« We are the combined effort of everyone we've ever known »
Somewhere I BelongEra rimasto a scuola il più a lungo possibile, continuando a procrastinare la partenza con scuse campate in aria, di ogni tipo: dai suoi doveri come Prefetto, a quelli da studente semplice che, non vivendo nella comunità magica, aveva bisogno di studiare con i libri della biblioteca, alla piccola innocente bugia che sarebbe stato senza tutori in casa. Era stato comunque cacciato via, a un certo punto, e costretto a prendersi le vacanze estive, che lo volesse o meno. Erano le regole, d’estate non poteva restare nessuno a Hogwarts. Era abbastanza certo che non fosse l’unico a odiare l’idea di passare quei due mesi fuori dal castello, ma si chiese se non fosse l’unico ad aver letteralmente supplicato il proprio datore di lavoro di raddoppiargli i turni pur di avere qualcosa da fare. Non aveva la benché minima voglia di andarsene in vacanza o di passare le prossime sei settimane a casa, da solo con sua madre. Nonna Lilien era passata a salutarlo il giorno in cui era tornato da Hogwarts, più per vedere di persona la spilla da Prefetto che per altro. Aveva colto l’occasione per avvisare che avrebbe passato gran parte dell’estate in Irlanda insieme al suo mini-me, l’unico essere umano in grado di tollerare la compagnia di Lilien per più di due ore di fila. Draven non aveva prestato loro molta attenzione, tra la stanchezza del viaggio e la depressione che era in grado di infondergli il semplice colorito grigio spento del cielo di Londra, ma gli era sembrato di capire che fossero stati invitati a prendere parte a una ricerca sull’uso del canino di drago come nucleo per le bacchette. Sarebbe stato un argomento piuttosto interessante, in un altro contesto; in quello specifico momento, invece, a Draven non poteva interessare di meno. Aveva tenuto le sopracciglia inarcate e le labbra arricciate in un’espressione di finta sorpresa, aveva alzato il pollice in direzione di Alec ed era poi andato a chiudersi in camera sua. Si era tuffato a pesce, di faccia e a pancia in giù sul letto e aveva dormito per le seguenti ventuno ore di fila. Quando finalmente aveva ripreso conoscenza, sotto lo sguardo sollevato di sua madre che lo aveva dato per morto, l’aveva avvisata che avrebbe lavorato per tutta l’estate a Diagon Alley, senza scendere in dettagli che, ovviamente, non gli erano stati nemmeno chiesti. Non solo Cecilia non era tenuta a sapere delle sue attività scolastiche, men che meno quelle extra, se riguardavano l’ambito magico, ma non poteva proprio informarsi in alcun modo di tutto ciò che riguardava quel mondo dal quale, molti anni prima, era stata esclusa con disonore. Era nonna Lilien il suo tutore ufficiale e nemmeno lei sapeva di Magie Sinister, anzi, non le aveva proprio mai detto che avesse un lavoro. Nonostante tutto, quel negozio continuava a costituire per lui un luogo di conforto. Lo stesso Sinister era diventato un punto di riferimento. Era strano a dirsi, considerando il tipo di attività trattata in quel negozio, ma aveva finito col farci l’abitudine a tutte le stranezze che lo riguardavano; non ci faceva nemmeno più caso e, anzi, a tratti lo divertivano. Per quanto il vecchio datore di lavoro si fosse rifiutato di aumentargli la paga, aveva acconsentito con grande entusiasmo ad averlo come schiavo anche per tutta l’estate e per più ore di lavoro rispetto a quando aveva le lezioni a scuola. Era sicuro di piacergli, a modo suo, e anche se la paga era ingiusta a Draven stava bene così. Sempre meglio dell’alternativa…
Mio Dio, Draven! Devo andare a lavoro!
Cecilia aveva continuato a bussare insistentemente alla porta del bagno per almeno cinque minuti, tempo che Draven aveva trascorso a guardarsi distrattamente allo specchio, concentrato sul filo dei propri pensieri. Se normalmente aveva tempi di reazione piuttosto lenti, a causa del caos che si generava nel proprio cervello iperattivo e razionale, di prima mattina era anche peggio.
Sospirò, aprendo la porta con un’espressione strafottente in viso: sopracciglia inarcate e labbra distese all’ingiù.
Draven era cresciuto di quasi dieci centimetri nell’ultimo anno e Cecilia odiava il modo arrogante in cui aveva preso a guardarla da qualche tempo a quella parte, dall’alto in basso come se fosse migliore di lei… solo perché era più piccola di almeno venti centimetri. Distese il braccio per poter raggiungere la nuca del figlio e dargli uno schiaffo educativo che bastò a far spostare Draven dall’uscio della porta del bagno, pur di schivarlo. Cecilia lo superò in scivolata con grande velocità e maestria.
Anche io devo andare a lavoro. – ribatté lui, con uno sbadiglio, mentre dall’altro lato della porta era già stata aperta l’acqua della doccia. Probabilmente non lo aveva nemmeno sentito.
Impara a darti una mossa, allora! Da domani entro in bagno prima io, sei lento!
Invece, lo aveva sentito eccome. Draven alzò gli occhi al cielo, ancora troppo assonnato per avere la forza di discutere con sua madre a quell’ora. L’unico orologio presente in tutta la casa, quello digitale sul davanzale della cucina, segnava le 6.50. Scattarono le 6.54 quando Draven si rese conto di essere rimasto completamente immobile in mezzo alla sala, a fissare il vuoto. Nel tempo che gli ci volle a reagire e raggiungere la propria camera da letto per vestirsi, sua madre era già uscita dal bagno.
Si sedette sul bordo del letto e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, le mani a sfregarsi il viso. Dai capelli ancora umidi caddero a terra delle piccole gocce d’acqua… O forse stava piangendo. Di nuovo. Piangeva un sacco, ultimamente. Erano passati solo tre giorni da quando aveva lasciato Hogwarts, ma gli mancava la scuola, la sua vita lì. Gli mancava Megan, anche se non ne aveva il diritto. Gli mancava tutto ciò che era stato in grado di provare lì, con lei. Quella a Londra non era vita e in quella casa si sentiva come un ospite indesiderato.
Si asciugò viso e capelli con un asciugamano pulito, poi riuscì a muoversi per potersi vestire. Jeans neri e camicia bianca, vans rosse a dare un tocco di colore. Senza la cravatta dei serpeverde sembrava un comunissimo cameriere. Per questo motivo, attirava l’attenzione tra le vie di Londra degli inglesi curiosi, che lo seguivano con lo sguardo come a chiedersi dove se ne andasse a piedi un cameriere dal passo spedito così presto al mattino. E veniva guardato storto quando poi arrivava a Diagon Alley, circa due ore di cammino dopo, perché non aveva l’aria da mago e, senza quella benedetta cravatta, nemmeno l’aria dello studente. Quando attraversava il vicolo per raggiungere Nocturn Alley, però, la cravatta era già al suo posto intorno al collo. Bastava così poco a farlo sentire meglio con se stesso: era un mago, un serpeverde che stava portando avanti gli studi con successo. Quantomeno, in quel mondo aveva il suo ruolo.
gryffindor rageLa playlist che stava ascoltando nelle cuffie aveva appena mandato Bohemian Rapsody nella versione dei Panic! At the Disco. Si era ritrovato a canticchiarla senza nemmeno accorgersene. Un po’ perché era una delle canzoni più belle mai create, un po’ perché aveva sempre avuto il vizio di voler imitare la voce di Brandon Urie. Aveva iniziato da molto piccolo, insieme a suo padre che lo spronava a cantare accompagnandolo con la chitarra. Ecco, se c’era un’unica cosa che gli mancava durante i mesi a Hogwarts, era di studiare con la musica in sottofondo. Non si sarebbe mai abituato al chiacchiericcio perpetuo che si sentiva in sala comune e in biblioteca. Non esisteva un singolo luogo in tutta la scuola in cui riuscisse a stare nel silenzio, nemmeno in dormitorio visto che dal Lago Nero proveniva ogni genere di suono e rumore. Aveva scoperto presto che alle creature acquatiche piace parecchio chiacchierare, così come che alla piovra gigante piace pulirsi le ventose contro i vetri delle finestre in dormitorio. Non era riuscito ad abituarsi nemmeno a quello, causa delle pessime abitudini di sonno che aveva finito per acquisire. Non aveva problemi ad addormentarsi, si addormentava abbastanza facilmente e velocemente, il problema erano i sogni. Erano sempre incubi, li aveva da almeno un paio d’anni, ma ricordava di averci sofferto anche negli anni in cui suo padre si era assentato da casa. All’epoca, sua madre lo aveva mandato da uno psicologo; ricordava che alla prima seduta gli era stato chiesto di disegnare un albero e poi la sua famiglia. Aveva avuto sette anni. Non era mai stato bravo a disegnare, aveva un modo tutto suo di rappresentare su carta la propria realtà. Riportando alla memoria quell’occasione, poté ricordarsi dell’ansia che lo psicologo e la stanza in cui era stato lasciato da solo gli avevano generato e ne percepì l’eco alla bocca dello stomaco. Ricordava di aver trattenuto le lacrime a lungo… Doveva riconoscere che era sempre stato un gran piagnucolone… Comunque, era riuscito a trattenersi fino a casa. Sua madre non aveva mai avuto un’auto, non era nemmeno sicuro che avesse la patente di guida, e il viaggio di ritorno verso casa, in metro, circondato da tante, troppe persone lo aveva fatto agitare ancora di più. Una volta varcata la soglia, era esploso come un gavettone e aveva iniziato a urlare, disperato, che non voleva più andare a disegnare con quelle persone e non voleva più parlarci. Sua madre non aveva insistito e tutte le turbe psichiche, comprese quelle del sonno, erano rimaste dov’erano. Per assurdo, gli incubi si erano presi una lunga pausa dopo la morte del padre.
