Il calore delle ultime giornate estive era contrastato dalla finestra chiusa in sala. Dalle tapparelle abbassate filtravano flebili raggi di sole, accentuati dalla nuvoletta di fumo che Draven aveva generato nella stanza. Se ne stava lì: nella semi oscurità, seduto a petto nudo sul vecchio e logoro divano in pelle marrone, con un cuscino dietro la schiena per evitare di restarci appiccicato. L’unico rumore intorno a lui era quello del ventilatore acceso lì di fronte, alternato di tanto in tanto da qualche colpo d’arma da fuoco un po’ più forte degli altri, che fuoriusciva dalle cuffie che teneva sulle orecchie. Stava giocando alla playstation, a quei videogiochi che erano la quintessenza dell’essere un adolescente babbano; anche se, nel suo caso, lo era solo per metà. Teneva stretto tra le mani il joystick, l’aggeggio elettronico attraverso il quale riusciva a comandare le azioni del suo alter ego nel gioco, come se ne andasse della propria vita. Se qualcuno di Hogwarts lo avesse visto in quel modo, non avrebbe capito cosa stesse facendo o perché; per la maggior parte, almeno.
Dov’è andato? – gli aveva chiesto la voce di un ragazzo in cuffia.
A destra. – aveva risposto, senza entusiasmo, ma completamente concentrato. Sullo schermo davanti a lui un braccio in soggettiva teneva impugnato un fucile, o qualcosa di simile. Gli era passato davanti un altro uomo, diretto a sinistra, oltre il proprio campo visivo.
Intendevo l’altra destra...Nessuna risposta dalle cuffiette, a parte uno sbuffo divertito, seguito dall’apparizione dell’uomo di poco prima sullo schermo, stavolta diretto verso la
giusta destra.
L’espressione di Draven appariva rilassata, ma considerarla divertita, forse, era un po’ esagerato. A dirla tutta, odiava i giochi online, quelli che implicavano il dover collaborare con chissà chi attraverso una stupida cuffia, ma escludendo la lettura, che restava il suo passatempo preferito in assoluto, quell’attività babbana era una delle poche valvole di sfogo che gli aveva consentito di tenersi distratto dallo scorrere lento delle ore, e dei giorni, che era costretto a passare a Londra. Aveva passato gran parte del tempo a lavoro e il restante a cercare di farsi andare giù l’ingombrante presenza costante della fidanzata di sua madre; momenti di solitudine e tranquillità, come quello, erano rari.
Mentre sullo schermo si svolgeva una feroce battaglia, il suo cellulare – distrattamente posato su un cuscino del divano – si era illuminato per la notifica di un messaggio. Il suo compagno d’armi in cuffia aveva gridato, entusiasta, al punto da costringere Draven ad abbassarsi le cuffie sul collo; tanto poteva sentirlo comunque. Con gli occhi che si alternavano tra lo schermo della tv e il cellulare, afferrò quest’ultimo con una mano, continuando con l’altra a premere pulsanti su quel joystick.
Aaaaaaah! Ti sei fatto ammazzare!A sua discolpa, Draven non era mai stato bravo nel multitasking. L’unica cosa che era in grado di fare contemporaneamente era avere ansia e pensare in maniera razionale; e nemmeno a dire che gli riusciva sempre bene.
Ignorò il compagno di giochi per ascoltare il messaggio vocale che aveva fatto accendere lo schermo del cellulare per la notifica. Era da parte di sua madre:
“Venny, mi porti i campioni di tessuto che ho lasciato in cucina, per favore? Prendi la metro che fai prima. Mi servono subito! È la scatola di velluto, quella lunga rettangolare.” Nel silenzio che vigeva in casa sua, si lasciò andare a uno sbuffo senza conseguenze, senza testimoni. Non aveva la minima voglia di uscire. Nonostante non facesse caldo fuori da quel forno di appartamento, odiava il sole e il modo in cui tendeva a riflettere sull’asfalto. D’estate, con quella luce così accesa, gli occhi gli bruciavano costantemente; diventavano più chiari e, in qualche modo, più sensibili. Insomma, ogni scusa era buona per odiare l'estate in quella stupida città.
