— 23yrs ▴ Late Afternoon ▴ Clothes —« Posso entrare? »
La voce rassicurante di nonno Semna destò Horus dal suo intorpidimento. Batté le palpebre un paio di volte alla luce calda del sole del primo pomeriggio e annuì.
L’uomo varcò la soglia della stanza del giovane —una semplice camera con grandi finestre, un letto con biancheria in lino, e una scrivania di pietra bianca— e si accomodò sulla stuoia su cui il nipote sedeva, a gambe incrociate, con il mento appoggiato alla mano. Horus aveva gli occhi arrossati dalla stanchezza e il dettaglio non sfuggì a Semna.
« Partirai domani, quindi? »
Horus annuì, continuando ad osservare davanti a sé il giardino curato che si intravedeva oltre la finestra. Semna rimase in silenzio per qualche secondo, ponderando le parole che avrebbe pronunciato di lì a breve: sapeva che suo nipote era testardo e del resto, come biasimarlo, visto l’argomento?
« Lo so che sei arrabbiato con tua nonna. Ma dovresti capire…
« Capire?! Capire cosa? Non voglio sposarmi, punto e basta! » Horus sbottò improvvisamente, facendo sussultare Semna che lo guardò con i suoi grandi occhi neri.
Non era abituato a vedere il nipote reagire così violentemente; in quei due anni, Horus si era dimostrato ribelle, certo, e il suo carattere forte si era scontrato più volte con quello altrettanto deciso di Meresankh. Ciononostante, aveva imparato a gestire e a dimostrarsi molto più maturo per la sua età e tutto sembrava andare per il meglio, fintantoché non era arrivata la lettera dal Ministero. Semna sapeva che Horus non avrebbe mai desistito dal voler lavorare come Spezzaincantesimi; non si sarebbe mai arreso all’eventualità di diventare un semplice officiante, né un quieto marito, come lui. Era pur sempre figlio di Osiris.
« Lo so, Horus. » Sospirò l’uomo, posando una mano ruvida sulla spalla del ragazzo che lo guardava con gli occhi grigi ardenti d’indignazione. Come assomigliava ad Osiris, pensò Semna con un po’ di nostalgia.
« Tuo padre si evitò la cosa perché stava con Ainsel, erano innamorati e–– » Sentì Horus irrigidirsi sotto la sua presa e lui gli strinse la spalla con fermezza. « ––E si sposarono subito. Fu un bel colpo per tua nonna e fu difficile per lei accettarlo. Oh, so che vuole molto bene a tua madre, non sto dicendo il contrario. » Si affrettò a chiarire, agitandosi un poco sulla stuoia. Cominciavano a dolergli le ossa e stare seduto in quel modo era sempre più complicato per la sua povera anca.
« Ma cerca di comprendere tua nonna, nipote mio. Desidera il meglio per te e Sitra è una ragazza così dolce e gentile, sarebbe una moglie… »
« Basta così. » Tagliò corto Horus, sfuggendo alla mano di suo nonno e alzandosi in piedi con uno scatto nervoso. Guardò con freddezza l’uomo seduto davanti a sé; Semna era sempre stato una persona mite e sorridente: il suo carattere pacato era stato un ottimo pacere per quello autoritario e orgoglioso della moglie Meresankh e sebbene fossero così diversi, i suoi nonni si amavano, non c’erano dubbi. Anche il loro, tuttavia, era stato un matrimonio combinato, com’era del resto previsto dalle tradizioni: i Sekhmeth dovevano sposare solamente Purosangue appartenenti all’Antica Dinastia. Semna Tefnut apparteneva ad una discendenza minore, ma era stato il candidato perfetto per diventare il compagno di vita dell’ultima sacerdotessa della Dea della Guerra Sekmet. Gli Dei, tuttavia, non avevano mai benedetto Meresankh con una figlia femmina: il titolo di sacerdotessa che per secoli si era succeduto di madre in figlia fu interrotto con la nascita di Osiris. L’unica speranza di avere una nipote venne infranta con la nascita di Horus, e fu causata, secondo Meresankh, dalla scelta di Osiris di prendere Ainsel, una straniera, in moglie.