Alzò lo sguardo davanti a sé. Non gli era mai piaciuta quella casa, anche se dopo l’incidente nonna Lilien l’aveva riarredata, cambiando totalmente la disposizione della cucina. Forse per meccanismo di difesa o, forse, perché nonna Lilien aveva sempre ragione, crescendo in una cucina totalmente diversa aveva finito col dimenticare la vecchia e il modo in cui il padre ci era morto dentro. Teneva sempre tutte le luci accese quando era solo a casa e studiava per lo più proprio in cucina, perché era il punto della casa da cui poteva tenere d’occhio quasi tutte le altre stanze. Era il tipo che doveva sedersi di schiena contro il muro al ristorante perché odiava il passaggio delle persone alle proprie spalle. Doveva sempre sentirsi protetto e al sicuro, in qualche modo. Anche in casa sua, memore degli anni in cui nemmeno quelle quattro mura avevano rappresentato un luogo sicuro per lui.
Comunque, gli incubi erano tornati all’incirca nel periodo in cui aveva tagliato i ponti con Christelle, la sua prima amica a Hogwarts. Per anni aveva avuto la convinzione che fossero anime affini; l’aveva idolatrata e, nell’ingenuità prepuberale, le aveva dato tutto se stesso, finché non era risultato essere tutto inutile. Come chiunque altro nella sua vita, alla fine anche Christelle lo aveva abbandonato. Non ricordava nemmeno più con quale motivazione, ma ricordava benissimo quanto ci fosse stato male. Nonostante quel periodo non fosse stato dei più facili, sua sorella Isla aveva deciso di cogliere la palla al balzo e lo aveva seguito per mesi, forse con l’intento di consolarlo. Era sempre stato difficile sostenere la sua esuberanza, quindi Draven aveva imparato presto a ignorarla. Era più grande di loro di qualche anno, non sapeva nemmeno di quanti e non gli interessava. Gli aveva fatto da ombra per quasi un anno intero, finché un Draven quattordicenne non le aveva apertamente detto che non aveva il minimo interesse in lei perché aveva la voce stridula, era troppo esuberante e il colore dei suoi capelli gli ricordava quello del succo di zucca. Se l’era ritrovata in giro per i corridoi, qualche mese dopo, con una tinta rosso fuoco. Non solo era riuscito a togliersela di dosso, ma aveva finito con l’aiutarla a essere più affascinante. Se l’era cavata bene, dopotutto! E con quella convinzione, aveva smesso di pensare alle due sorelle e di svegliarsi col ricordo degli incubi. Gli era stato concesso un altro lungo periodo di pausa, prima del periodo peggiore che avesse mai vissuto. Tra poco sonno e tanti incubi, era stato malissimo nelle settimane seguenti la famigerata festa illegalissima di aprile. I pensieri su Megan e Casey avevano preso il sopravvento sul raziocinio; da allora, non aveva avuto pace. Si ritrovava spesso a fissare il vuoto o a piangere o a urlare contro il cuscino per scaricare la rabbia. Il destino aveva voluto che Isla tornasse all’attacco, più di due anni dopo, proprio in quel periodo. Quasi ogni giorno, per circa un mese, gli erano arrivati bigliettini via gufo che gli chiedevano “possiamo vederci oggi?” firmato Isla. Che poi, era assurdo come i gufi riuscissero a trovarlo anche quando cercava di nascondersi.
Alla fine, in un giorno di maggio, aveva ceduto e aveva acconsentito a vederla. Contro la propria volontà, poteva dire di conoscerla meglio anche di sua sorella e sapeva che avrebbe continuato a insistere anche all’infinito, quindi dargliela vinta era l’unico modo per togliersela di dosso. O almeno, ci sperava.
Dopo un lungo monologo su come Christelle e il suo fidanzato Daniel Qualcosa fossero rimasti a studiare negli Stati Uniti dopo uno scambio culturale, i compiti sempre più difficili, le lezioni del quinto anno e l’esame di materializzazione di suo fratello Oliver, Isla aveva cercato di salutarlo con un bacio sulla guancia. Draven si era scostato subito da lei, schifato, ed era stato accusato di trattarla male solo perché a sua sorella non era mai piaciuto. Non aveva senso. A parte che era sicuro che a Christelle fosse piaciuto e anche parecchio, non c’entrava niente quel rapporto con Isla. Se avesse pensato che quella ragazza potesse essere in grado di capirlo, glielo avrebbe spiegato; invece, era rimasto in silenzio. E si era poi sentito dire che era ingiusto il modo in cui la trattava, visto che tutti a scuola sapevano che aveva un debole per le Grifondoro… Inaspettatamente, aveva detto qualcosa di interessante. Quella frase lo aveva fatto riflettere parecchio, perché, forse, per la prima volta in vita sua, Isla non aveva detto una stronzata. Eccezion fatta per Megan che era Corvonero, la lista di donne Grifondoro che avevano fatto parte degli ultimi anni della sua vita, in un modo o in un altro, era veramente lunga; partendo da Christelle che era stata la prima, per arrivare ad Alice che era l’ultima, attraversando gli interventi minori come la nipote di un’amica di sua nonna che, dopo anni, ancora qualche ormone in subbuglio glielo dava, l’amica di Christelle su cui aveva ripiegato quando Christelle lo aveva ‘mollato’, la ragazza che al secondo anno lo aveva aiutato a superare le lezioni di erbologia... Fatto stava che Isla era gelosa di non essere mai stata tra queste. Fu certo di averla sognata quella notte perché, il mattino dopo, si era svegliato nervoso e con un gran mal di testa, del tipo che solo i logorroici sanno procurarti. La fortuna dei suoi incubi era che non si svegliava quasi mai con la consapevolezza di ciò che aveva sognato, il più delle volte era solo l’eco di una sensazione, che però gli pregiudicava l’umore del resto della giornata.
Venny, sei troppo pesante, non riesco a portarti in braccio a letto. Alzati, dai.
I toni sempre esagitati di sua madre, che era in grado di generare panico anche durante la scelta dei gusti del gelato, lo costrinsero a svegliarsi. Lo stava tirando per un braccio e sembrava che ci stesse anche mettendo forza, ma non lo aveva minimamente smosso. Si era addormentato sul tavolo della cucina, le cuffie si erano spostate dalle orecchie e, come un sussurro, gli fecero arrivare solo qualche nota finale di “Sad but true”, dei Metallica. Le spense e se le tolse, lasciandole ricadere sul tavolo con un gesto lento. Il solito e unico orologio digitale posato sul davanzale segnava le 2.24.
Dove sei stata fino a quest’ora? – si ritrovò a chiedere, con la voce impastata di sonno. Da sveglio e reattivo, non glielo avrebbe mai chiesto. Il rapporto con sua madre si limitava al minimo indispensabile. Invece, in quel momento cercò, addirittura, di mettere a fuoco la sua figura. Era truccata ed era sicuro che quella mattina, quando l’aveva vista uscire per andare al lavoro, non avesse indossato il vestito scollato rosso corallo che aveva indosso in quel momento.
Cecilia sembrò improvvisamente a disagio, ma un bagliore di lucidità si fece largo sul suo viso: conosceva poco di suo figlio, era una colpa che si portava dietro da anni, ormai, ma di una cosa era certa…
Ne parliamo domani. Andiamo a dormire.
…Appena sveglio, Draven non era in grado di memorizzare nulla. Si sarebbe dimenticato di sicuro di averla vista quella notte.
Cecilia seguì Draven, che si trascinò stancamente fino alla sua camera. Lo vide buttarsi sul letto a pancia in giù, ancora vestito. Non era andato a lavoro quel giorno, quindi era vestito comodamente con una t-shirt e dei pantaloncini che pensò potesse tenere anche per dormire. Gli sollevò le gambe in modo che fosse, almeno, disteso per intero sul letto e non con i piedi penzoloni oltre il materasso.
Si era messo in una posizione, a suo avviso, molto scomoda, con la faccia schiacciata sul cuscino e il corpo tutto storto, le spalle irrigidite. Cecilia rimase a fissarlo con dolcezza per diversi secondi; gli scostò delicatamente i capelli dalla fronte, prima di chinarsi su di lui e posargli un bacio sulla tempia. Sembrava così tenero, mentre dormiva. Ancora piccolo. Vulnerabile. Era cresciuto troppo velocemente.
Perché… basta Grifondoro…
Lo sentì biascicare in tono lamentoso, nel sonno. Non riusciva a stare tranquillo nemmeno quando dormiva.