L’ora sul cellulare segnava le cinque e mezzo di pomeriggio. Non avrebbe preso la metro, ovviamente, perché la odiava, nonostante sua madre lo avesse suggerito; avrebbe camminato. Il negozio distava una ventina di minuti, a passo svelto.
Devo andare. – aveva riferito al soldato in cuffia, prima di alzarsi a spegnere ventilatore e console e, con lei, il collegamento online, senza nemmeno aspettare una risposta dal compagno d'armi.
Si era diretto in camera sua per
vestirsi, poi era passato in quella della madre per prendere i campioni di tessuti che aveva chiesto ed era uscito di casa così, con poche cerimonie. I jeans carichi dei suoi unici averi – cellulare nella tasca sinistra, sigarette nella destra, chiavi di casa nella tasca posteriore sinistra e portafogli nella tasca posteriore destra; la t-shirt bianca colorata dal solo verde scuro delle cuffie che teneva intorno al collo e che, appena uscito di casa, tirò su per posarle di nuovo sulle orecchie.
Sbuffando, si accese una sigaretta e cominciò a fare slalom da un marciapiede all’altro all’inseguimento disperato dell’ombra che la South Kensington dei ricchi concedeva. “Ride the lightning” dei Metallica lo accompagnò per gli ultimi dieci minuti di tragitto tra Lamborghini e Rolls Royce, in quella zona di quartiere che, contro la propria volontà, conosceva fin troppo bene. L’unica cosa che gli piaceva di quella zona era l’odore degli pneumatici costosi che venivano venduti nelle numerose concessionarie lì presenti. All’angolo della strada principale che anticipava la fermata della metropolitana di quartiere svettavano le alte vetrate della sartoria in cui lavorava sua madre. Lavorava lì da prima che lui fosse nato. Era lì che aveva conosciuto suo padre, in circostanze che non gli era mai stato concesso di approfondire e, sempre a quel luogo, apparteneva il ricordo della prima volta che aveva fatto a botte...
Si fermò lì fuori a finire gli ultimi tiri della seconda sigaretta che si era concesso durante il tragitto e prese in mano il cellulare per poter scrivere a sua madre di essere quasi arrivato. Considerando i tempi lenti con cui era solita leggere le notifiche sul cellulare, aveva voluto darle un po’ di preavviso. Sperò di non doverla aspettare troppo; quei tessuti non erano pesanti da tenere in mano, ma la scatola rettangolare in velluto era particolarmente scomoda da portare, senza contare che il materiale di cui era rivestita era la cosa più atroce da toccare a mani nude. Era pelosa e al contempo viscida. Scatenava una sensazione tattile ripugnante.
Si appoggiò di schiena contro il muro di fianco all’entrata, in attesa che Cecilia si decidesse a uscire e a prendere quella roba per cui gli aveva chiesto di andare fin lì.
Ma i minuti continuavano a passare senza che la donna desse segni di vita.
E Draven non era esattamente famoso per la sua pazienza.
Entrò nel negozio dopo poco, lasciando che la porta d’ingresso si richiudesse sbattendo alle proprie spalle; non per voluta maleducazione, ma nella speranza che sua madre, indispettita, riconoscesse quel suo delicato tocco e gli andasse incontro, così da consentirgli di tornarsene subito a casa. Non fu l'ampio open space dell'atelier ad accoglierlo, ma lo sguardo dei dipendenti presenti che si rivolsero tutti verso di lui. Da bambino, si era ritrovato a prendere a calci una delle proprietarie perché l’aveva sentita urlare contro Cecilia e da quel giorno gli era stato praticamente proibito di mettere piede lì dentro. Era un posto in cui vigeva perenne eleganza di facciata. Tra arazzi e tende chiare come nuvole, tutto, lì dentro, rasentava una perfezione geometrica quasi snervante.
Nonostante in abiti chiari fosse meno appariscente del solito, attirava comunque attenzione con i jeans strappati e l'andatura annoiata, in un posto in cui la cosa meno altezzosa era la tovaglia di seta color panna che adornava la reception. Odiava quel negozio e tutta la gente che ci lavorava, ma non poteva nemmeno odiarlo troppo apertamente visto che era l’unica cosa che consentiva a lui e a sua madre di vivere una vita senza troppe rinunce.
