T h r o u g h M i n e f i e l d s, privata

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view post Posted on 28/9/2022, 23:45
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Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts

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I started bringing up the past; how the things you love don't last, even though this isn't fair for both of us.

Il calore delle ultime giornate estive era contrastato dalla finestra chiusa in sala. Dalle tapparelle abbassate filtravano flebili raggi di sole, accentuati dalla nuvoletta di fumo che Draven aveva generato nella stanza. Se ne stava lì: nella semi oscurità, seduto a petto nudo sul vecchio e logoro divano in pelle marrone, con un cuscino dietro la schiena per evitare di restarci appiccicato. L’unico rumore intorno a lui era quello del ventilatore acceso lì di fronte, alternato di tanto in tanto da qualche colpo d’arma da fuoco un po’ più forte degli altri, che fuoriusciva dalle cuffie che teneva sulle orecchie. Stava giocando alla playstation, a quei videogiochi che erano la quintessenza dell’essere un adolescente babbano; anche se, nel suo caso, lo era solo per metà. Teneva stretto tra le mani il joystick, l’aggeggio elettronico attraverso il quale riusciva a comandare le azioni del suo alter ego nel gioco, come se ne andasse della propria vita. Se qualcuno di Hogwarts lo avesse visto in quel modo, non avrebbe capito cosa stesse facendo o perché; per la maggior parte, almeno.

Dov’è andato? – gli aveva chiesto la voce di un ragazzo in cuffia.

A destra. – aveva risposto, senza entusiasmo, ma completamente concentrato. Sullo schermo davanti a lui un braccio in soggettiva teneva impugnato un fucile, o qualcosa di simile. Gli era passato davanti un altro uomo, diretto a sinistra, oltre il proprio campo visivo.

Intendevo l’altra destra...
Nessuna risposta dalle cuffiette, a parte uno sbuffo divertito, seguito dall’apparizione dell’uomo di poco prima sullo schermo, stavolta diretto verso la giusta destra.
L’espressione di Draven appariva rilassata, ma considerarla divertita, forse, era un po’ esagerato. A dirla tutta, odiava i giochi online, quelli che implicavano il dover collaborare con chissà chi attraverso una stupida cuffia, ma escludendo la lettura, che restava il suo passatempo preferito in assoluto, quell’attività babbana era una delle poche valvole di sfogo che gli aveva consentito di tenersi distratto dallo scorrere lento delle ore, e dei giorni, che era costretto a passare a Londra. Aveva passato gran parte del tempo a lavoro e il restante a cercare di farsi andare giù l’ingombrante presenza costante della fidanzata di sua madre; momenti di solitudine e tranquillità, come quello, erano rari.
Mentre sullo schermo si svolgeva una feroce battaglia, il suo cellulare – distrattamente posato su un cuscino del divano – si era illuminato per la notifica di un messaggio. Il suo compagno d’armi in cuffia aveva gridato, entusiasta, al punto da costringere Draven ad abbassarsi le cuffie sul collo; tanto poteva sentirlo comunque. Con gli occhi che si alternavano tra lo schermo della tv e il cellulare, afferrò quest’ultimo con una mano, continuando con l’altra a premere pulsanti su quel joystick.

Aaaaaaah! Ti sei fatto ammazzare!
A sua discolpa, Draven non era mai stato bravo nel multitasking. L’unica cosa che era in grado di fare contemporaneamente era avere ansia e pensare in maniera razionale; e nemmeno a dire che gli riusciva sempre bene.
Ignorò il compagno di giochi per ascoltare il messaggio vocale che aveva fatto accendere lo schermo del cellulare per la notifica. Era da parte di sua madre: “Venny, mi porti i campioni di tessuto che ho lasciato in cucina, per favore? Prendi la metro che fai prima. Mi servono subito! È la scatola di velluto, quella lunga rettangolare.” Nel silenzio che vigeva in casa sua, si lasciò andare a uno sbuffo senza conseguenze, senza testimoni. Non aveva la minima voglia di uscire. Nonostante non facesse caldo fuori da quel forno di appartamento, odiava il sole e il modo in cui tendeva a riflettere sull’asfalto. D’estate, con quella luce così accesa, gli occhi gli bruciavano costantemente; diventavano più chiari e, in qualche modo, più sensibili. Insomma, ogni scusa era buona per odiare l'estate in quella stupida città.
L’ora sul cellulare segnava le cinque e mezzo di pomeriggio. Non avrebbe preso la metro, ovviamente, perché la odiava, nonostante sua madre lo avesse suggerito; avrebbe camminato. Il negozio distava una ventina di minuti, a passo svelto.