Con un sospiro, si mise a sedere sul bordo del letto. Se Draven l’avesse scoperta, si sarebbe arrabbiato da morire. Odiava essere toccato dalle persone, da chiunque. Ma non riuscì a resistere all’impulso, era pur sempre sua madre e, nonostante tutte le difficoltà, sperava solo di vederlo felice: con estrema delicatezza, gli accarezzò il viso e continuò a farlo finché non vide i muscoli della schiena e delle spalle rilassarsi.
point of view Le maniche della camicia erano risvoltate fin sopra i gomiti. Da bianca era diventata quasi trasparente da quanto ci stava sudando dentro ormai da ore. Il colletto lo aveva sbottonato poco prima, così come la cravatta era allentata in maniera disordinata per consentirgli di respirare più facilmente. Dentro quel maledetto negozio non filtrava aria nemmeno a pregarla. Aveva provato a tenere aperte porta e finestre per fare corrente, ma per come erano sistemate nel negozio non c’era verso che potessero generare circoli d’aria. Non potendo usare la magia, aveva chiesto a Sinister di incantare un ventilatore affinché generasse aria fredda senza corrente, ma l’idea di toccare o avvicinarsi o, addirittura, tenere in negozio un oggetto babbano lo aveva mandato fuori di testa. Morale della favola: Draven aveva continuato a sciogliersi giorno dopo giorno, crogiolandosi tra calore e noia. I clienti scarseggiavano; evidentemente anche i maghi oscuri andavano in vacanza. Chissà dove erano soliti andare in vacanza i maghi, in generale. Esistevano dei villaggi nelle zone di mare per soli maghi? Oppure ai purosangue non piaceva il mare e preferivano la montagna? O, ancora, magari erano più tipi da escursione campestre? Disteso sul bancone del negozio a mezzo busto, abbandonato completamente a peso morto con la testa ciondoloni, pensò che il cervello stesse subendo una mancanza di ossigenazione. Non si sarebbe sorpreso di scoprire di aver anche sviluppato un’allergia alla polvere, visto che con quell’afa si era ritrovato a ingoiare interi batuffoli contro la propria volontà. Era come se tutto, in quel negozio, gli remasse contro nel tentativo di mandarlo via e costringerlo a restare a casa un po’ di più. Si disse di non avere altra scelta e trovare un compromesso: quattro o cinque giorni a settimana di lavoro, andavano più che bene, e i restanti due o tre giorni a casa, a respirare vera aria e ossigenare il cervello. Aveva avuto pochissimo tempo per leggere e pochissime energie per poter fare qualsiasi altra cosa. Se aveva iniziato a chiedersi dove passassero le vacanze i maghi, era evidente che stava iniziando a restare a corto di neuroni.
Con la coda degli occhi intravide la figura di Sinister dirigersi a passo incerto verso la porta del negozio. Sorreggeva a fatica una grossa scatola contenente qualcosa di evidentemente pesante e rumoroso: ogni passo del negoziante veniva accompagnato con un sinistro clink, come di bottiglie che tintinnano tra loro.
La porto io! – scattò in piedi il giovane serpeverde, con ritrovato entusiasmo al pensiero di poter fare una consegna fuori da quel forno.
In tutta risposta, Sinister rischiò di inciampare sui propri passi talmente si era spaventato dall’improvvisa ripresa del garzone.
Credevo fossi morto. Stavi anche iniziando a puzzare come un morto.
Draven si limitò a fissare il vecchio datore di lavoro con uno sguardo carico di disprezzo. Non era colpa sua se lì dentro stava diventando invivibile; era, in effetti, un miracolo che fosse ancora vivo. Che entrambi fossero ancora vivi! Come faceva quel maledetto vecchio a non avere addosso nemmeno una goccia di sudore? Si chiese se nei meandri del negozio, lì dove se ne stava per ore e ore, non nascondesse un qualche tipo di elisir di lunga vita o un più semplice refrigeratore magico che non voleva condividere.
Avrebbe indagato in uno dei tanti giorni di noia. Per il momento, era meglio concentrarsi su quella consegna senza fare domande: aveva bisogno di prendere aria e uscire da lì il prima possibile.
Il vecchio aveva preparato una passaporta illegale per consentire a Draven di attraversare mezza città in un attimo, così da permettergli di effettuare la consegna in un battibaleno. L’idea di viaggiare in maniera non supervisionata, con i rischi che una simile azione comportava, sia fisici che legali, non lo entusiasmava affatto, ma considerava anche l’importanza della velocità e la totale ignoranza del negoziante sui mezzi pubblici babbani che, comunque, lui odiava prendere.
Alla fine, la passaporta non registrata aveva compiuto il suo dovere senza spaccarlo o farlo perdere nei meandri dell’etere. Se non fosse che durante la consegna una delle bottiglie nella scatola gli aveva scolato addosso qualsiasi cosa fosse che aveva fallito di contenere, e che aveva un odore nauseabondo, poteva ritenersi soddisfatto di come erano andate le cose. Considerando che Sinister aveva realizzato quella passaporta per un solo viaggio, quello di andata, si sentì pienamente in diritto di passare da casa per cambiarsi, prima di tornare a lavoro; evidentemente, non aveva tutta questa fretta di riaverlo intorno. Tra il sudore e quella roba viscosa su camicia e jeans, puzzava talmente tanto che le proprie capacità olfattive avevano smesso quasi subito di renderglielo presente, come se si fossero addormentate per salvaguardare la loro funzionalità, per evitare di bruciarsi per sempre o qualcosa del genere. Fortunatamente, aveva avuto la lucidità mentale di portare con sé la borsa scolastica; non solo perché teneva al suo interno le sigarette, e se ne accese una per scaricare un po’ di nervosismo, ma perché ci teneva anche le chiavi di casa.
Dalla zona in cui aveva recapitato il pacco di Sinister, per poter arrivare nel proprio quartiere aveva dovuto prendere la metro. Prima il treno dalla periferia per raggiungere la linea marrone, sei fermate la prima tratta più altre sei per raggiungere la coincidenza con la linea verde, poi altre quattro fermate per arrivare a destinazione. Per quanto odiasse prendere la metro e fosse stato un viaggio piuttosto lungo, non era stato troppo spiacevole perché nessuno aveva osato avvicinarsi a lui, presumibilmente a causa del pessimo odore che emanava, ma gli sguardi carichi di giudizio e disgusto lo avevano fatto irritare parecchio. Uscito alla sua fermata, si era acceso un’altra sigaretta e aveva camminato a passo talmente svelto che era arrivato davanti casa sua ancora prima di averla finita. Prese le chiavi dalla borsa e inserì quella più grande nella toppa superiore della porta d’ingresso; la girò mentre tirava un ultimo paio di tiri dalla sigaretta. Si chiese come mai la chiave non avesse fatto i tre giri con i quali era stata chiusa da lui stesso solo qualche ora prima, ma era troppo stanco e sporco per pensarci. Ne varcò la soglia che aveva ancora il fumo della sigaretta nei polmoni. Lo espirò via alzando lo sguardo davanti a sé e quasi gli andò di traverso.
Gli occhi avevano incontrato subito quelli terrorizzati di sua madre, prima di alternarsi in maniera frenetica, come la pallina di un flipper, tra la schiena nuda di Cecilia con indosso solo un paio di mutande seduta a cavalcioni per terra e la donna sotto di lei, altrettanto poco vestita e particolarmente colorata di tatuaggi, che la sorreggeva per le cosce. Non seppe capire, in quel momento, se la cosa più sconvolgente fosse stata la constatazione che sua madre avesse un’attiva vita sessuale o che l’avesse con una donna o che l’avesse sorpresa in procinto di, ma pensò che non sarebbe mai più entrato in casa senza preavviso.
Draven!
Il suo nome non gli era mai sembrato così cacofonico come in quel momento. La voce di Cecilia era venuta fuori dalle sue labbra in un sussurro tremolante che gli aveva fatto scorrere brividi gelati lungo la schiena e che aveva mentalmente paragonato al mugolio addolorato di un animale ferito.
Disse qualcos’altro, gli sembrò che anche la sua compagnia avesse detto qualcosa. Si erano ripetute il suo nome un paio di volte, non era riuscito a capire altro. Era rimasto sul ciglio della porta che, perlomeno, aveva avuto il buon gusto di chiudersi alle spalle prima di paralizzarsi come una statua di sale. Solo quando vide Cecilia accennare un movimento e incrociare le braccia al petto per coprirsi, nel presumibile tentativo di voltarsi verso di lui, riuscì a destarsi da quella specie di trance in cui era caduto. Deviò lo sguardo e i piedi, per suo immenso sollievo, ripresero a camminare per portarlo, spediti, verso il bagno.
Ci si chiuse dentro a chiave. Aprì l’acqua della doccia ancora prima di togliersi di dosso quei vestiti sporchi. Lo aveva fatto per istinto, come se avesse voluto proteggersi dal sentire qualsiasi suono o parola proveniente dall’esterno di quelle quattro piccole mura. Aveva imparato a fidarsi del proprio istinto, lo riteneva pressoché infallibile, ormai; non lo aveva interrogato nemmeno quando si era fatto spingere da lui dritto in bagno prima di passare in camera sua… Ciò significava che avrebbe dovuto attraversare di nuovo la sala per andare a vestirsi.
Non riusciva a credere a ciò che aveva appena visto e provò, addirittura, a dirsi che se l’era immaginato. Mentre l’acqua fredda prese a scorrergli tra i capelli e lungo il corpo, chiuse gli occhi e provò a tenere la mente occupata con canzoni e poesie che prese a ripetersi come un mantra, ma dietro le palpebre chiuse continuava a esserci solo e soltanto la scena a cui aveva appena assistito.
Draven non poteva saperlo, ma Cecilia era andata a rifugiarsi nella sua stanza. Sedeva, tutta raggomitolata su se stessa, tra i cuscini del letto. La donna tatuata era seduta vicino a lei, in ginocchio sulle lenzuola. Le accarezzava la schiena in un moto perpetuo, come a volerla consolare. Si erano rivestite entrambe.
È incazzato a morte.
È un adolescente, è incazzato a prescindere. Non puoi sapere cosa sta pensando se non gli parli.
Dalle labbra di Cecilia era sfuggita una risata amara. Aveva scosso la testa, prima di alzare lo sguardo sulla donna.