Horus, perciò, comprendeva solo superficialmente l’urgenza che sua nonna aveva di avere dei nipoti —anzi, delle nipoti— a cui tramandare le chiavi del tempio. Per quanto fosse stato iniziato ai rituali, e alle tradizioni, infatti, un uomo non avrebbe mai potuto servire completamente la Dea, che esigeva solamente sangue femminile al suo diretto servizio.
Eppure, per quanto devoto, Horus non era disposto a sacrificare i suoi ideali, né ciò che si era imposto, per sposare una sconosciuta e mettere così fine ai suoi progetti. Non aveva rinunciato a tutto, a Emily, per ritrovarsi sposato e dover fare dei figli solo perché “quello era il suo dovere, il suo destino”. Non era affatto il suo cazzo di destino, quello, pensò lui.
« Non sposerò né Sitra, né nessun altra tizia che mia nonna mi presenterà. » Concluse, alzando il mento e serrando le labbra: la conversazione era conclusa.
Semna sospirò ancora e annuì. Si alzò a fatica sulle gambe malferme, aiutato dal nipote, e si congedò con una carezza tremante sul braccio di Horus.
Quando uscì dalla stanza del ragazzo, incrociò Sitra. La ragazza, che per ordine di Meresankh era stata invitata a trascorrere del tempo a casa, stava col capo chino e si torceva le mani in attesa nel corridoio che conduceva alle camere. Semna scosse il capo e lei soffocò un singhiozzo.
Poco dopo, Meresankh chiudeva nervosamente le tende delle finestre del salotto, nascondendo la vista dei due falchi che volavano alti nel cielo, in direzione del deserto.
Quando era giunta la lettera dal Ministero che aveva generato tutto quel caos, un’altra missiva, più piccola e modesta, l’aveva accompagnata.
Non ci volle molto per riconoscere la calligrafia di Amber e un moto di affetto aveva travolto Horus, mitigando l’ansia per il colloquio imminente e per tutto ciò che era accaduto in seguito. La richiesta di vedersi per una pizza e per recuperare il tempo perduto, fu come un balsamo e quando Horus partì, l’indomani della discussione con suo nonno, lo fece col cuore un po’ più leggero pensando all’amica. Nel momento esatto in cui era giunto il suo invito, Horus si era reso conto di quanto avesse bisogno di staccare da tutto, per godersi la compagnia di qualcuno che non lo faceva sentire in colpa per essersene andato di casa o che aveva deciso di appioppargli una moglie in fretta e furia solo perché i suoi piani erano andati in fumo.
Così, il mattino precedente il colloquio, già di ritorno a Londra da un paio di giorni, Horus si svegliò con l’umore decisamente più sereno. Fece colazione con Ainsel, che era euforica di vedere suo figlio prima del previsto, e passò la giornata a studiare incantesimi, sigilli e maledizioni in giardino, godendosi il sole primaverile, molto più delicato e gentile di quello rovente egiziano.
« Ah, mamma, stasera non ci sono a cena, mi vedo con Amber. » Disse d’un tratto, mentre sua madre finiva di potare una rosa particolarmente rigogliosa. Si aspettava qualche protesta —“Ma come, sei a casa solo da due giorni!”– ma stranamente la risposta di lei lo sorprese.
« Oh! » Sorrise Ainsel, raggiante. « John mi aveva giusto detto che di recente Amber ha trovato lavoro al Ministero e che ora vive da sola. » Buttò lì, tagliando con un po’ troppa enfasi un gambo.