Devo andare. – aveva riferito al soldato in cuffia, prima di alzarsi a spegnere ventilatore e console e, con lei, il collegamento online, senza nemmeno aspettare una risposta dal compagno d'armi.
Si era diretto in camera sua per vestirsi, poi era passato in quella della madre per prendere i campioni di tessuti che aveva chiesto ed era uscito di casa così, con poche cerimonie. I jeans carichi dei suoi unici averi – cellulare nella tasca sinistra, sigarette nella destra, chiavi di casa nella tasca posteriore sinistra e portafogli nella tasca posteriore destra; la t-shirt bianca colorata dal solo verde scuro delle cuffie che teneva intorno al collo e che, appena uscito di casa, tirò su per posarle di nuovo sulle orecchie.
Sbuffando, si accese una sigaretta e cominciò a fare slalom da un marciapiede all’altro all’inseguimento disperato dell’ombra che la South Kensington dei ricchi concedeva. “Ride the lightning” dei Metallica lo accompagnò per gli ultimi dieci minuti di tragitto tra Lamborghini e Rolls Royce, in quella zona di quartiere che, contro la propria volontà, conosceva fin troppo bene. L’unica cosa che gli piaceva di quella zona era l’odore degli pneumatici costosi che venivano venduti nelle numerose concessionarie lì presenti. All’angolo della strada principale che anticipava la fermata della metropolitana di quartiere svettavano le alte vetrate della sartoria in cui lavorava sua madre. Lavorava lì da prima che lui fosse nato. Era lì che aveva conosciuto suo padre, in circostanze che non gli era mai stato concesso di approfondire e, sempre a quel luogo, apparteneva il ricordo della prima volta che aveva fatto a botte...
Si fermò lì fuori a finire gli ultimi tiri della seconda sigaretta che si era concesso durante il tragitto e prese in mano il cellulare per poter scrivere a sua madre di essere quasi arrivato. Considerando i tempi lenti con cui era solita leggere le notifiche sul cellulare, aveva voluto darle un po’ di preavviso. Sperò di non doverla aspettare troppo; quei tessuti non erano pesanti da tenere in mano, ma la scatola rettangolare in velluto era particolarmente scomoda da portare, senza contare che il materiale di cui era rivestita era la cosa più atroce da toccare a mani nude. Era pelosa e al contempo viscida. Scatenava una sensazione tattile ripugnante.
Si appoggiò di schiena contro il muro di fianco all’entrata, in attesa che Cecilia si decidesse a uscire e a prendere quella roba per cui gli aveva chiesto di andare fin lì.
Ma i minuti continuavano a passare senza che la donna desse segni di vita.
E Draven non era esattamente famoso per la sua pazienza.
Entrò nel negozio dopo poco, lasciando che la porta d’ingresso si richiudesse sbattendo alle proprie spalle; non per voluta maleducazione, ma nella speranza che sua madre, indispettita, riconoscesse quel suo delicato tocco e gli andasse incontro, così da consentirgli di tornarsene subito a casa. Non fu l'ampio open space dell'atelier ad accoglierlo, ma lo sguardo dei dipendenti presenti che si rivolsero tutti verso di lui. Da bambino, si era ritrovato a prendere a calci una delle proprietarie perché l’aveva sentita urlare contro Cecilia e da quel giorno gli era stato praticamente proibito di mettere piede lì dentro. Era un posto in cui vigeva perenne eleganza di facciata. Tra arazzi e tende chiare come nuvole, tutto, lì dentro, rasentava una perfezione geometrica quasi snervante.
Nonostante in abiti chiari fosse meno appariscente del solito, attirava comunque attenzione con i jeans strappati e l'andatura annoiata, in un posto in cui la cosa meno altezzosa era la tovaglia di seta color panna che adornava la reception. Odiava quel negozio e tutta la gente che ci lavorava, ma non poteva nemmeno odiarlo troppo apertamente visto che era l’unica cosa che consentiva a lui e a sua madre di vivere una vita senza troppe rinunce.
Continuò a guardare davanti a sé, consapevole che Cecilia fosse addetta alla zona di sartoria, che si trovava ben distante dall'ingresso. Quel locale era ridicolmente grande.

Draven!
Un bisbiglio carico d’isteria, seppur sibilato a denti stretti, lo portò ad alzare lo sguardo davanti a sé: il viso di sua madre gli apparve davanti, bianco come le tende che la circondavano. Non sembrava nemmeno lei, così artefatta in quel tailleur color avorio e i capelli elegantemente legati in una crocchia sopra la testa.
Sovrappensiero, Draven aveva attraversato l’intero negozio fino a superare la sartoria e raggiungere i camerini. Quantomeno, aveva trovato la sua meta.
Si abbassò le cuffie a circondargli il collo e, in silenzio, protrasse verso di lei l’infernale scatola di velluto.
L’espressione di sua madre rendeva chiarissimo l’intento figlicida che le stava attraversando la mente, perché consapevole di aver chiesto a Draven di non entrare mai, per nessun motivo, in quel negozio, visti i trascorsi.
La donna non prese la scatola di tessuti che Draven gli porse, ma d'istinto gli afferrò direttamente quel braccio teso con l’intento di spronarlo ad andare via. Aveva paura di alzare lo sguardo e confermare che la sensazione che i colleghi la stessero squadrando da capo a piedi fosse reale, e non solo una sensazione.
Draven, dal canto suo, dovette fare appello a tutta la scarsa pazienza di cui disponeva per non scrollarsela di dosso. Aveva questo vizio di afferrarlo ogni volta che qualcosa non le andava bene e non lo sopportava. Ma sopportava anche meno l'idea di farla esasperare e scatenare una sceneggiata in mezzo a quella gente.
Una delle tende dei camerini davanti a loro si aprì e, come per riflesso, la salda presa di Cecilia sul braccio di Draven sparì. In un secondo netto la donna si volse a dare le spalle al figlio, distanziandolo di almeno un metro. Un ampio sorriso tornò a colorare l’espressione gentile e cordiale, come se nulla fosse successo, per poter riprendere a servire la cliente appena uscita dal camerino.

Come ti sembra, cara? Ancora troppo lungo? – chiese Cecilia. Il tono di voce mellifluo e gli occhi chiari, della stessa forma di quelli di Draven, ma diversi nel colore più tendente al verde acqua, rivolsero la totale attenzione alla ragazza di fronte a loro.
Draven alzò gli occhi al cielo per il cambio repentino di tono nella voce di sua madre e uno sbuffo gli si bloccò in gola quando abbassò lo sguardo sulla cliente. La bocca si schiuse per la sorpresa... Non poteva essere vero. Non stava succedendo veramente.
Si ritrovò a fissare Megan. Semplicemente eterea.
Ma fu solo per un istante. Cecilia notò prontamente, con la coda degli occhi, la reazione di Draven e sbiancò.
Dando le spalle 'alla cliente', si volse a prestare attenzione al figlio. Chiaramente irritata, gli piazzò una mano aperta su una guancia per spingergli il viso di lato, in una specie di schiaffo silenzioso e misurato.

Non fissarla! - gli impose, pronunciando quelle parole con una durezza che poche volte le aveva sentito usare. Tanto bastò, in combinazione con l'assurdità della situazione, a ghiacciarlo sul posto. Con il viso di lato e gli occhi sgranati, che si ritrovarono a fissare il pavimento. Gli sembrò di aver dimenticato come si respirava.

Perdonami. Torno subito da te. - disse poi la donna, rivolta a Megan, porgendole un sorriso tirato che visibilmente faticò a rendere sincero. Si rivolse a una collega lì vicino facendole silenziosamente segno di sostituirla, nel servire Megan, poi afferrò saldamente Draven per un braccio e lo trascinò via.
Muoversi lo costrinse a riprendere a respirare e, se non fosse che era stata in grado di farlo incazzare nel tempo di tre secondi netti, sarebbe stato grato a Cecilia per averlo scosso da quella trance; avrebbe rischiato di collassare sul posto, altrimenti.
Nella speranza che sua madre non lo notasse, prima che fosse troppo distante dai camerini per poterla rivedere, si volse a lanciare un'altra occhiata verso Megan.
Non era un'allucinazione. Non riusciva mai a sognarla bella com'era nella realtà.