Tu non sai com’è. – iniziò a dire Cecilia, con la voce rotta di pianto. Era tornata subito a testa china sulle ginocchia, abbracciate contro il petto. Sembrava voler dire altro, quindi la donna di fianco a lei rimase in silenzio.
Quegli occhi freddi, iniettati di sangue… Suo padre era uguale. – proseguì, singhiozzando.
La donna tatuata sussultò appena, come se fosse stato scoperto un nervo particolarmente sensibile.
Non è vero. Non lo pensi davvero. È anche tuo figlio, non può essere solo come lui, no? E se ha ereditato qualcosa da te, deve avere qualcosa di buono.
Ci sopravvaluti entrambi.
La donna sospirò. Parlare con Cecilia quando era turbata era una causa persa, ma non aveva la minima intenzione di demordere. Con delicatezza le si avvicinò. La mano dalla schiena si era spostata dietro la nuca.
Non dire così. Non è vero. Sei una donna splendida, lo sa anche lui. Ti vuole bene. Dovete parlarne.
No. Non mi vuole bene. E non posso nemmeno fargliene una colpa…
La donna fu sul punto di controbattere, ma la porta del bagno che si aprì la fece ridestare. Cecilia fu scossa da un tremito e, in risposta a quel suono, si strinse ancora di più in se stessa; sembrava come se stesse cercando di nascondersi. O di sparire.
Draven raggiunse la sua camera in tre lunghe falcate veloci. Fu sollevato di non vedere le due donne in sala e gli tornò in mente l’ipotesi dell’allucinazione. Era una magra consolazione, ma era pur sempre qualcosa. Nei minuti passati sotto la doccia, tra citazioni e jingle, si era interrogato un po’ più a fondo sulla questione. Si era reso conto quasi subito che lo shock era stato istigato dal semplice fatto che sua madre avesse una vita sessuale. Aveva 34? 35? 36 anni? Giù di lì. Insomma, era ancora molto giovane, non c’era niente di strano… Solo che nessun figlio vuole scoprire i propri genitori a fare sesso; anche peggio se si trattava di un solo genitore impegnato a farlo con un totale sconosciuto. Considerando che per anni aveva portato avanti una relazione felice con suo padre, un uomo, si era chiesto se fosse stata costretta dai pregiudizi a tenere nascosto il suo orientamento sessuale, se lo avesse scoperto dopo o se, semplicemente, si era innamorata di quella donna a prescindere dal sesso. Ma soprattutto, riguardo l’ultima ipotesi, erano innamorate? Era una cosa seria? Da quanto andava avanti? Come e dove si erano conosciute?
Sbuffò, spostandosi tra comodino e armadio per prendere i vestiti. Considerando quanto poco si parlavano lui e sua madre, era improbabile credere che avrebbe ottenuto risposte a tutte quelle domande: lui non le avrebbe mai poste, lei non si sarebbe mai lanciata a dirgliele di sua iniziativa.
Mentre era intento ad abbottonarsi la camicia bianca, pulita, bussarono alla porta della sua stanza. Era completamente vestito, gli mancavano solo le scarpe, ma non disse niente perché non aveva la minima voglia di vedere sua madre in quel momento… Ma la porta si aprì comunque dopo qualche secondo di silenzio.
Draven volse lo sguardo, scocciato all’idea che Cecilia potesse fargli perdere tempo con chissà che discorsi imbarazzanti, ma si ritrovò a incrociare lo sguardo della donna tatuata. Gli occhi verdi si strinsero in due fessure, in un’espressione che definire adirata sarebbe un eufemismo.
Hey… ehm… Scusa l’intrusione. È che dai l’impressione di essere un po’ di fretta e ci tenevo a presentarmi prima di vederti andare via.
Chi cazzo sei per entrare in camera mia così?
Uh. Ok, siamo arrabbiati. Mi dispiace. Credo che abbiamo iniziato col piede sbagliato…?
Tu credi?!
La donna arricciò le labbra in un sorriso divertito che, palesemente, stava cercando di trattenere. Aveva l’aria di essere una persona incapace di provare nervosismo e quella prima impressione, per contromisura, non fece che rendere Draven ancora più furioso.
Mi chiamo Eliana. Ho ventotto anni compiuti da poco e sono nata e cresciuta a Londra. Tua madre mi ha parlato tanto di te, non vedevo l'ora di conoscerti.
La donna protese una mano in direzione di Draven con l’intento di stringerla e compiere il rito di presentazione, ma Draven non la degnò nemmeno di uno sguardo. Continuava a fissare i suoi occhi in cagnesco.
Esci immediatamente dalla mia stanza. – sibilò tra i denti, in un tono talmente minaccioso da risultare abbastanza convincente da far indietreggiare la donna, che alzò le mani in segno di resa. Draven si mosse, andandole incontro, solo per poterle sbattere in faccia la porta.
Con il cuore a mille e il respiro corto di rabbia, si mise a sedere sul bordo del letto per indossare le scarpe. Visto che aveva infilato in lavatrice anche le vans rosse, optò per le converse nere. Per sua fortuna, la borsa scolastica non era stata intaccata dalla pozione maleodorante, solo in parte sulla bretella; la cambiò con quella di un vecchio zaino che teneva sul fondo dell’armadio. Se la sistemò a tracolla e uscì dalla camera.
Eliana era ferma, in piedi, davanti alla porta della sua stanza, a braccia incrociate sul petto. Era alta la perfetta via di mezzo tra lui e sua madre, ma in quella posa aveva un che di imponente, come se fosse stata alta più di due metri. Non voleva proprio demordere; era testarda a livelli snervanti.
Fai sul serio?! Ma che cazzo di problemi hai?
Ok, allora arrivo al sodo: comportandoti in questo modo fai soffrire tua madre.
Saprà come consolarsi. Stava bene fino a poco fa…
Già. Stava bene, prima che tu reagissi così. Mi dispiace, sul serio, ma parlale, almeno.
L’espressione di Draven era un misto di disgusto e rabbia cieca. Non ribatté, perché la tipa tatuata aveva ragione. Ma era una situazione surreale! Non poteva credere che stesse davvero accadendo tutto ciò. Se Cecilia voleva parlargli, perché non c’era lei lì davanti a lui? Perché, come sempre, sperava che il tempo gli facesse dimenticare ogni dubbio, ogni domanda, ogni curiosità o necessità? Sperava che Draven passasse più tempo dalla nonna o alla scuola così da non averlo mai intorno? Il figlio non richiesto che gli bazzicava in giro per casa, mangiava il suo cibo e irrompeva nei suoi momenti felici.
Per un attimo, fu tentato di contattare Lilien e chiederle di andare da lei in Irlanda. Ma scartò subito l’ipotesi, per salvaguardare quel po’ di sanità mentale che gli rimaneva. Poteva chiedere asilo al Paiolo Magico finché non fosse arrivato il momento di tornare a scuola… ma non poteva permettersi di pagare tutte le notti che lo dividevano dalla libertà. L’unica via d’uscita era lavorare. Lavorare aveva la priorità, per la propria indipendenza economica così, magari, qualche notte fuori sarebbe riuscito a permettersela.
Senza aggiungere altro, si spostò di lato per superare la donna che gli stava bloccando il passaggio. Aveva totalmente perso la cognizione del tempo e doveva tornare da Sinister il prima possibile. Sarebbe stato costretto a prendere la metro per fare prima; due volte in un giorno, non gli succedeva dai tempi della scuola elementare. Prima di raggiungere la porta d’ingresso, però, una mano lo afferrò saldamente per un braccio per fermarlo.
Senti, mi dispiace. Dev’essere stato –
Le parole vennero interrotte dalla brusca reazione di Draven che, per scrollarsi la mano di dosso, destabilizzò l’equilibrio della donna.
Non mi toccare. Stai cercando una possibilità per scopare anche me, per caso?
Ugh… Prima cosa: ugh. – ribatté la donna, con un’espressione schifata in viso.
Draven era fuori di sé. Se avesse detto un’altra cosa sbagliata, non ci avrebbe capito più niente. Sentiva che tutta la rabbia repressa nel corso degli anni stava per uscire come lava da un vulcano in eruzione. Quelli erano solo i primi lapilli. Eliana non aveva la minima idea in cosa si fosse andata a cacciare.
Secondo: sei un bambino. Inoltre, non sono interessata al sesso maschile.
Lo avevo notato.
Punto terzo: mi dispiace, non avrei dovuto irrompere nei tuoi spazi così. Questa è anche casa tua e ti ho mancato di rispetto. Ma sono innamorata di tua madre e intendo stare con lei, che a te piaccia o no. È stato un incidente, non ricapiterà più una situazione come quella a cui hai assistito, ma avrei piacere di continuare a passare da qui quando tua madre lo vuole.
