A
tena adorava le mostre d’arte. Quando si trovata di fronte ad un quadro era solita sostargli dinanzi per minuti e minuti, studiando da vicino ogni più piccolo particolare. Le piaceva osservare il modo in cui i colori si combinavano tra loro, talvolta sfumandosi a vicenda, altre creando contrasti di forme e di luci. Le piaceva osservare la consistenza delle pennellate, quando si scioglievano in acquarelli sottili come carta velina, o quando creavano uno strato in rilievo, tanto spesso da far venire voglia di assaggiarlo. Amava perdersi nei più piccoli dettagli di un volto, quelli che di solito passavano inosservati: la ruga su una guancia, il luccichio color avorio di uno sguardo, i fili esili dei capelli. I suoni e gli odori racchiusi nel dipinto prendevano vita intorno a lei – il profumo del pane, l’abbaiare di un cane in lontananza, gli schiamazzi o i silenzi più profondi. Spesso si chiedeva quanta anima avesse riposto l’artista nella sua opera. Fantasticava sulle dita febbrili che avevano dato vita alla scena, impastando i colori di emozioni, di sogni e di fatica. Quante volte avrebbe voluto avere il potere di allungare una mano e leggere la storia che una tela racchiudeva, solamente sfiorandola. Ma la vera anima di un dipinto restava celata, parlava in flebili sussurri, appena percettibili.
“I capolavori dei grandi maestri giapponesi. Da Tokinawa a Omoshirei, per la prima volta a Londra.” recitava a grandi lettere il volantino. Le parole erano accompagnate da un’illustrazione in stile
Ukiyo-e raffigurante quello che i babbani erano soliti chiamare
Yōkai. In calce al foglio erano riportati alcuni
kanji che, presumeva, dovevano essere la traduzione del testo in giapponese. Atena teneva il foglio tra le mani, mentre camminava tra le strade di Kensington. Indossava un cappotto color nocciola chiaro, aperto sul davanti. L’Aria portava l’odore di foglie secche e di terra bagnata e al suo orecchio le parlava di silenzi carichi di attesa, dei caldi polmoni del mondo e di grandi cambiamenti. Atena ascoltava, mentre camminava: con il tempo l’Aria – il suo elemento – era diventato come un prolungamento di sé. Sempre più spesso riusciva a carpirne i sussurri e i leggeri mutamenti, sebbene parlasse una lingua a lei ancora sconosciuta.
In poco tempo giunse davanti l'edificio in cui si teneva la mostra d’arte. La palazzina non era particolarmente grande, anche se era palese che ospitasse diversi eventi. Più cartelli, infatti, indicavano ai visitatori il percorso da seguire per giungere alla destinazione di loro interesse. Seguendo le indicazioni, la ragazza varcò la soglia dell’atrio, ritrovandosi in un salone dal pavimento in marmo bianco, arredato in modo minimale ma elegante. Da lì si aprivano diverse arcate che portavano in altrettanti saloni. Da uno di questi giungeva l’eco di una musica, ma talmente soffusa che Atena non seppe dire con precisione da dove venisse o di che genere di melodia si trattasse. Fece per proseguire, quando al rumore dei suoi passi sul pavimento, si unì il suono di altri passi. Ticchettavano di corsa, sembravano stizziti. Poco dopo se ne aggiunsero altri, meno aggraziati, quasi affannati. Due figure comparvero nel salone: una giovane donna, di tutta fretta, con la sciarpa che le svolazzava lunga dietro il collo, e un uomo, più in là con gli anni, che la seguiva a ruota, incerto se trattenerla o se tornare da dove era venuto.
“Mademoiselle, la prego!” la implorò con uno spiccato accento francese e un'inconfondibile erre moscia. Ma quella non lo degnò di uno sguardo e, rapida com’era arrivata, imbucò la porta d’uscita, sparendo alla vista insieme all’eco dei suoi tacchi. Atena, che suo malgrado aveva assistito alla scena, liquidò l’accaduto con un'alzata di spalle, riprendendo a camminare verso la sua destinazione. Aveva appena varcato l'arcata, quando qualcuno la prese sotto braccio, facendola sobbalzare.
“Oh Mademoiselle! Che coincidenza fortunata! Venga con me, venga.” Era l’uomo di prima. Sbigottita più che mai e chiedendosi cosa mai stesse succedendo, Atena tentò di aprire bocca per chiedere spiegazioni, ma il francese la interruppe prima ancora che potesse proferire parola.
“Si è liberato un posto! Venez-vous, venez-vous!” e dicendo questo la trascinò con sé verso la direzione opposta.
«Cos… Ci dev’essere un errore, io…» ma l’uomo, con una risatina, la interruppe nuovamente
“No, no, no! C'est bon, la stanno aspettando, allez allez!”. In un battito di ciglia, Atena si trovò letteralmente catapultata dentro un’aula. Si voltò per tornare sui suoi passi ma il
clang della porta davanti al suo naso sancì in modo perentorio la sua prigionia.
“E’ tutto a posto, vous pouvez continuer!” annunciò soddisfatto il suo rapitore, sospingendola verso il posto libero – l’unico - più vicino alla sua posizione. Dopodiché, misteriosamente, sparì. Una rapida occhiata bastò per farle capire che si trovava in un open space luminoso, non molto grande, ma ordinato. A riempire lo spazio vi erano tre file di tavoli, intorno ai quali coppie di ragazze lavoravano a…
qualcosa. Sembrava a tutti gli effetti una lezione – e lei di lezioni se ne intendeva. Le voci intorno ripresero ben presto il loro chiacchiericcio, come se nulla fosse successo. Uno strano rumore, proveniente dal tavolo davanti a lei, continuava a ronzare in modo imperturbabile: una sorta di sommesso
bzzzzzzz, come di un macchinario in funzione, unito ad un morbido
plat-plat, plat-plat di qualcosa che sbatacchiava ritmicamente qua e là.
«Sono appena stata sequestrata.» fu l’unica cosa che riuscì a dire, più a se stessa che agli altri. *E non c’è via di fuga.* La tragica verità si palesava nella sua mente.
«Sono ufficialmente un’imbucata.» *Salvatemi.* Su queste parole rivolse lo sguardo al ragazzo che le stava accanto, come se solo in quel momento avesse preso consapevolezza della sua esistenza. Era un ragazzo asiatico, capelli scuri, occhi neri. Giovane, forse addirittura più giovane di lei di qualche anno, anche se era difficile dirlo con precisione - gli asiatici del resto sembravano eternamente giovani anche a duecento anni. Forse era un quarantenne e lei non se ne sarebbe mai accorta.
Si decise a muovere qualche passo in avanti.
Bzzzzzzzzz, plat-plat, plat-plat la chiamava imperterrito il macchinario. Non fece in tempo a raggiungere la sua postazione che il piede scivolò su qualcosa di viscido che era finito per terra. Istintivamente si aggrappò al braccio del ragazzo, riprendendo subito l’equilibrio. Chiuse per un istante gli occhi, facendo un respiro profondo e sforzandosi di mantenere il controllo di sé. I piedi erano tornati saldi a terra. Presto tutto sarebbe tornato alla normalità e lei sarebbe stata libera di tornare alla sua mostra. Si.
«Ti prego, dimmi dove diamine sono capitata.» sussurrò.
Bzzzzzzzzz, plat-plat, plat-plat.