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view post Posted on 30/9/2022, 16:47
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Il sole penetreva tra le fessure dei lunghi drappeggi, accarezzando le morbide lenzuola. Occhi al soffitto e un libro poggiato sul petto aperto all’ultima pagina. Megan pensava quanto potesse essere assurdo quel finale improvviso. Delusa dalle aspettative si arrese a quelle ultime righe chiudendo le palpebre e immergendosi nel silenzio. I pensieri si poggiarono sul cuscino trovando la calma. Di tanto in tanto le risate di Elizabeth e Nora disturbavano la quiete ma era troppo assorta per rendersene conto.
Tuttavia, quell’attimo di pace non durò molto e il miagolio di Damon fuori la porta la costrinse ad aprire gli occhi. Sollevò la testa alzandosi dal letto; il tempo di realizzare di essere sveglia. Poco più di un secondo e girò la maniglia.
«Volevo riposare» rimproverò il gatto concedendogli poi una tenera smorfia. Si volse in direzione della scrivania, notando sulla sedia un abito bianco avvolto dalla plastica; portava nel mezzo un biglietto:
“Era di Eloise, l’ho trovato tra le sue vecchie cose”
Megan storse le labbra e si chiese come mai Elizabeth avesse deciso di darle qualcosa di sua madre. Lo afferrò lasciando scivolare via l’involucro trasparente indossandolo l’attimo successivo. Poi, dinanzi allo specchio sistemò perfettamente il tessuto e il ricordo di aver visto quell’abito in una fotografia nella casa a Lambeth. Avvolta in una cornice d’argento, l’immagine ritraeva Eloise in uno dei concerti tenuti a Londra, il candore della veste brillava tra le luci calde di quel luogo. Sospirò accennando una profonda tristezza mentre lo sguardo indugiava sulla pregiata fattura. Osservando il riflesso nello specchio non poté non riconoscere che era il perfetto ritratto di sua madre.

Più tardi si spogliò del vestito sistemandosi per uscire. L'abito era piuttosto lungo e durante le sue passeggiate nella città era sicura di aver visto una Sartoria in zona, sarebbe andata lì a memoria.
«Ciao Megan!» la voce squillante di Nora rischiò di farla cadere prima di scendere l’ultimo scalino dell’ampia scala. La guardò solamente di sfuggita tanto da palesare il disgusto, senza ricambiare il saluto e andando dritta per raggiungere l'uscita.
«È sempre più uguale alla tua povera figlia, Beth» aveva continuato, arrivando alle orecchie di Megan prima che si lasciasse la porta di casa alle spalle. Il rapporto con sua nonna non era migliorato negli anni, anzi. Il tempo aveva ampliato quei sentimenti negativi senza possibilità di ritorno. Così, Megan non sopportava nemmeno la presenza delle sue amiche dell'alta società. Donne e uomini a lei insignificanti, ritratto perfetto della mediocrità e della falsità. Elizabeth sposava a pieno quelle etichette.
Allentò i pugni concedendosi un respiro e andò avanti.
Camminando lungo la strada impiegò poco più di dieci minuti. La testa dritta, gli occhi a scrutare l’ambiente circostante. Il South Kensington iniziava a riempirsi, lasciandosi alle spalle quelle settimane trascorse con più tranquillità. Londra, però, non era mai vuota. Orde di turisti provenienti da vari paesi, visitavano con curiosità i monumenti iconici della grande città britannica ogni anno.
Giunta a pochi a pochi passi dalla sartoria, impiegò qualche secondo prima di vedere l’insegna. L’architettura - caratteristica l’entrata -, era abbellita da fiori ad avvolgere le due colonne che segnavano l’atrio. La porta nera al centro, tra le pareti bianche.
Tintinnio. Megan varcò la soglia del negozio e l’aria pulita e profumata le provocò un senso di pace immediata. Era splendida la delicatezza posta nei dettagli che definivano gli interni di quello spazio. Una giovane donna si fece avanti e l’accolse con un sorriso gentile; l’uniforme si differenziava tra le altre presenti. Megan si avvicinò poggiando la mano sinistra sul bancone, tamburellando appena l’indice e il medio sulla superficie.
«Buonasera, come posso aiutarti?» la voce schioccò con delicatezza. In risposta sorrise, addolcendo l’espressione. La spilla sul petto segnava: Cecilia.
«Buonasera, vorrei accorciare questo abito» consegnò il vestito.

La prova nell’atelier durò il tempo necessario per prendere le giuste misure, il taglio e le rifiniture sarebbero stati aggiunti in un secondo momento. Ora, Megan si osservava all’interno del camerino indossando quel vestito adattato su di sé. La donna l’aveva lasciata decidere e lei non aveva prestato attenzione alle voci poco distanti, che avevano invaso quel luogo i minuti successivi.
Spinse via il tendaggio, avanzando oltre la linea guardando in avanti. Annuì in risposta a Cecilia prima di vedere Draven a pochi passi da lei. Le successive parole della donna arrivarono lontane, mentre un brivido le percorse l’intera spina dorsale. Non poteva crederci. Le labbra si schiusero e tornò a respirare solo quando la donna lo portò via da lì. Era sicura di aver annuito nel più totale imbarazzo. La tranquillità di quell’estate si recise definitivamente. Incredula scosse la testa cercando di riprendersi, il cuore calmò i battiti accelerati e poco dopo tornò al bancone consegnando l’abito pronta ad andare via.
«Vorrei fosse ricamata la parola “El” in nero, sulla coda se possibile» voce tesa e un sorriso di circostanza. Lo sguardo si rivolse in direzione della porta e così su Cecilia, alternandosi a qualche secondo di distanza. Si chiedeva se l’avesse trovato lì una volta uscita dal negozio.


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Ambientazione e dialoghi concordati in off.