Cominciò a dire la donna, parlando molto velocemente, come per paura di non avere tempo di dire tutto ciò che voleva dire. Tempo che Draven le concesse solo perché, con la coda degli occhi, aveva visto sua madre uscire dalla camera da letto, il viso gonfio di pianto. Il cuore aveva mancato un battito a quella vista. Nonostante tutto, non gli faceva piacere che sua madre stesse male… Le rivolse un rapido sguardo, con quei freddi occhi verdi ancora ricolmi di furia, poi uscì di casa: accompagnato dalle parole di Eliana, che si ritrovò, di nuovo, una porta chiusa in faccia.
the new normal La testiera cigolante del letto e il materasso con delle molle particolarmente aggressive lo avevano infastidito tutta la notte, ormai da due notti. Aveva provato a farsi cambiare stanza dopo la prima esperienza, ma sembrava che il Paiolo Magico fosse parecchio frequentato in quel periodo. Non era tornato a casa perché aveva bisogno di stare da solo, ma si era ritrovato comunque circondato da esseri umani. Era andato tutto storto, quel giorno; a partire dal caldo, proseguendo con l’incidente della pozione, l’altro incidente e infine i turisti. Era andato al Paiolo dopo aver finito il turno da Sinister. Aveva comprato un semplice bracciale in corda di cuore di drago in negozio e lo aveva rivenduto a una strega francese a Diagon Alley al doppio del prezzo, spacciandolo per un magico bracciale protettivo… Si era sentito un po’ stronzo a truffarla, ma non gli era sembrata a corto di galeoni, anzi; e lui ne aveva estremo bisogno. Poteva dormire sonni tranquilli sapendo di aver aiutato un ragazzo in difficoltà? Con quei soldi era riuscito a pagarsi due notti fuori. Forse, aveva fiuto per gli affari, o per le truffe, dipendeva dal punto di vista, probabilmente.
Subito dopo, era andato in un negozio babbano per comprare dell’intimo e un paio di t-shirt, visto che era uscito di casa senza portarsi dietro dei cambi; gli stava anche bene vivere come un senzatetto, ma non riusciva a tollerarsi sporco. In quanto a sterline, però, era messo anche peggio. Considerando il costo delle sigarette e di almeno un paio di pasti, gli era rimasto pochissimo nel portafogli.
Comunque, nonostante tutto, almeno quella prima serata era stata interessante. Dato che il cibo al Paiolo Magico aveva un aspetto riprovevole, era uscito a prendersi una pizza e si era ritrovato a pensare che fosse la pizza più buona che avesse mai mangiato in tutta Londra. Al rientro, aveva incontrato i suoi vicini di stanza, una coppia di Tokyo che lo aveva fermato per chiedergli informazioni. Erano stati educati e gli avevano fatto subito simpatia, quindi aveva deciso che per riportare il karma dalla sua parte, dopo la truffa, non poteva far altro che aiutarli. Aveva cercato di comunicare con loro, che allo stesso modo avevano cercato di farsi capire, ma era stato difficilissimo, vista la barriera linguistica. Aveva provato a chiedere loro della scuola magica in Giappone e gli aveva parlato di alcuni manga che leggeva sin da bambino, ma alla fine della conversazione aveva rischiato di addormentarsi lì in piedi, in corridoio, e il giorno dopo si era svegliato senza nemmeno ricordare le loro risposte. Poi la notte era stata infernale e aveva dormito malissimo. L’idea di tornare in quella stanza dopo un’altra giornata di lavoro lo aveva tenuto teso e nervoso per tutto il giorno. Non che avesse altre opzioni fattibili.
Quantomeno, quella specie di vacanza fuori porta gli era servita a fargli rivalutare molto della sua casa, della presenza di sua madre e della situazione in generale. Aveva appena scoperto che c’erano cose peggiori e che, nonostante tutto, potesse ritenersi fortunato; quantomeno, sia a Hogwarts che a Londra godeva di parecchi comfort. Non aveva mai vissuto nel lusso, ma non gli era mai nemmeno stato fatto mancare nulla. Fare il conto di quanti galeoni avesse ancora in banca non gli era piaciuto per niente. Fino a quel momento, la questione finanziaria non lo aveva mai toccato. Ne aveva tante da dire su Lilien e Cecilia, però da quel punto di vista non avrebbe mai potuto lamentarsi.
Aveva preso a girarsi e rigirarsi su quel maledetto materasso sgangherato, cercando una posizione che gli consentisse di dormire senza ottenere altri lividi ovunque. Dopo chissà quante ore, ci aveva perso le speranze. Forse perché il proprio cervello era consapevole del fatto che non meritasse di riposare, visto che il giorno dopo non doveva andare a lavoro e che, per mancanza di fondi, non poteva far altro che tornare a casa. Scese dal letto, spazientito, e si avvicinò alla borsa per prendere il cellulare. Lo aveva tenuto spento per due interi giorni… Prima di riaccenderlo, si interrogò sulla situazione. Se da una parte si aspettava che sua madre non lo avesse cercato, dall’altra sperava lo avesse fatto. Non si era mai mostrata preoccupata davanti a lui. Era sempre stata fredda e schietta. Vederla con gli occhi gonfi di pianto era stato shockante quasi quanto tutto il resto.
Non appena riaccese il cellulare, lo schermo prese a illuminarsi a intermittenza con una quantità di notifiche che non aveva mai visto. Contò trentasei messaggi che lo avvisavano di essere stato chiamato da sua madre in quel lasso di tempo. Provò a scorrere oltre, visto che sembrava che ce ne fossero altri, ma lo schermo sfrigolò. Draven provò a scuotere il cellulare, come se qualche colpetto potesse bastare a farlo riprendere a funzionare correttamente, ma gli si spense in mano dopo pochi secondi, senza dare più alcun segno di vita.
Maledetta barriera magica… - sibilò tra i denti, rimettendo il cellulare nella borsa scolastica, insieme a tutto il resto che aveva sparpagliato sul pavimento. Si era così concentrato sulle notifiche che non aveva nemmeno visto che ore fossero, ma non gli importava. Voleva tornarsene a casa sua.
Si vestì, prese tutte le sue cose e uscì.
L’aria era fresca e piacevole. Non c’era nessuno in giro, era piena notte.
Superata la zona del Paiolo Magico di qualche metro, riprovò ad accendere il cellulare. Fortunatamente, funzionava. Venne invaso da altre notifiche, ma non le aprì neppure. “Sto tornando”, scrisse e inviò il messaggio a sua madre. Immediatamente ricevette in risposta un “Ok”. Era evidente che fosse rimasta tutto il tempo a fissare il cellulare in attesa di sue notizie; o, almeno, così sentì lui di poter giustificare la pronta risposta. Alzò lo sguardo sull’angolo in alto a destra del telefono, lì dove era segnalata l’ora: erano le 2.24. Ebbe una specie di dejavu che non riuscì a spiegarsi…
Si infilò il cellulare in tasca e si avviò verso casa. La metro a quell’ora era chiusa e di prendere gli autobus notturni in mezzo a babbani ubriachi e molesti non era proprio il caso.
Cuffie alle orecchie, camminò a testa china per quel lunghissimo tratto di strada che faceva quasi tutti i giorni, ormai, da quasi un mese. Una quantità di canzoni e di sigarette dopo, finalmente giunse a casa. Esitò qualche istante, prima di aprire la porta. Sentiva di doversi preparare psicologicamente a dover affrontare non una, ma due donne presumibilmente sull’orlo dell’isteria. Sua madre di sicuro. A meno che la preoccupazione non avesse avuto la meglio, in quei due giorni.
La serratura scattò senza giri, proprio come nel giorno dell’incidente e nonostante avesse ripetuto più e più volte a sua madre di chiudersi dentro quando lui non era in casa.
Cominciava malissimo. Aveva i nervi a fior di pelle.
Non appena aprì la porta, si ritrovò subito con lo sguardo rivolto sul viso di sua madre, seduta in cucina. La vide alzarsi ancora prima che lui potesse mettere piede in casa. Quando superò la soglia e si chiuse la porta alle spalle, sua madre gli stava già davanti.
Aveva gli occhi gonfi di pianto fissati nei propri. La vide protrarsi verso di lui e pensò che stesse per abbracciarlo, ma sembrò ripensarci subito… In effetti, sarebbe stato strano. Non si davano dimostrazioni d’affetto da quando aveva tre anni o giù di lì.
Dove sei stato? – gridò Cecilia e Draven, in tutta risposta, alzò lo sguardo al cielo, sbuffando. Le volse le spalle senza ribattere; odiava il modo in cui gli si rivolgeva quando era nervosa. Urlava sempre, perché non sapeva dire le cose con un tono di voce che non fosse irritante? Era stato stupido a pensare, per un attimo, che l'avrebbe trovata felice che fosse vivo e illeso…
Prima che Draven potesse raggiungere la propria stanza, si sentì afferrare per un braccio e tirare forte dal verso opposto al quale stava camminando.
Dove credi di andare, ragazzino? Non puoi fare come ti pare. Mi devi delle spiegazioni.
Lo sguardo di Draven s’indurì di nervosismo e rimase a fissarla, in silenzio, con un’espressione accigliata. Non aveva le forze per discutere con sua madre alle quattro e mezzo di notte, dopo due intense giornate di lavoro e la carenza di sonno.
Ho dormito al Paiolo Magico.
Che nome buffo per un hotel. Non lo conosco, dove si trova?
Entrambi Draven e Cecilia si volsero di scatto in direzione dalla quale avevano sentito provenire la voce. Eliana era sull’uscio della camera da letto di Cecilia; indossava una canotta nera e un paio di pantaloncini inguinali. Si stropicciò gli occhi e sbadigliò sonoramente, prima di riuscire a ricambiare il loro sguardo. Cecilia era ancora troppo arrabbiata con Draven per concederle uno sguardo più dolce, ma non gliene faceva una colpa; era lo sguardo del ragazzo a farle venire i brividi, non sapeva proprio decifrarlo: disgusto? Nervosismo? Entrambe le cose?
Può almeno tenersi addosso dei vestiti quando ci sono anche io?
Lo sguardo di Draven era tornato su sua madre. La donna, in evidente imbarazzo, sembrò essersi improvvisamente ricordata il motivo per cui suo figlio era stato via da casa per due giorni senza darle notizie. Si limitò ad annuirgli e gli lasciò andare il braccio.