Continuò a guardare davanti a sé, consapevole che Cecilia fosse addetta alla zona di sartoria, che si trovava ben distante dall'ingresso. Quel locale era ridicolmente grande.
Draven!Un bisbiglio carico d’isteria, seppur sibilato a denti stretti, lo portò ad alzare lo sguardo davanti a sé: il viso di sua madre gli apparve davanti, bianco come le tende che la circondavano. Non sembrava nemmeno lei, così artefatta in quel tailleur color avorio e i capelli elegantemente legati in una crocchia sopra la testa.
Sovrappensiero, Draven aveva attraversato l’intero negozio fino a superare la sartoria e raggiungere i camerini. Quantomeno, aveva trovato la sua meta.
Si abbassò le cuffie a circondargli il collo e, in silenzio, protrasse verso di lei l’infernale scatola di velluto.
L’espressione di sua madre rendeva chiarissimo l’intento figlicida che le stava attraversando la mente, perché consapevole di aver chiesto a Draven di non entrare mai, per nessun motivo, in quel negozio, visti i trascorsi.
La donna non prese la scatola di tessuti che Draven gli porse, ma d'istinto gli afferrò direttamente quel braccio teso con l’intento di spronarlo ad andare via. Aveva paura di alzare lo sguardo e confermare che la sensazione che i colleghi la stessero squadrando da capo a piedi fosse reale, e non solo una sensazione.
Draven, dal canto suo, dovette fare appello a tutta la scarsa pazienza di cui disponeva per non scrollarsela di dosso. Aveva questo vizio di afferrarlo ogni volta che qualcosa non le andava bene e non lo sopportava. Ma sopportava anche meno l'idea di farla esasperare e scatenare una sceneggiata in mezzo a quella gente.
Una delle tende dei camerini davanti a loro si aprì e, come per riflesso, la salda presa di Cecilia sul braccio di Draven sparì. In un secondo netto la donna si volse a dare le spalle al figlio, distanziandolo di almeno un metro. Un ampio sorriso tornò a colorare l’espressione gentile e cordiale, come se nulla fosse successo, per poter riprendere a servire la cliente appena uscita dal camerino.
Come ti sembra, cara? Ancora troppo lungo? – chiese Cecilia. Il tono di voce mellifluo e gli occhi chiari, della stessa forma di quelli di Draven, ma diversi nel colore più tendente al verde acqua, rivolsero la totale attenzione alla ragazza di fronte a loro.
Draven alzò gli occhi al cielo per il cambio repentino di tono nella voce di sua madre e uno sbuffo gli si bloccò in gola quando abbassò lo sguardo sulla cliente. La bocca si schiuse per la sorpresa... Non poteva essere vero. Non stava succedendo veramente.
Si ritrovò a fissare Megan. Semplicemente eterea.
Ma fu solo per un istante. Cecilia notò prontamente, con la coda degli occhi, la reazione di Draven e sbiancò.
Dando le spalle 'alla cliente', si volse a prestare attenzione al figlio. Chiaramente irritata, gli piazzò una mano aperta su una guancia per spingergli il viso di lato, in una specie di schiaffo silenzioso e misurato.
Non fissarla! - gli impose, pronunciando quelle parole con una durezza che poche volte le aveva sentito usare. Tanto bastò, in combinazione con l'assurdità della situazione, a ghiacciarlo sul posto. Con il viso di lato e gli occhi sgranati, che si ritrovarono a fissare il pavimento. Gli sembrò di aver dimenticato come si respirava.
Perdonami. Torno subito da te. - disse poi la donna, rivolta a Megan, porgendole un sorriso tirato che visibilmente faticò a rendere sincero. Si rivolse a una collega lì vicino facendole silenziosamente segno di sostituirla, nel servire Megan, poi afferrò saldamente Draven per un braccio e lo trascinò via.
Muoversi lo costrinse a riprendere a respirare e, se non fosse che era stata in grado di farlo incazzare nel tempo di tre secondi netti, sarebbe stato grato a Cecilia per averlo scosso da quella trance; avrebbe rischiato di collassare sul posto, altrimenti.
Nella speranza che sua madre non lo notasse, prima che fosse troppo distante dai camerini per poterla rivedere, si volse a lanciare un'altra occhiata verso Megan.
Non era un'allucinazione. Non riusciva mai a sognarla bella com'era nella realtà.