 
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view post Posted on 1/10/2022, 21:49
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C ecilia sembrò attraversare il largo e lungo open space del negozio a falcate gigantesche, praticamente di corsa. Trascinava Draven a seguirla, tenendolo saldamente per un braccio. Aveva avuto così tanti problemi a lavoro, per via del carattere irascibile di suo figlio, che era un miracolo che non fosse stata ancora licenziata. Una volta Draven l’aveva sentita fare quel discorso a qualcuno, non ricordava nemmeno a chi, e lui le aveva risposto che lavorava con un branco di cerebrolesi arricchiti che, perlomeno, era in grado di riconoscere quanto fosse brava in ciò che faceva. Era un modo un po’ contorto per farle realizzare quanto valesse per il negozio la sua esperienza, indipendentemente dai casini in cui lui avrebbe potuto coinvolgerla. A suo modo, aveva voluto farle un complimento; uno dei pochi che avesse mai ricevuto da lui.
Per quanto più alto di lei di quasi venti centimetri e ben più piazzato a forza, l’arrogante figlio non si era scostato di un millimetro da lei; l’aveva seguita in silenzio, il braccio immobilizzato nella sua stretta fin quando non avevano raggiunto l’esterno del negozio. L’indisponenza aveva retto fino a quel punto: ormai distanti dagli occhi inopportuni dei suoi colleghi, Draven scattò via il braccio dalla sua presa con un movimento così veloce e netto che la donna pensò che si fosse scostato da lei in quel modo per dimostrazione, come a volerle dire che l’aveva solo assecondata, che era stata una stretta inutile e che non l’aveva allontanata prima solo per suo volere e non perché avesse potere su di lui. Era così da anni, ormai. E andava sempre peggio...

Non puoi fissare le donne in quel modo! Ma che diavolo hai nella testa?! – furono le prime parole che Cecilia disse, sputandole con una tale irritazione che sembrò averle trattenute per un periodo di tempo maggiore, rispetto alla manciata di secondi che gli ci erano voluti per attraversare il negozio da parte a parte. Si era istintivamente posta di fronte a Draven per poterlo guardare in viso, ma il ragazzo lo teneva rivolto verso il negozio, assorto nei suoi pensieri così tanto, come sempre, da non darle retta. Nonostante il proprio tono fosse stato carico di nervosismo e intento di rimprovero, Draven non aveva nemmeno battuto ciglio. Di nuovo, quell’aria di superiorità, di spocchia smisurata, come se ascoltarla non valesse la pena.
Nel silenzio che seguì quelle sue parole, in attesa di un qualche tipo di reazione o, anche meglio, delle scuse da parte di suo figlio, si volse a seguire il suo sguardo per cercare di capire cosa stesse pensando. Quando aveva visto il suo sguardo, così intenso, attraversare da capo a piedi in una frazione di secondo quella cliente, un brivido di panico le aveva attraversato la spina dorsale. Era stato come assistere al suo tentativo di spogliarla con gli occhi! Lo aveva trovato riprovevole e irrispettoso e addirittura molesto! Era praticamente un uomo, ormai, e a maggior ragione doveva imparare che non era ammissibile un simile comportamento!

Draven! – lo riprese di nuovo lei, a voce più alta. E solo a quel punto lo vide reagire. Chinò la testa, umettò le labbra in un gesto di nervosismo, confermato dai muscoli del viso contratti e irrigiditi, e infine alzò lo sguardo su di lei. Da sotto le lunghe ciglia le sembrò di rivedere un bambino. Alto un metro e ottanta, ma un bambino… Triste.

Draven, che succe- – provò a dire, con il terzo tono diverso di fila. Comprendendo che c’era qualcosa che non andava, che la sua testa gli aveva scatenato dentro chissà cosa senza possibilità di un confronto, senza un foro di uscita che gli consentisse di liberarsi almeno un po’ di tutto il peso che si teneva sempre addosso per qualsiasi cosa, aveva addolcito il tono della voce. Forse per istinto materno. Ma era stata improvvisamente interrotta nel sentirsi colpire in pieno stomaco dalla scatola con i campioni di tessuti; fortunatamente, almeno, gliel’aveva spinta contro nella parte lunga senza spigoli. Pur avendolo fatto senza forza, era stato un gesto sgarbato e lei aveva sussultato per la sua improvvisa reazione, con le parole che si erano smorzate in gola come conseguenza.

La conosco. È una compagna di scuola. – si limitò a rispondere lui. Non che giustificasse in alcun modo quel suo sguardo, ma una parte di sé si tranquillizzò al pensiero che, forse, non era il suo modo di guardare tutte le ragazze di bell’aspetto che gli passavano davanti.
Non aveva un'alta opinione di suo figlio...

Oh… Ok. – sospirò, improvvisamente senza sapere bene che dire. Ora che la rabbia era scemata, infierire con delle domande alle quali, lo sapeva bene, non avrebbe mai ricevuto risposta, era inutile. Per cui, si limitò ad abbassare lo sguardo sul raccoglitore di campioni e aprì il lungo sportello in orizzontale della scatola.

Ma quale scatola hai preso?

L’unica che avevi in camera.
La rabbia tornò a travolgerle ogni terminazione nervosa del corpo in un tempo più breve di quanto ci misero gli occhi a spostare l’attenzione dai tessuti al viso indifferente di Draven.

In cucina, Draven! Ti ho detto: la scatola. rettangolare. in. cucina! – esclamò, praticamente aumentando i decibel della voce mentre scandiva ogni singola parola di quella frase, ma prima ancora che avesse finito di dirla, Draven si era ripreso la scatola e si era voltato con tutta l’intenzione di allontanarsi da lei.

Dove stai andando adesso? – gridò alle sue spalle, senza nemmeno la forza di andargli dietro.

A prenderti quella cazzo di scatola. – lo sentì risponderle, prima di lanciarsi per strada e attraversarla senza nemmeno aspettare che il semaforo glielo consentisse. Cecilia si voltò in direzione del negozio, stringendo le mani a pugno per sfogare la frustrazione. La faceva ammattire! Era insopportabile! Gli voleva bene, era suo figlio, ma… Un suono gutturale, simile a un ringhio, le sfuggì dalle labbra serrate. Se avesse potuto, avrebbe urlato. Dio, quanta pazienza!
Dopo qualche secondo e svariati respiri profondi, sentì parte di quell’irritazione scivolarle via, lasciandole addosso solo un velo di fastidio, e avanzò di un paio di passi verso l’entrata del negozio. Si fermò subito nel sentire vibrarle in tasca il cellulare. Un messaggio di Draven diceva: Se ti chiede di me, dille che sto tornando.
Nemmeno aprì il messaggio. Se le aveva scritto altro oltre quella piccola anteprima che il suo cellulare le aveva imposto di leggere insieme alla notifica, sarebbe stato un problema suo. Era troppo arrabbiata con lui per assecondarlo. Le aveva già fatto perdere un sacco di tempo.
Ma mentre rientrò in negozio, con il viso di nuovo pulito da ogni traccia di contrazione nervosa, si chiese perché mai quella ragazza avrebbe dovuto chiedere di lui… E perché a lui importasse di farle sapere che stava tornando lì.
La vide al bancone, pronta per il check out e un’ondata di panico improvviso l’assalì.