Draven scoccò un’occhiata a entrambe e vide Eliana dargli le spalle mentre indossava, diligentemente, una felpa che la coprì più della canotta e degli shorts insieme.
Io me ne vado a dormire. Non fate casino. – sentenziò poi, dando le spalle a sua madre. Con la coda degli occhi la vide sussultare e volgere lo sguardo verso Eliana.
Buonanotte, Venny! – sentì dire ad alta voce dall'ospite, mentre si chiuse la porta di camera alle spalle. Odiava quel nomignolo sin da quando era bambino. Era incredibile come nelle poche interazioni avute con lei non avesse fatto altro che irritarlo in ogni modo possibile, sembrava ci trovasse gusto. La sentì addirittura ridere.
Come faceva sua madre a sopportare una donna del genere? Bella era bella, parecchio anche, ma era insopportabile.
pineapple pizza Il pallone da calcio rimbalzava sul collo dei piedi di Draven in maniera alternata e ritmica. Aveva smesso di tenere il conto di quanti palleggi riuscisse a fare di seguito quando aveva capito che per formare le squadre ce ne stavano volendo troppi. Aveva smesso anche di seguire la vicenda. Se ne stava lì, vicino alla porta, una sigaretta tra le labbra e lo sguardo basso sull’erba. Gli era sempre piaciuto il modo in cui i raggi del sole si riflettevano su quel prato; era l’unica cosa bella del suo quartiere. Se si mantenevano bassi gli standard di bellezza: le tribune avevano gradini mancanti e altri rotti dalle intemperie, le porte del campo avevano le reti distrutte e la linea di metà campo era segnalata da bruciature sul terreno. Non era minimamente paragonabile al giardino di Hogwarts. Niente del mondo babbano era paragonabile a Hogwarts. Quelle persone intorno a lui, che stavano discutendo di come formare le squadre per fare una partita a calcio e dove andare a cercare qualche altro giocatore per essere undici contro undici, non avevano la minima idea di quanto divertente fosse il quidditch.
Non dovresti fumare.
La voce di una ragazza colse l’attenzione di Draven, che alzò istintivamente lo sguardo su di lei, prima di rivolgerlo intorno, spaesato, per assicurarsi che ce l’avesse con lui. Non la conosceva. E gli aveva appena fatto perdere la concentrazione sul palleggio.
In tutta risposta, Draven prese un lungo tiro dalla sigaretta e lo espirò sbuffando. Si chinò a raccogliere la palla e, come se niente fosse, riprese a palleggiare.
Non ti fa male, per correre?
Proseguì la ragazza, ma stavolta Draven nemmeno alzò gli occhi su di lei e rimase concentrato sul palleggio. Lui non doveva correre, giocava come portiere, poteva fumare quanto gli pareva prima di una partita. Non era di certo un professionista. Inspirò un altro tiro e il ricordo dell’esperienza con gli zombie vissuta insieme ad Alice gli balenò nella testa… In quell’occasione aveva fatto una fatica enorme a correre e ricordò di essersi ripromesso che avrebbe ripreso a fare sport con più costanza; all’epoca non aveva ancora ricominciato a fumare regolarmente, ma era risaputo che sigarette e attività sportive non andavano d’accordo. Colto, così, da un improvviso senso dell’onore, nei confronti di una vecchia promessa fatta a se stesso e che aveva finito col dimenticare, buttò a terra la sigaretta e la spense in un punto in cui il terreno era più arido, intorno a uno dei pali della porta. Evidentemente la ragazza fraintese il gesto, pensando che Draven avesse voluto seguire il suo suggerimento, perché gli si avvicinò per dargli una pacca sulla spalla. Il giovane serpeverde si ritrasse d’istinto come se avesse preso una scossa di corrente e alzò lo sguardo su di lei, con la sua solita espressione stizzita in viso. Corrucciò lo sguardo e rimase a guardarla storto per qualche secondo, prima di allontanarsi da lei, lasciando lì il pallone che lo aveva intrattenuto fino a quel momento.
Hey! Se non avete risolto entro cinque minuti me ne vado. – disse a voce alta, rivolto al gruppo di ragazzi che era rimasto lì al campo a discutere delle formazioni. Era sicuro che prima ce ne fossero di più; forse gli assenti erano andati in giro per il quartiere a cercare altri giocatori.
Aveva accettato di giocare solo per noia. Era tornato presto da un turno da Magie Sinister e aveva incontrato sua madre in casa, perché il destino aveva voluto che anche lei finisse prima di lavorare quel giorno. Dopo qualche minuto di imbarazzo in cui sua madre aveva detto di avere impegni per cena, lasciandogli intuire che potesse essere un modo implicito per chiedergli di restare fuori casa, Draven era uscito dicendole che aveva impegni anche lui e che l’avrebbe avvisata prima di rientrare. Aveva camminato verso il parco per abitudine, solo per perdere tempo, ma era stato incastrato in quella partita che, probabilmente, non sarebbe mai iniziata. Era rimasto lì perché non sapeva dove altro andare; la storia della sua vita a Londra, solo che se in passato era perché stare da solo in casa lo deprimeva, stavolta c’entravano anche sua madre e la sua fidanzata logorroica. La verità era che non gli era mai piaciuto frequentare i ragazzi del quartiere, ma ci era cresciuto insieme, avevano sempre svolto discretamente bene la funzione di distrazione. Era consolatorio anche il fatto che fossero bravi a giocare a calcio.
Non mi riconosci, vero?
Stavolta la voce della ragazza era giunta dalle sue spalle. Con un sonoro sbuffo, Draven si volse a guardarla storto, di nuovo. Per qualche motivo a lui oscuro, più cercava di ignorare le persone più queste insistevano col volere una reazione da lui. Era così difficile capire che non voleva essere infastidito?
Sono la sorella di Dan. – proseguì lei, indicando il ragazzo più alto del gruppo. Anche Dan giocava come portiere, aveva imparato guardando lui, da bambino. Era più grande di cinque o sei anni; quando sei un ragazzino, sembra una differenza di età abissale. Prima della morte di suo padre, quando frequentava la scuola elementare di Gloucester, Draven aveva fatto amicizia con i suoi fratelli più piccoli, due gemelli.
Sei Emily?
No, l’altra sorella. Jenny, nel caso non ricordassi il mio nome. – rispose lei, ridacchiando.
L’altra sorella che aveva avuto più o meno cinque anni l’ultima volta che l’aveva vista. Come pensava che potesse riconoscerla? Non sarebbe riuscito a riconoscere nemmeno Emily e Frankie con i quali aveva condiviso quattro anni di scuola elementare.
Non ti vedevo da tipo dieci anni…
Beh, sì. Sono un po’ diversa. Tu invece sei sempre uguale. – gli rispose la ragazza, a cui Draven finalmente dedicò uno sguardo meno arcigno. Doveva avere dodici o tredici anni, ma era vestita e truccata come una ventenne navigata.
Sei sempre stato schivo, anche se in effetti un po' sembri diverso: peggiorato, direi. – proseguì, continuando a ridacchiare in un modo che mise a disagio Draven. Aveva praticamente rimosso dai propri ricordi il periodo tra l’assenza di suo padre e la sua morte, come se quegli anni non fossero mai esistiti. Riportarli alla memoria gli provocò un moto d’ansia e capì perché aveva finito col dimenticarli.
Ok. – si limitò a risponderle, tenendo lo sguardo fisso in quei suoi occhi chiari e scuriti dalla matita nera. Se ne stava di fronte a lui, leggermente protesa in avanti, con le braccia incrociate dietro la schiena; quantomeno era sveglia e aveva capito che doveva mantenere le distanze, ma non accennava a lasciarlo in pace. Sempre più a disagio, Draven volse lo sguardo verso il gruppo di ragazzi. Ce n’erano altri, più o meno della sua età, seduti sulle tribune insieme ad altre ragazze. Quando era diventato così affollato?
Capita spesso che i gemelli parlino di te. È capitato un sacco di volte, nel corso del tempo. Sei stato la loro prima cotta, credo. Ma penso che l’uno non sappia dell’altro. Ci rimasero malissimo entrambi, però, quando fosti trasferito in un’altra scuola. Eravate così uniti!
Non si era mai chiesto cosa fosse stato riferito alla sua vecchia scuola elementare quando suo padre era morto, sua madre era stata arrestata e lui trasferito dagli assistenti sociali in un orfanotrofio. Ci aveva passato solo pochi mesi lì, ma con l’intervento poi di nonna Lilien non era più tornato in una scuola babbana.
Saranno felici di sapere che stai bene. Dan non ci parla mai di te. – proseguì, forse con l’impressione che a Draven potesse far piacere avere quella conversazione. Era incredibile come nonostante l’incapacità di nascondere le proprie emozioni attraverso la mimica facciale, le persone decidessero di ignorarle e continuare a parlargli quando chiaramente, dalle smorfie che faceva, non gliene poteva fregare di meno.
Stava decidendo se e cosa risponderle, pur di togliersela di torno in maniera educata per non istigare suo fratello, che era sicuro li stesse osservando mentre preparava la formazione, quando sentì il cellulare squillargli nella tasca dei jeans. Lo prese e guardando sullo schermo vide un numero che non conosceva; in altri contesti avrebbe ignorato la chiamata, ma in quel momento fu grato a chiunque fosse di aver interrotto quella conversazione. Anche se, ormai, l’angoscia lo aveva avvolto come un mantello.
