veniva espresso: la voce di Ariel tremava, mentre le confidava le sue certezze. Jolene si domandò se fosse lei la ragione, o se, a dispetto di tutto, per l'islandese fosse difficile esprimere delle idee di una portata così grande. Era curioso, pensò Jolene, ascoltare quei frammenti di saggezza pronunciati da chi, così spesso, atteggiava il viso nelle espressioni di una bambina. Sapeva essere giovanissima ed antica, Ariel, e a Jolene sembrava incredibile che le fosse concesso di conoscere entrambe quelle sfaccettature.
Anche lei si sentiva insieme giovane e vecchia: era stanca, terribilmente stanca, ad un passo dallo svuotarsi come un recipiente ormai inutilizzabile; allo stesso tempo, desideri dai contorni luminosi si rincorrevano appena al di là della sua portata, così che rincorrerli – quanto avrebbe voluto rincorrerli! – avrebbe significato lanciarsi in qualcosa di largamente sconosciuto. Jolene fremeva ed esitava, sentendosi ora troppo giovane, ora troppo vecchia per quello che avrebbe voluto vivere.
«Potrebbe sempre essere troppo tardi per vivere, quindi non puoi mai smettere.»
Jolene annuì: Ariel aveva ragione, certo che aveva ragione. Ogni sua parola era ciò di cui lei aveva bisogno e forse, in fondo, Ariel stava cercando di convincere anche se stessa, oltre all'amica.
Quando percepì l'assenza delle dita dell'altra tra le sue, Jolene alzò istintivamente il viso. Incontrò davvero il suo sguardo, allora, e vide che era velato dalle lacrime. La sua reazione fu immediata: carica di tutta la tenerezza che aveva assorbito dai gesti dell'altra, allungò un braccio per stringerle la vita – voleva farle percepire quanto fosse vicina, , davvero lì. I labirinti bui della sua mente si scioglievano di fronte alle lacrime di lei, alla sua vicinanza ad un tempo dolce e amara. La stretta che le faceva traboccare il cuore di emozione, ora, era solo per lei. I fantasmi erano lontani – il venditore di fiori e il medimago e la bambina sotto al lenzuolo; sarebbero tornati di notte, ma in quel momento era giorno – era pieno giorno nella luminosità riflessa come un'aureola tra i capelli chiarissimi di Ariel, e sul suo viso bianco, e caldo contro alla pelle di Jolene quando lo incorniciò nella propria mano; perfino le sue lacrime erano luminose, mentre una delle loro tracce veniva asciugata da una carezza leggera del pollice.
Jolene sentì tornare il pizzicore agli occhi, ma era solo un riflesso, perché ora la tristezza non faceva più male. Così, non distolse lo sguardo, per quanto veloce potesse correre il suo cuore.
«Quindi puoi stare con me, ora?»
«Non potrei essere da nessun'altra parte» disse in un sussurro. Si concesse di indugiare ancora un altro istante sul suo viso – così bello, così triste, e forse speranzoso, in una scintilla dei grandi occhi liquidi che forse c'era davvero, o forse trovava spazio solo nella sua immaginazione. E poi, dietro alle palpebre abbassate, Jolene scelse di esserci davvero. Se Ariel glielo avesse concesso, avrebbe chiuso definitivamente la distanza che ancora le separava, così da incontrarla nel bacio di cui aveva sentito la mancanza. Fronte, palpebre, guance – e ora labbra, le labbra che aveva capito di desiderare, in una leggerezza carica di tutta la dolcezza che le faceva sentire il cuore grande, grande e pieno.


 
 
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view post Posted on 28/5/2021, 20:03
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overlayarielLa baciò.
Era reale, stava succedendo.
Eppure, si disse che stava vivendo un sogno.
Non osava aprire gli occhi, umidi ancora di lacrime che volevano specchiare quelle di Jolene.
Avrebbe scoperto di aver immaginato tutto, si disse, una volta tornata con i piedi per terra e lo sguardo sull'amica.
Avrebbe scoperto di aver sognato tutto di nuovo, ripeté.
Il contatto fu dolce, leggero, interrotto dopo pochi attimi quando nel ritrarsi si ritrovò col dire «Sai di cioccolato e sale.»
sussurrava, cauta, per paura di spezzare la bolla dentro cui si erano rifugiate.
Erano sorde alle risa e le urla che riempivano Methley Street, le stesse che normalmente l'avrebbero attratta fuori dalla cucina di Jolene per poter intravedere uno stralcio delle vite altrui dal balcone.
Stavolta però andava bene così. Ariel non voleva avere a che fare con le storie altrui: per una volta voleva scrivere di sé.
«Nei miei sogni avevi un sapore diverso.»
Si stupì da sola di averlo detto davvero e il cuore per questo saltò un battito.
Nei sogni di Ariel, se Jolene era presente, non riusciva mai a definirne il ruolo: erano amiche, talvolta estranei costretti a rincontrarsi o raramente amanti, incapaci di poter superare il primo bacio senza che Ariel si svegliasse,
«Però sei ancora qui.» Le palpebre si sollevarono appena, quanto bastasse perché gli occhi potessero mettere a fuoco le labbra rosee di Jolene.
Suonava stupita e al tempo stesso risollevata.
Fu la consapevolezza di stare vivendo davvero quel momento a portarla ad arrossire subito dopo. Avvampò fuori e dentro. Le guance bollenti si fecero color ciliegia, mentre la bocca dello stomaco si stringeva per la tensione. Avrebbe voluto dire altro, dare voce all'improvvisa tempesta di emozioni che la avvolsero, ma si ritrovò ad aprire e chiudere la bocca afona, incapace di trovare le parole giuste.
A quanto pare parlare di sé era molto più difficile di quanto ricordasse.
Così, decise di agire. Si lasciò andare al calore della pelle, all'affetto che per mesi aveva cercato di modellare in altre forme — tutte sbagliate, tutte troppo distanti da lei —. Si protrasse in avanti, avida, cercando un contatto più intimo. L'iniziale delicatezza che le aveva unite venne travolta dal premere insistente delle labbra, il sollevarsi delle mani che sciolto l'intreccio con quelle di Jolene ne cercavano la nuca e i capelli rossi. Avrebbe affondato le dita fra le ciocche e sospinto con il palmo della mano la testa contro di lei, cercando di acuire il contatto fisico.
Ariel era una persona che nel tatto aveva da sempre trovato troppe risposte per volersene privare proprio adesso.
Si scoprì grata di essere già in ginocchio o non sarebbe stata capace di reggersi sulle sue gambe.
Era insistente, come la nota amara del cioccolato che sporcava ancora la bocca di Jolene.
Era bollente, fatta di emozioni travolgenti ancora troppo acerbe per darvi un nome.
Era così felice. Dannatamente felice.

 
 

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12 replies since 11/12/2020, 22:25   485 views
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