Eterea, Contest a Tema - Marzo 2021

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view post Posted on 30/3/2021, 21:55
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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Esistevano molti modi per affrontare ciò che stava accadendo o che, al contrario, non stava succedendo.
Si sarebbe potuta rilassare oppure preoccupare, intrattenersi con una lettura leggera oppure cimentarsi nella stesura di una lettera. In quel caso, avrebbe saputo anche a chi indirizzarla, ma avrebbe anche preso nota del fatto che - come le ventisei lettere precedenti, una media di due per mese - anche la ventisettesima sarebbe finita sullo zerbino di una casetta borghese di Londra oppure direttamente in un cestino per la carta straccia.
In tutta la sua vita, non si era mai sentita in quel modo: trascurata, arrabbiata, triste e… sola.
Se qualcuno le avesse spiegato che l’amicizia era fatta di attimi, fermo immagine di un periodo e nulla più, forse non avrebbe dedicato molte energie - a dire il vero nessuna - per avvicinarsi ad un altro essere umano, con tutte le sue sventure e i suoi momenti allegri, le crepe nel suo cuore e in quelle della mente che erano, ovviamente, legate le une alle altre da un filo invisibile.
Aveva pensato che anche loro fossero unite da una cordicella intangibile, capace di richiamarle senza bisogno di un anello o di uno specchio comunicante. Sarebbe bastata la forza del pensiero, la voce interiore in grado di modulare un suono inconsistente e semplice, ma a lei così caro: Nieve.
Aveva creduto di aver trovato la metà di se stessa, quella sbarazzina e meno pavida, colmando quell’anima sbriciolata dagli eventi con l’amore e la vicinanza che all’altra erano sempre mancate. La nostalgia della sua risata era nulla in confronto alle lunghe chiacchierate, le confessioni sussurrate prima di separarsi per la notte in ali diverse del castello. E più guardava i loro volti sulle fotografie di un’estate da sogno, necessaria quanto l’aria, più malediva l’idea di non sapere, di non capire, ma soprattutto di non poter parlare.

Nieve non c’era e forse non ci sarebbe più stata.
Forse, era così che ci si doveva davvero sentire quando qualcuno che si ama come parte di se stessi ci abbandona. Questo, lei, non l’aveva mai davvero sperimentato.
Le persone che in passato l’avevano lasciata si erano fatte via via meno presenti, preparandola - senza avere idea di star facendo proprio questo - ad attendere il momento del distacco. Non era mai stato uno strappo insanabile, il distacco di un momento e, in quello immediatamente successivo, il vuoto.
Lei stessa era stata capace di istruirsi a riguardo come la migliore delle insegnanti: quando fuggiva da qualcuno, di solito, il tutto era preceduto da attenta pianificazione e dal silenzio; nessuno squillo di tromba per annunciare il ritiro dalle scene di Thalia Moran. C’era un modo e un tempo per tutto, ma non per questo. Nessuno l’aveva aiutata a capire davvero come affrontare le domande che un silenzio così grande portava inevitabilmente con sé. Non aveva mai pensato che Nieve potesse farle questo.
Nieve Rigos che, invece, arrivava e spariva con la forza di un tornado. Attirava a sé le anime di coloro che erano disposti ad amare le sue parti dimenticate, spezzate, sbriciolate e poi se ne andava, chiusa in un dolore - forse - che nessuno avrebbe mai compreso.
Eppure, mentre l’aspettava sulla banchina di King’s Cross e il suo visetto non accennava a comparire tra volti sconosciuti, si era convinta di poter attendere solo qualche secondo. Sarebbe bastato, si diceva, per farla tornare. I secondi erano diventati lunghi minuti, eterne ore a bordo di un treno dal viaggio di sola andata. Almeno in quel momento.
Connor diceva che il tempo era relativo, che aspettare qualcuno era vano, poiché soltanto chi non aveva il desiderio di esserci ti faceva davvero aspettare. Lei non credeva che Nieve fosse così.
In qualche angolo del suo cervello, Thalia conservava l’immagine di un’adolescente vessata da così tanti dubbi, da non avere lo spazio di una giornata per poterli affrontare e risolvere tutti. Spesso le aveva lasciato il tempo di sbollire la rabbia, confessare un segreto sussurrato, lamentarsi di tutto e forse di niente, ma non era stato difficile. Il suo tempo, Thalia, l’avrebbe condiviso volentieri con lei.
Le avrebbe insegnato anche di come l’attesa fosse un valore aggiunto, una promessa di lealtà, che mai era mancata nella loro amicizia.

Non importa dove sei, Nieve, io ti aspetto.

Sì, lo pensava anche adesso, davanti all’uscio della sua casa di Londra.
Ci andava dopo ogni turno al negozio, restava lì - indecisa se disturbare Grimilde - e si chiedeva perché aspettare fosse meglio di agire. Ogni sera l’uscio le rideva in faccia con la sua immutata immobilità e le luci alle finestre non erano altro che uno sbeffeggiare continuo. Eppure, che cosa poteva fare se non aspettare?
Sacrificare il suo tempo, il suo umore, i suoi impegni. Aspettare qualcuno era un segno di affetto… o di profonda stupidità. Su questo, sua madre e Connor concordavano ancora.
Perché rendersi fragili sperando di ricevere una lettera o un segno, quando era evidente che non ci sarebbero stati né l’uno né l’altro? Perché ne valeva la pena, perché i tempi di Nieve erano brevi o lunghi e non sapevi mai quello che poteva succedere. Se lo sarebbe mai perdonata se, un bel giorno, avesse smesso di guardare tra la posta del mattino alla ricerca di un suo biglietto? No, mai.
Aspettare, dopotutto, aveva i suoi pregi.
Costruiva per lei giustificazioni mirabolanti, fantasiose al limite dell’impossibile. Ne aveva viste troppe, in fondo, per aver limiti in fatto di creatività e Nieve le aveva insegnato che i confini delle cose erano così labili da non riuscire davvero a vederli. Bastava distrarsi un momento per immaginarla varcare la soglia della Sala Grande, l’Aula di Trasfigurazione o la porta dell’Ufficio Vuoto. Ogni luogo, qualsiasi angolo, le diceva che lei sarebbe tornata e quella speranza andava affievolendosi soltanto nelle giornate più grigie. Quando accadeva, una delle loro fotografie spuntava magicamente da un libro, tra gli abiti piegati nel baule oppure udiva il suo nome da una bocca che non era la sua. E, ancora, si chiedeva: dove sei?

Se le avesse detto dove raggiungerla, l’avrebbe fatto, ma anche questo andava contro le loro regole non scritte.
Con lei, ce n’erano davvero tante. Troppe, forse, per una persona con un livello di pazienza normale.
Persino il concetto di normalità si perdeva tra le pieghe del tempo che Thalia era disposta ad investire per Nieve e sapeva, ne era sicura, che lei avrebbe fatto lo stesso.
Così aspettava e rimuginava.
Ripensava alla reazione migliore da riservarle qualora l’avesse rivista: non poteva arrabbiarsi, non sarebbe servito; avrebbe potuto apparire offesa, ma nulla avrebbe sostituito il sorriso che le avrebbe riservato, l’abbraccio stretto nel quale l’avrebbe saputa accogliere come aveva imparato a fare.
Nieve le aveva insegnato così tanto senza saperlo, che l’atto stesso di aspettare era diventato l’unico mezzo valido per quell’assurdo baratto.

La porta nera, lucida, era chiusa e Nieve non c’era.
Le lancette sul suo orologio segnavano un orario identico due volte al giorno, eppure lei era lì.
E aspettava.
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