Sventolò il cellulare davanti al viso della ragazza, come a dirle silenziosamente che doveva rispondere a quella chiamata, e riuscì ad allontanarsi da lei nel modo educato che aveva sperato.
Pronto?
Ven! Torni a casa per cena? Ho portato la pizza.
La voce squillante di Eliana all’altro capo del telefono lo riportò brutalmente alla realtà. Aveva avuto un tempismo eccezionale, ma non poteva dire di avere davvero voglia di parlare con lei. Continuava a prendersi delle confidenze che Draven non le aveva mai concesso. Ok, si stava frequentando con sua madre, erano affari loro, ma perché insisteva così tanto a voler avere un rapporto anche con lui? Nemmeno la sua stessa madre aveva un rapporto con lui!
Perché hai il mio numero?
L’ho rubato da tua madre. Allora, a che ora torni?
Non lo so, sto facendo una partita di calcio.
Non si sorprese del fatto che la sua esuberanza e la sua sicurezza l’avessero spinta a rubare dal cellulare di Cecilia il suo numero di telefono e a chiamarlo, ma era rimasto così sorpreso da quella domanda che si ritrovò a risponderle senza nemmeno esitare. Da che ne avesse memoria, nessuno si era mai interessato di sapere dove fosse o cosa stesse facendo in giornate qualsiasi.
Ok, non fare tardi. La pizza fredda fa schifo, cerco di tenertela in caldo.
Ok…?
A occhi sgranati, Draven era rimasto a fissare l’erba del campo come se da un momento all’altro potesse aprirsi una voragine che lo avrebbe riportato nel suo mondo. Perché era assurdo, per lui, avere una conversazione simile. Non poteva essere reale. Per di più con qualcuno che conosceva da due settimane o giù di lì e che aveva cercato in ogni modo di ignorare. Considerando che sarebbe tornato presto a Hogwarts, ammettendo pure che la relazione di sua madre sarebbe durata nei mesi seguenti, avrebbe rivisto quella donna… quanto? Due volte in un anno? Era più facile per tutti che restasse fuori dalle loro vite.
Drav! Ci siamo!
Uno dei ragazzi richiamò la sua attenzione e Draven si voltò verso di lui per annuirgli.
Devo andare. – disse poi rivolto a Eliana, riagganciando la telefonata prima che lei potesse dirgli altro.
Rimise il cellulare in tasca e andò a posizionarsi davanti la sua porta.
Il carattere di Eliana gli ricordò un po’ quello di Emily, ora che sua sorella gli aveva riportato a galla il ricordo. Per quanto non fosse mai riuscito a tollerare granché bene le personalità troppo estroverse, erano sempre state quelle in grado di tirare fuori da lui il meglio. Alla sola età di sei anni, Emily aveva preso per mano lui e il suo gemello Frankie, dalla sua stessa personalità timida e chiusa, e li aveva portati in giro per la scuola per i quattro anni seguenti per farli giocare e interagire con gli altri bambini; aveva fatto da apri pista in così tante occasioni che, a ricordarle tutte insieme, gli venne mal di testa. Ebbe l’improvvisa impressione che Eliana stesse facendo la stessa cosa, cercando di creare un ponte di comunicazione tra lui e sua madre.
Era così surreale al punto da estraniarlo.
La partita era cominciata e a malapena aveva seguito le prime azioni. Si destò dal filo dei suoi pensieri quando la palla gli passò di fianco ed entrò in rete senza che nemmeno se ne rendesse conto per tempo.
Rilanciò la palla in campo chiedendosi che pizza avesse preso Eliana per lui e se sua madre si fosse ricordata quale gli piacesse, o se lo avesse mai saputo, pensando che nel caso avrebbe dovuto trovare l’occasione per farlo sapere a entrambe.
REAL-EYES Era una tiepida giornata d’estate. Il sole risplendeva in cielo, circondato da qualche nuvola chiara. Quando era così, si stava bene a Londra. Sedeva all’aperto di un bar di Trafalgar Square; non frequentava mai il centro, ma si era sentito in dovere di portare Megan in un posto che fosse più alla sua altezza. E quel bar era rinomato. Non avevano ancora deciso cosa ordinare, ma non aveva alcuna fretta. Era bello poter stare in silenzio, senza sentirsi a disagio, scambiarsi qualche sguardo complice e poi tornare a leggere il menù. Sembrava così naturale da dargli l’impressione che non fosse la prima volta che uscivano insieme. Però era agitato, aveva sempre paura con lei di dire o fare la cosa sbagliata. Sin da quando aveva incrociato il suo sguardo per la prima volta aveva sentito l’esigenza di aprirsi a lei senza riserve, ma più passava il tempo più si sentiva terrorizzato all’idea di essere giudicato o che potesse non piacerle chi fosse davvero. Non lo conosceva, non sapeva niente di lui. Non voleva e non poteva perderla, ma non riusciva a decidere se fosse meglio essere semplicemente se stesso o fingere di essere una persona più bella, più piacevole. Ci pensava costantemente, pur essendo consapevole che non avesse granché scelta visto che smetteva completamente di ragionare quando la guardava negli occhi. Aveva sempre avuto questo vizio di fissare le persone negli occhi, ma mai nessuno gli aveva scaturito dentro quello che era in grado di fargli provare Megan.
Ok, ho deciso!
La voce di Megan gli arrivò ovattata alle orecchie, come se fosse stata in qualche modo manipolata. A guardarla bene, anche i suoi occhi non erano quelli di sempre…
Sì? Che hai scelto?
Scelgo Casey!
Draven rialzò di scatto lo sguardo su di lei e la vide rimettersi in piedi. Provò a fare altrettanto, ma si rese conto che aveva polsi e caviglie legate alla sedia, improvvisamente incastonata nel terreno.
Aspetta! In che senso? Che significa? – provò a dire, ma la ragazza gli aveva già voltato le spalle e sembrò non averlo neppure sentito. Al suo fianco apparve la figura di Casey e un brivido gelido gli attraversò la spina dorsale. Nessuna delle due gli rivolse neppure uno sguardo, avevano occhi solo l’una per l’altra. Quello sguardo… la stessa intensità dello sguardo che si erano scambiate alla festa, quando Draven si era sentito improvvisamente invisibile.
Casey? – provò a chiamare l’amica, la voce rotta da un’emozione che non riuscì bene a identificare. Sentiva il cuore pulsargli nel petto, il respiro venire meno. Non riusciva a muoversi, avrebbe almeno voluto gridare, ma quando vide le due prendersi per mano si accorse che a malapena riusciva a metterle a fuoco. La vista offuscata da lacrime silenziose che presero a scorrergli lungo le guance.
Ridevano. Felici in un modo che non aveva mai avuto il piacere di vedere, in un modo in cui lui non era mai riuscito a renderle.
Era stato di passaggio per entrambe?
Aveva rovinato tutto tra di loro e con loro.
Spalancò gli occhi nel terrore più assoluto, annaspando aria come se fosse rimasto in apnea per chissà quanto tempo. Il cuore gli batteva velocissimo fino a fare male e nel portarsi le braccia a stringere il petto, come se volesse impedire al cuore di esplodere, si accorse di essere madido di sudore. Il soffitto della sua stanza non era mai stato così rassicurante come in quel momento. Qualsiasi cosa avesse sognato, gli aveva fatto male fisico. Decisamente l’incubo peggiore degli ultimi tre mesi.
Gli ci vollero diversi minuti prima di riuscire a riprendere il controllo del respiro. Si mise a sedere cautamente, aveva un mal di testa lancinante e si accorse, scendendo dal letto, di avere anche le vertigini. Rimase fermo, in piedi, per qualche istante, per assicurarsi che non fosse sul punto di svenire, poi uscì dalla stanza. Lentamente, brancolò nel buio fino a raggiungere la cucina. Quando accese la luce, rischiò un altro infarto nel ritrovarsi Eliana seduta al tavolo, come se fosse del tutto normale starsene seduti così, in piena notte, in silenzio.
Che cazzo ci facevi al buio?
Non volevo disturbare. Sai che parli nel sonno? In realtà, hai urlato. Ho trovato strano che tua madre non si sia svegliata.
Evidentemente ci è abituata.
Era ancora troppo intontito di sonno per riuscire a contrastare la curiosità di quella donna. La risposta era venuta fuori spontaneamente e senza che si rendesse conto di che tipo di informazione avesse appena dato a una persona che restava, in gran parte, ancora una sconosciuta. Lo spavento di essersela ritrovata davanti all’improvviso quando aveva acceso la luce era stato più forte di qualsiasi altra cosa, ma non ancora sufficiente ad attivargli il cervello.
Sbadigliando, si avvicinò al lavello della cucina e prese un bicchiere, mentre con la coda degli occhi notò Eliana alzarsi in piedi e raggiungerlo.
Stai bene? Sei parecchio sudato, forse hai avuto un incubo. Dovresti fare una doccia.
E tu dovresti farti i cazzi tuoi. – ribatté freddamente, aprendo il rubinetto per far scorrere l’acqua. Non voleva guardarla, non voleva darle importanza. Era intenzionato a ignorarla, per quanto gli risultasse difficile visto che lo istigava costantemente. Con la coda degli occhi la vide sorridere.
Scosse la testa tra sé e sé. Era veramente impossibile da sopportare. Si riempì il bicchiere d’acqua e se lo portò alle labbra per mandare giù qualche sorso.
Chi è Casey?
Un brivido gelido gli attraversò la spina dorsale a sentire quel nome e, oltre a scatenargli una sensazione di deja vu, per lo stupore il bicchiere gli scivolò di mano. Cadde a terra e si ruppe scatenando un suono assordante, nel silenzio che si era generato subito dopo le parole di Eliana.