Hai già fatto, cara? Tutto a posto? Volevo mostrarti dei campioni di tessuto per sostituire i ricami usurati. Mi concederesti qualche altro minuto del tuo tempo? Ti offro un tè. – disse, una parola dietro l’altra, con quel suo tono da commerciante che non lasciava margine di risposta, men che meno di rifiuto. Allungò un braccio davanti a sé per indicarle la direzione in cui avrebbero trovato la sala relax e l’anticipò, avviandosi verso un arco chiuso da una tenda, a destra del bancone. L’aprì con un braccio e la superò, continuando a reggerla da un lato per permettere alla ragazza di passarci sotto ed entrare in una stanza più piccola rispetto al resto del negozio, ma comunque esageratamente spaziosa. Sparse un po’ ovunque nella sala c’erano poltroncine in pelle di un ocra antiquato, alternate a qualche sedia di design e due divani rossi che spiccavano in mezzo al resto. Non vigeva particolare ordine nella cucina all’angolo più distante dell’ingresso, segno che fosse riservata ai dipendenti. O quasi. Comunque, non destinata all’accoglienza dei clienti.
Cecilia le fece cenno di accomodarsi, senza indicare una seduta in particolare, e si avvicinò poi al mobiletto di fianco la cucina.

Abbiamo un ottimo earl grey alla lavanda. – commentò, voltandosi verso la ragazza in cerca di un cenno di assenso. Lei non amava particolarmente la lavanda, ma le sembrò la cosa più altolocata che avessero lì. Quella ragazza sembrava di buona famiglia, con gusti raffinati e delicati, e il tè del Tesco non era nemmeno da prendere in considerazione.

Mi dispiace trattenerti. Avevo chiesto a mio figlio di portarmi i campioni che volevo mostrarti, ma ha preso quelli sbagliati. Tornerà tra pochi minuti con quelli giusti. – iniziò a dire, riempiendo il bollitore d’acqua con un certo nervosismo, che sperò non si notasse nel tono di voce.

Mi ha detto che siete compagni di scuola? A… Hogwarts? – disse poi, incerta, continuando a dare le spalle alla ragazza. Non le era concesso chiedere di Hogwarts, ma Draven non le diceva mai nulla…

Sei un Prefetto Serpeverde anche tu? È così che vi conoscete? – chiese subito dopo, in un flusso di parole che, se lo sentiva, non sarebbe riuscita ad arginare. Perché il panico percepito vedendo la ragazza andare via non era derivato dalla mancanza di professionalità ed efficienza a causa dell’interruzione per l’arrivo di Draven, bensì dal fatto che suo figlio avesse mostrato… Preoccupazione, interesse, risentimento, non ne aveva la minima idea. Ma era qualcosa, nei confronti di qualcuno che non era se stesso.

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Edit perché ho dimenticato di scrivere che le azioni sono state concordate :fru:


Edited by Draven. - 4/10/2022, 10:48
 
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view post Posted on 3/10/2022, 23:04
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L’intervento di Cecilia non permise a Megan alcuna via d’uscita. Aveva provato ad accennare appena poche sillabe di disappunto, per poi ritrovarsi a seguirla all’interno del negozio in silenzio. Attraversò l’arco, facendosi spazio tra il tendaggio che ne copriva l’entrata e posò gli occhi su ogni dettaglio presente in quella stanza evidentemente riservata ai dipendenti.
Non si sentiva a proprio agio e si concesse un lungo respiro prima di arrendersi a quella serie di strane coincidenze. Difatti, il pomeriggio avrebbe dovuto svolgersi con una tranquilla passeggiata tra le vie di Londra, lontana dall’unico posto in cui non desiderava stare, e invece sì era rivelata più complicata del previsto.
Portò indietro le lunghe ciocche dei capelli che le avevano coperto il viso durante quel breve tragitto. Annuì per un buon tè alla lavanda, accomodandosi su una delle sedute disposte in quel luogo. In una posizione piuttosto rigida cercò di essere più naturale possibile: drizzando la schiena e incrociando le gambe, dondolando la parte accavallata con il piede quasi a sfiorare il pavimento.
Un breve silenzio, un altro profondo respiro e le parole della donna la investirono in pieno. Un'onda d’urto che la fece sussultare appena, costringendo a muovere il corpo trovando più attrito sul morbido tessuto di pelle. Si sfregò le mani, passò le dita ad accarezzare nuovamente le ciocche lasciandole avvolgere in un giro a spirale infinito. Guardò Cecilia, le dava le spalle con il bollitore in mano pronto per essere messo sul gas.
È sua madre? Aggrottò le sopracciglia mentre cercava di trovare tra i lineamenti della donna qualcosa che le ricordasse Draven. Effettivamente, per quanto volesse sperare in un malinteso, poteva senza alcun dubbio accertare e confermare la somiglianza. Il viso che incorniciava lineamenti marcati, labbra e forma degli occhi ben delineati il cui colore era l’unica parte che poteva distinguersi se messa a paragone.
L’aspetto gradevole di Cecilia, racchiuso in pochi centimetri di altezza, veniva accompagnato da una cordialità impeccabile. Tuttavia, nonostante il tono della voce dolce e amichevole, la donna era stata tradita dal suono incerto che aveva accompagnato ogni singola parola e domanda posta tra un intervallo e l’altro; Megan non riuscì a ignorarlo.
L’ansia le strinse lo stomaco e il fastidio lasciò storcere il naso: perché tutte quelle domande? Mandò giù il nodo in gola, cercando di riprendere la salivazione ormai ridotta all’osso. Tutto pareva andare come non sarebbe dovuto andare; ironico. Doveva solo attendere Draven, dare un’occhiata ai tessuti proposti, scegliere e andare via da lì. Avrebbe potuto farcela dopotutto, o così almeno si convinceva.
Mascherò la tensione con tenero sorriso di circostanza e si costrinse a parlare: «Beh, sì… Ci conosciamo» disse, «ma non appartengo a Serpeverde, Signora».
Megan attese qualche attimo in cerca di una qualsiasi reazione da parte della donna ma senza aspettare una vera e propria risposta. «Sono Caposcuola Corvonero» continuò accertandosi che non ci fosse alcun babbano a sentirle. Cosa le aveva detto Draven? Si chiese. Cecilia sapeva qualcosa di lei? Cosa?
Continuò a guardarsi attorno, le iridi cobalto sondarono nuovamente il perimetro appoggiandosi anche sui più insignificanti segni sulle pareti. In quei pochi secondi di quiete si era già fatta più di una domanda sull’inutile styling della sedia poco lontana. Non era tanto il colore dell’oggetto a disturbarla, di un banale antracite, ma la texture che ritraeva pois in argento glitterato, che si ripetevano in un ciclo infinito. Comprendeva perché fosse lì dentro e non altrove.
Era in pieno disagio e si sentiva totalmente spaesata, in cerca di qualche appiglio su cui fare leva e provare a cavarsela. Le venne quasi da sorridere pensando a come in passato era stata brava a sparire per cose ben più gravi di questa.
«Mi scusi, non vorrei sembrare scortese ma… Magari possiamo prendere un secondo appuntamento? Avrei delle cose da fare e non so quanto tempo Draven possa metterci, magari è meglio ripassare» avrebbe ripreso poco dopo. La natura a fuggire lontano la richiamava a sé e, quasi, quelle parole uscirono senza alcun controllo. Continuava ad avere un atteggiamento del tutto distaccato, gentile e sicuramente strano agli occhi di chi sapeva guardare. Cecilia avrebbe potuto notare, almeno in parte, il cambiamento che aveva avuto da quando aveva varcato quella soglia ad ora.