« Mmm, sì me lo ha velocemente accennato nel gufo, ma forse tu sei più informata di me. » Horus guardò di sottecchi sua madre, che aveva preso a canticchiare un allegro motivetto a bocca chiusa.« Mamma… tutto ok? » Le chiese incerto, sollevando un sopracciglio. Scottato com’era dalla litigata con Meresankh, non aveva detto nulla sul presunto matrimonio che lei gli aveva organizzato (e ci sarebbe mancato! Ad Ainsel sarebbe venuto un coccolone). Ma non gli sfuggì come aveva chiamato il padre di Amber: fino a qualche tempo prima lo aveva sempre nominato come “il signor Hydra”.
Non farti strane idee, avrebbe voluto dirle, ma preferì tacere, non volendo nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi che anche sua madre avesse cominciato a volersi intromettere nella sua vita amorosa. Amber, poi!
« Ooooh, sì sì, caro, tutto bene, tutto bene. » Trillò lei, sollevando la lunga gonna e raggiungendolo sulla panchina in giardino.
« Ma tesoro mio, non sarebbe il caso che ti rasassi questo bel faccino? » Gli disse, carezzandogli la guancia ispida. Lui rise, un po’ disperato, un po’ divertito dallo sguardo supplichevole di lei.
« Per l’ennesima volta, mamma: no! »
Conventry Street numero 26 era un bel palazzo di recente ristrutturazione e insolitamente alto per la media Londinese. Nel centro del quartiere magico della City, si distingueva per l’eleganza delle rifiniture, stonando con le abitazioni bislacche che i Maghi e le Streghe solitamente preferivano. Horus si Smaterializzò nella piazza principale, alzando lo sguardo verso l’alto dove Ra si divertiva a zigzagare fra i camini lunghi e storti delle varie case: gli sfuggiva come diamine facesse a seguirlo ovunque, ma di certo, dopo tutto il tempo passati separati, non gli dispiaceva.
Le strade cominciavano a riempirsi di coloro che uscivano dagli uffici e la frenetica vita della città scombussolò per un momento Horus che non vi era più abituato. Dopo un primo momento, però, si incamminò con le mani nelle tasche della giacca a coste color cognac che indossava, lo sguardo che si spostava con accesa curiosità sui palazzi e sui negozi. Si sentiva tranquillo, tuttavia un pizzico di emozione lo animava al pensiero di rivedere Amber dopo tutto quel tempo: era cambiata tanto quanto lui? Cosa faceva ora? Com’era casa sua? Stava con qualcuno Gli sporadici gufo che si erano scambiati in quel lasso di tempo non erano stati abbastanza per colmare due anni, soprattutto non dopo che avevano passato anni fianco a fianco come compagni di banco e colleghi di spilla.
Passando davanti una vetrina particolarmente pulita, Horus si fermò a guardare il proprio riflesso. Si tolse gli occhiali da sole (un modello aviatore appartenuto a suo padre tanti anni prima e trovati in un cassetto della sua stanza in Egitto) e si osservò, critico.
Non era molto più alto di due anni prima, ciononostante il suo fisico era più definito, i capelli, più lunghi e schiariti dal sole, erano accuratamente legati dietro la nuca; la pelle, solitamente mortalmente pallida, aveva un colorito più sano, leggermente dorato ma, soprattutto, ora aveva la barba. Per un momento si sentì molto stupido e si portò una mano sul mento: le continue lamentele di Ainsel riguardo quella sua scelta (che lei considerava solo estetica) gli fecero venire severi dubbi sul suo aspetto: Amber lo avrebbe trovato ridicolo? Ma poi, certo che lei non avrebbe badato al suo aspetto, Horus aveva scosso la testa, e aveva ripreso a camminare, sollevato.
Giunto davanti l’appartamento e salite le scale che conducevano all’ultimo piano, col cuore che batteva un po’ più veloce per l’attesa, Horus allungò la mano verso il campanello. Il suono tintinnante giunse ovattato da dietro l’uscio chiuso e lui trattenne il respiro per un momento, godendosi l’istante che avrebbe preceduto l’apertura della porta e la sua voce pronunciare un affettuoso: « Ciao, Ambie. »
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