Quindi aveva sognato Casey? Pensava di aver superato la cosa, ma evidentemente il suo subconscio non era d’accordo.
Che è successo?
La voce di sua madre, che seppur impastata di sonno riusciva comunque a raggiungere picchi acuti di agitazione, lo ridestò dai propri pensieri. Si accorse solo in quel momento di essere rimasto completamente immobile a fissare il vuoto davanti a sé, mentre Eliana si era inginocchiata a terra per raccogliere uno ad uno i pezzi di vetro del bicchiere.
Oh, ti abbiamo svegliato, scusa! Tutto ok. Si è solo rotto un bicchiere. – disse la donna, rimettendosi in piedi per andare a buttare nel cestino i pezzi appena raccolti. Draven sentiva addosso il suo sguardo e anche quello di sua madre, ma non si mosse.
Attento alle schegge. – disse poi, posandogli delicatamente una mano sul petto per spronarlo a indietreggiare. L’assecondò e solo a quel punto incrociò il suo sguardo. Gli sorrise in un modo che, per qualche motivo, gli provocò il batticuore e gli fece venire gli occhi lucidi. Chinò la testa per nascondersi, rendendosi subito conto di quanto rassicurante, e al contempo spaventoso, fosse stato quel sorriso così… buono.
In totale silenzio, si ritrovò davanti sua madre con una scopa in mano e, a quel punto, riuscì a muoversi da solo e a spostarsi da lì. Nessuna delle due donne disse nulla per un bel po’ o, almeno, così gli sembrò. Si mise a sedere e incrociò le braccia sul tavolo della cucina, affondandovi il viso. Si sentiva un vero schifo.
Torna a letto, ci penso io. Non ti preoccupare.
Nah, sono le tre. Tra un’ora dovrei alzarmi per andare a lavoro, tanto vale che resti sveglia.
Che lavoro fai?
Alla domanda seguì un silenzio talmente lungo che costrinse Draven a rialzare la testa per essere sicuro di non essere rimasto a parlare da solo in cucina. Si ritrovò davanti lo sguardo stupito sia di sua madre che di Eliana; quest’ultima, però, nell’incrociare gli occhi di Draven sembrò riprendersi immediatamente dallo shock.
Barista. Lavoro in un bar. Ho il turno della mattina, oggi.
Non gli sembrò di aver fatto una domanda così sorprendente. Era rimasto troppo offeso dall’incubo e non si era ancora del tutto svegliato per rendersi conto di quanto risultasse strana una domanda simile da parte sua. Era una domanda che mostrava un interesse che nessuna delle due donne credeva di poter ricevere da parte di Draven, essendo Draven! Eliana conosceva solo ciò che Cecilia le aveva raccontato su suo figlio e che fosse introverso, scorbutico e disinteressato era tra le cose che sapeva di lui.
Dove?
Al bar di fronte la sartoria in cui lavora tua madre.
Vi siete conosciute così?
Le parole stavano venendo fuori da sole, una dopo l’altra. Le domande che si era chiesto da quando aveva conosciuto Eliana, settimane prima, avevano trovato il modo di uscire.
La donna gli annuì. Lanciò una rapida occhiata a Cecilia, che era rimasta in piedi vicino al ripiano della cucina a bocca spalancata dallo stupore. Draven, invece, teneva lo sguardo fisso su di lei, a malapena batteva le ciglia. Aveva la fronte corrucciata, ma non sembrava esserci traccia di cattive intenzioni nei suoi occhi; piuttosto, era come se stesse studiando le sue reazioni e le sue parole, per soppesare la verità e conoscerla meglio.
Da quanto va avanti?
Quasi due anni. – intervenne a dire Cecilia, prima che Eliana potesse rispondere. Ripresa dallo shock di sentire suo figlio affrontare, finalmente, quell’argomento e interessarsi a Eliana, non era riuscita a trattenersi; aveva sentito di dover far parte di quella conversazione. Sia la donna che Draven volsero lo sguardo su di lei, ma in maniera diversa. Mentre ad Eliana si illuminò il viso di un’incomprensibile gioia, quello di Draven si indurì in un’espressione più cupa. Guardò sua madre come se si fosse appena ricordato che non gli piaceva parlare con lei.
Vi lascio parlare in pace. – provò a dire Cecilia, sentendosi improvvisamente di troppo. La comunicazione non era mai stato il suo forte, quando si trattava di Draven. Ma Eliana scattò subito in piedi e le si affiancò, circondandole la vita con un braccio per fermarla.
No, mangiamo qualcosa. Chi ha fame? Io ho fame. – cominciò a dire, velocemente, con un improvviso entusiasmo che fece sorridere Cecilia. La donna si portò una mano davanti la bocca, come a volersi nascondere, imbarazzata.
Draven lasciò rimbalzare lo sguardo dall’una all’altra donna. Era sicuro di non aver mai visto sua madre così.
Forse stava ancora sognando e non si era mai svegliato per colpa di un incubo.
Ho fame anche io. – disse, più per ricordare loro che era ancora lì, seduto in cucina, che le fissava incredulo e anche un po’ incuriosito. Stava iniziando a svegliarsi e non seppe dire se fosse un bene o un male.
Cereali? – gli chiese Eliana, senza però aspettarsi una risposta. Gli diede le spalle, mentre lui le annuì, e quando si voltò di nuovo la vide con in mano una tazza. Ci versò dentro i cereali e poi gliela passò. Cecilia lanciò uno sguardo a Eliana, come a cercare in lei una risposta a chissà quale domanda; Eliana le annuì, consapevole di qualsiasi cosa fosse che stava passando per la mente della sua compagna. Draven non si accorse della conversazione silenziosa; stava mangiando i cereali uno ad uno, finché Cecilia gli porse il latte e un cucchiaio.
Grazie. – disse, senza voltarsi a guardarla e, in realtà, rivolto a entrambe. Stava iniziando a sentirsi a disagio, segno che stava decisamente iniziando a svegliarsi, per cui cominciò a mangiare senza dire altro.
Eliana preparò altre due tazze di cereali e andò a sedersi al tavolo anche lei. Cecilia la raggiunse subito dopo, sistemandosi all’altro capo del tavolo, di fronte a Draven.
Tu che lavoro fai? – chiese Eliana, con un velo di incertezza nel tono di voce. Aveva già capito che a Draven non piacesse condividere molto di sé.
Prima di rispondere, e mentre decideva cosa avrebbe detto, Draven alzò lo sguardo a vedere la reazione di sua madre. Se la sua fidanzata avesse cominciato a fare domande particolarmente personali, si sarebbero trovati entrambi a camminare su un campo minato.
Cecilia, però, seppur palesemente a disagio e con lo sguardo basso a fissare la tazza di cereali come se fosse la cosa più interessante del mondo, non disse nulla.
Lavoro in un negozio… di antiquariato, diciamo.
Era un gran bel modo per definire il negozio di Magie Sinister in maniera vaga.
Oh, wow! Dev’essere molto bello! Ma, tua madre mi ha detto che frequenti un collegio in Scozia?
Sì…
E come fai con il lavoro qui a Londra? È un impiego estivo?
Mi sposto con la magia.
A Cecilia, che aveva appena preso una cucchiaiata di cereali, andò di traverso il boccone al suono delle parole di Draven. L’attenzione di Eliana fu subito spostata su di lei e andò a batterle un paio di colpi sulla schiena per evitare che si strozzasse. La donna, in segno di rimprovero, alzò lo sguardo su suo figlio, il quale si strinse nelle spalle accennando un sorrisetto che mise in mostra le fossette.
Quando Eliana tornò a guardarlo, si ritrovò a sorridere anche lei. Doveva aver pensato che Draven avesse senso dell’umorismo. Non aveva la minima idea di quanto Draven fosse serio, invece. E consapevole del fatto che il precedente compagno di sua madre aveva dato di matto quando aveva scoperto di avere un figlio in grado di usare la magia.
Chissà se Cecilia ci aveva pensato, prima di portare un’altra persona nella loro famiglia.
Senza più nemmeno l’ombra del sorriso, Draven riabbassò lo sguardo, improvvisamente anche lui interessato dal modo in cui i cereali galleggiavano nel latte. A furia di chiacchierare, avevano finito con l’ammorbidirsi troppo.
Lasciò ricadere il cucchiaio nella tazza e si mise in piedi, scostando bruscamente indietro la sedia. In silenzio, andò a posare la tazza nel lavandino. Non concesse nemmeno uno sguardo alle due donne, prima di uscire dalla cucina.
Buonanotte? – gridò Eliana, quando Draven si chiuse alle spalle la porta della sua camera da letto.
Non metteva più in dubbio il suo sincero interesse nei confronti di sua madre e, per un lungo istante, aveva davvero creduto che fosse in grado di renderla felice come non era stata mai. Per un attimo, aveva fatto sentire bene anche lui. Ma quella donna non li avrebbe mai accettati in pieno. Non faceva parte del loro mondo e mai avrebbe potuto entrarci. Averci a che fare era solo una perdita di tempo.
Jules; ©harrypotter.fc.net
Nelle sei settimane di vacanza estiva che è 'costretto' a passare con sua madre, Draven fa i conti con se stesso, riflettendo sulle persone, soprattutto le donne, che in un modo o in un altro hanno influito su di lui, mentre conosce la compagna di sua madre e le possibili conseguenze della sua presenza nella sua vita.
Edited by Draven. - 5/5/2023, 13:58