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Ripensando al modo in cui aveva reagito, notando lo sguardo che Draven aveva rivolto a quella ragazza, si rese conto solo a posteriori di aver fatto una pessima figura. Il panico aveva avuto la meglio ed era lo stesso tipo di panico che la stava facendo sentire a disagio a parlare lì con lei, a trattenerla... Perché non c'era alcun motivo di farlo. La prassi era di inviare fotografie e campioni ai clienti direttamente al loro indirizzo, per evitare il fastidio di dover necessariamente farli andare lì di persona. Si trattava sempre di clienti di un certo status sociale, spesso arrivavano operatori domestici o parenti o amici a portare gli abiti per le riparazioni; la presenza dei diretti interessati, solitamente, era legata di più alla necessità di prendere misure e lunghezze, ma poi finiva lì. Se in un primo momento aveva pensato che si sentisse nervosa per via della mancanza di professionalità, dunque, per il modo in cui la situazione era capitolata a causa di uno sguardo e di un tempismo terribile, si rese conto che non si trattava solo di questo: era la prima volta, dopo quasi dieci anni, che aveva modo di parlare con qualcuno che conoscesse suo figlio. E che, per di più, fosse legata al mondo magico. Era un evento più unico che raro.
Non aveva un bel rapporto con Draven; in realtà, forse, era il caso di dire che non avessero proprio un rapporto. Parlavano il minimo indispensabile nei periodi che passavano insieme a casa, non si scrivevano mai quando lui era a scuola. Nonostante le pressioni della compagna di lei di farlo aprire un po' di più, non c'era stato alcun miglioramento, anzi... Per assurdo, nelle ultime settimane era andata anche peggio. Perché con Eliana, almeno, comunicava, mentre con la sua stessa madre, no. Era avvilente, ma Cecilia era caratterizzata dallo stesso egocentrismo che aveva ereditato il figlio ed era incapace di capire che non fosse esclusivamente colpa del carattere scostante e introverso di Draven se i due erano così freddi l'uno con l'altra.
Probabilmente, nel tentativo di compensare alla brutta figura e per curiosità su quella ragazza che conosceva suo figlio, qualcosa era scattato in Cecilia e aveva agito d'impulso. Se solo avesse avuto premura di mantenere un occhio oggettivo sulla situazione o, almeno, su Megan, si sarebbe resa conto che non sembrava a suo agio, ma continuava a darle le spalle, forse proprio con l'intento inconscio di disinteressarsene.
Aveva, comunque, la valida scusa del tè per poterlo fare. Dopo aver acceso il bollitore, si spostò di nuovo verso il mobiletto di fianco la cucina per prendere due tazzine.

Oh! Corvonero! Ero una Corvonero anche io. E sei Caposcuola, per giunta! Io... - reagì con eccessivo entusiasmo, in risposta alle sue parole, ma qualsiasi cosa avesse avuto intenzione di dire subito dopo le si smorzò in gola. Improvvisamente con la bocca secca, sembrò incapace di continuare a parlare.
Si accorse di non riuscire a ricordare se nella sua carriera scolastica fosse mai stata Prefetto o Caposcuola... o qualsiasi altra cosa, a parte l'essere stata una Corvonero.

Draven è sempre stato così arguto e intelligente, fin da piccolissimo! Pensavo sarebbe stato smistato tra i Corvonero anche lui. - disse poi, come a voler compensare gli istanti di silenzio che erano seguiti alle sue parole precedenti. Per qualche motivo, anche queste parole le vennero fuori con eccessivo entusiasmo. Aveva il cuore con i battiti fuori fase e, quando prese il bollitore, si rese conto che le mani le tremavano.
Non poteva parlare di Hogwarts. Non poteva parlare di Hogwarts.
Versò l'acqua nelle due tazzine con non poca fatica, senza interessarsi nemmeno di apparire tranquilla, a quel punto. La testa svuotata da qualsiasi pensiero, sentiva solo l'eco roboante di quella fastidiosa tachicardia.
Che diavolo stava facendo? Quello era il suo posto di lavoro. Un lavoro babbano. Non poteva permettersi un simile atteggiamento.
Nel tempo di un battito di ciglia, le passò del tutto la voglia di colmare quel tempo in attesa del ritorno di Draven, indipendentemente dai motivi che l'avevano spinta a farlo in primis. Non era con questo atteggiamento e l'inutile perdita di tempo che avrebbe pagato i suoi stupidi vestiti e vizi da adolescente ingrato.
Le parole seguenti della Caposcuola non fecero altro che irritarla ancora di più.
Erano tutti evasivi con lei. Non aveva chiesto niente di male, eppure nessuno voleva mai dirle niente.
Sbattè la tazzina che aveva preso in mano qualche istante prima, con l'intento di portarla alla ragazza. Il rintocco sordo sul ripiano della cucina le sembrò fare eco tra le mura di quella stanza pacchiana e mal arredata. Osservò la chiazza di tè sul legno, occhi sgranati e narici dilatate di un nervosismo travolgente, ma quando si volse verso Megan non c'era alcuna traccia di ostilità sul proprio viso. Gli occhi chiari brillavano di genuina carineria e sembrarono accendersi ancora di più quando, con un sorriso imbarazzato, cercò di incrociare il suo sguardo.

Perdonami, hai ragione. Non avrei dovuto trattenerti. E quel tè fa schifo, in ogni caso. - le disse, divertita, con lo stesso tono gentile che le aveva rivolto dal momento in cui aveva messo piede in quel negozio. Come se nulla fosse, come se quell'inquietante e repentino cambio d'umore fosse stato rimosso da una magia invisibile, Cecilia si riavvicinò alla ragazza per poterla scortare fuori.
Il corpo minuto di una collega piuttosto anziana fece capolino oltre la tenda che separava i due locali del negozio.

Scusate se interrompo. - esordì, con un tono acido che non provò nemmeno a celare. Sul viso nemmeno l'ombra di una vaga cortesia quando si avvicinò a Cecilia e le porse una lunga scatola rettangolare di velluto.

Te lo manda tuo figlio. - si limitò a dire, evitando di guardarla negli occhi. La donna si volse verso Megan facendole un cenno di saluto con il capo, prima di uscire e tornarsene da dove era venuta.

Non ti preoccupare. Farò recapitare i campioni al tuo indirizzo. Hai già lasciato i tuoi dati al bancone? - disse poi Cecilia, avviandosi fuori da quella sala, con la scatola - ormai inutile - tra le mani.
Se Megan fosse uscita dal negozio in quel momento, avrebbe visto Draven avvicinarsi al semaforo pedonale per potercisi appoggiare contro con una spalla, mentre tirava fuori dalla tasca destra dei jeans una sigaretta e se l'accendeva, in attesa di poter attraversare la strada.

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Continuava a passare lo sguardo tra un elemento all’altro della stanza per finire sempre ad osservare le spalle minute della donna. Megan non si era mai voltata a guardarla nemmeno quando quella breve interazione aveva riempito l’imbarazzante silenzio tra le due. Eppure, l’incertezza nelle parole di Cecilia non era passata inosservata, anzi aveva allertato i suoi sensi lasciandole in volto un’espressione dubbia che non tentò in alcun modo di approfondire. Si era così sincerata che le parole risultassero più cordiali possibili nell’eventualità di uscire presto da lì, ma a confermare il fallimento di quel tentativo fu il forte sbattere della tazzina sul bancone, il braccio tremante e le spalle ricurve in direzione del misfatto.
Megan si sollevò, lasciando scorrere la tracolla sulla spalla. Prima che potesse dire una sola parola, però, venne anticipata da Cecilia. La donna si era voltata verso la sua direzione mascherando in volto un'espressione che faticò a comprendere ma che, allo stesso tempo, sentì familiare. Le sorrise assecondando i successivi passi dirigendosi verso l’uscita sentendo, per alcuni secondi, l’imbarazzo scivolare via allontanando qualsiasi preoccupazione. Tuttavia, l’irrompere di una terza figura, che attraversò l’arco con una scatola in mano, riaccese le emozioni per un attimo sopite. «Scusate se irrompo. Te lo manda tuo figlio» disse l’anziana. Megan guardò il contenitore e poi la signora, accennando un sorriso in risposta al saluto che le era stato rivolto prima che ella togliesse il disturbo. Draven era tornato ed aveva di nuovo abbandonato il negozio. Non seppe ben definire come quei pochi secondi ebbero influenza su di lei, ma un sentimento simile alla più vicina delusione le aveva riempito lo stomaco.
Non si soffermò a lungo su quello stato, che giudicò temporaneo, e seguì Cecilia fermandosi al di là del bancone. Annuì confusa. «Va bene, la ringrazio, le lascio il mio indirizzo e i dati utili» rispose. Con incertezza afferrò la penna e scrisse su un post-it quanto le era stato richiesto.
«È stato un piacere, le auguro una buona giornata» finì poi per dire; tempo pochi secondi e varcò la porta spingendosi fuori da lì.


Aveva girato la maniglia oltrepassando la linea d’uscita, prendendo aria quanto basta per calmare l’agitazione che a fatica aveva cercato di trattenere fino a quel momento. Sentì freddo nonostante il tempo e si rifugiò nella felpa leggera che aveva portato con sé, coprendo le spalle nude. Con il viso rivolto verso il basso compì i giusti passi, scendendo i gradini e tornando sul marciapiede. Solo quando fu saldamente con i piedi a terra, sicura di dover andare dritta per la sua strada, alzò la testa e lo vide: Draven le dava le spalle appoggiato al semaforo in attesa di attraversare anche lui le strisce.
L’agitazione riprese a stringere lo stomaco. Attimi di panico la condussero dapprima a voltarsi verso destra, poi nel lato opposto compiendo in entrambi i casi pochi passi per poi tornare indietro. Ok… inspirò ed espirò. Non si sentiva affatto pronta a tutto quello che quell'incontro le avrebbe dato ma si sforzò di lottare contro quella paura; non era nient'altro che senso di responsabilità dal quale si nascondeva da tempo.
Era ancora immobile dietro di lui. Strinse i pugni e li allentò l’istante successivo, avvicinandosi. Si accostò a Draven, spalla contro spalla a pochi centimetri di distanza l’odore del tabacco la investì lasciandole storcere il naso.
«È abbastanza insolito ritrovarsi così» disse allungando la testa in avanti, constando il cappuccio della felpa per guardarlo appena; le labbra si curvano delicatamente da un lato, la guancia fece lo stesso mettendo in risalto la fossetta. «Tua mamma è stata gentile e a quanto pare sa di… di noi» aggiunse poi, tornando a guardare l’altro lato della strada. Gli interrogativi che l’avevano torturata qualche minuto prima erano ancora lì, presenti e martellanti. Di certo il comportamento di Cecilia non l’aveva aiutata, lasciandola in balia del nulla assoluto e ora tentava di capire di più. Le braccia in avanti lungo il ventre, le dita un contorcersi continuo nel combattere la tensione che le irrigidiva il corpo; afferrava i polsini della felpa allungandoli e l’azione si ripeteva ancora e ancora. Poi, le persone in attesa iniziarono a superarli in entrambi i sensi di marcia, mentre il suono del semaforo risuonava petulante invitandoli a muoversi da lì. Megan sarebbe andata avanti seguendo quel flusso.


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view post Posted on 6/10/2022, 12:36
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Visto che all'andata si era lanciato per strada rischiando di essere investito addirittura anche da un ciclista, stavolta aveva pensato bene di fermarsi vicino al semaforo, in attesa che gli fosse concesso di raggiungere il marciapiede opposto incolume. Gli sembrò di aver ripreso fiato solo in quel momento, come se avesse dimenticato come si respira dal momento in cui i suoi occhi si erano posati, inaspettatamente, sulla figura di Megan. O come se, per contraddizione, la sigaretta che si era appena acceso gli avesse ridato ossigeno. Mentre osservava distrattamente la nube di fumo che ne scaturiva, disperdendosi nell'aria senza colori, in quella strada circondata da palazzi di un triste bianco ingiallito, si ritrovò ad avere la mente così accavallata da pensieri discordanti da non essere in grado di formularne nemmeno uno in maniera razionale. Come in risposta a quell'implosione di emozioni, il viso si era accaldato di una sensazione febbrile e lo sguardo si era fissato su un punto nel vuoto davanti a lui.
Aveva passato tutta l'estate a pensare a lei. In piena onestà, non aveva fatto altro che pensare a lei da più di un anno; ciò che era successo dopo la festa aveva solo accentuato il problema. Darle tempo e spazio per elaborare la cosa non era servito a nulla, visto il modo in cui lo aveva evitato dopo il ballo. Invece di fare dei passi in avanti verso di lei, gli era sembrato di averne fatti diversi indietro. Era evidente che ci fosse qualcosa in lui che le piaceva o, quantomeno, che l'attirava, ma non era abbastanza. Lui non era abbastanza, ne era consapevole, ma avrebbe fatto di tutto pur di essere alla sua altezza... Solo non sapeva ancora cosa potesse fare.
Aveva creduto che l'unica nota positiva di quelle settimane lontane da lei fosse la possibilità di riflettere. Si era nutrito per mesi di sorrisi imbarazzati e saluti di circostanza e aveva deciso che di ritorno a scuola le cose sarebbero cambiate, in qualche modo. In qualsiasi modo. Ma prima di mandare tutto all'aria con gesti avventati, si era detto di dover valutare qualsiasi via di uscita. Motivo per cui, era stato grato di quel lasso di tempo che gli era stato concesso per ragionare, anche se a pochi giorni dalla ripresa delle lezioni a Hogwarts non aveva trovato nessuna soluzione soddisfacente che potesse farli uscire da quell'en passe. Soprattutto, nel suo dover analizzare ogni singola ipotesi, non aveva mai pensato alla probabilità di incontrarla a Londra in quel periodo. E lo shock era stato tale da far crollare tutta la sua razionalità, come un castello di carte particolarmente instabile.
Il viaggio in metro era servito solo a convincerlo di doversi riprendere quel tempo di 'pausa' per continuare a riflettere su quale fosse la prossima mossa da fare. Approcciarla nel negozio di sua madre era fuori discussione. Era stato stupendo poterla rivedere - e l'avrebbe sognata con quel vestito addosso per almeno i prossimi due mesi - ma camminava su un terreno fragile: un passo falso e avrebbe rischiato di allontanarla per sempre. O addirittura di portarla a pentirsi di ciò che era successo tra di loro.
Scosse la testa, sovrappensiero, come a volersi togliere di dosso la probabilità che quel flusso di coscienza potesse scaturirgli un'angoscia tale da mandargli tutto all'aria, visto che era stato difficilissimo entrare nel negozio e imporsi di evitarla. Odiava quella vecchia proprietaria, ma dovette riconoscere che, fermandolo praticamente all'ingresso per evitare di attirare altra attenzione dai clienti dell'atelier e mandandolo subito via, gli aveva reso le cose più facili.
La musica nelle cuffie verdi che teneva intorno alle orecchie gli riempì la mente e socchiuse gli occhi per un istante più lungo del normale, quasi a volersi estraniare dalla realtà che lo circondava. Ancora i Metallica. Era colpa di Megan anche quello... Della sua t-shirt e di quella fatidica sera. Era riuscito ad ascoltare qualcos'altro in quelle settimane, ma era successo in pochissime occasioni. I Metallica gli davano uno strano senso di conforto.
Riaprì gli occhi, prese un lungo tiro dalla sigaretta e lo espirò, in un'ennesima densa nuvoletta di fumo, quando chinò la testa per prendere il cellulare. Probabilmente, per alzare il volume, o forse per tornare ad ascoltare “Ride the lightning”, ma la mano rimase lì a mezz'aria nell'incrociare lo sguardo di Megan. La sigaretta gli sfuggì via dalle dita e abbassò d'istinto lo sguardo a seguirne la triste discesa verso il marciapiede. Le labbra schiuse e le sopracciglie inarcate in un'espressione stupita, prima di ritrovarsi a sgranare gli occhi fissi di nuovo su di lei, totalmente inebetito. Nonostante la musica, l'aveva sentita benissimo. Aveva detto "noi"? "Noi", cosa? AVEVA DETTO "NOI"?! In che senso "noi"?
Forse il cuore si era fermato o forse stava avendo un ictus, o forse entrambe le cose insieme.
Era rimasto pietrificato sul posto. Ogni singola fibra del suo corpo incapace di reagire agli impulsi del cervello che lo avvisavano che Megan si stava muovendo. Stava di nuovo scappando. E gli ci volle qualche secondo di troppo per riuscire a muoversi. Si fiondò alle sue spalle con due lunghi passi, praticamente camminando di lato come un granchio nel vano tentativo di evitare la folla di pedoni che gli passava vicino e, ai quali, rivolse occhiatacce cariche di odio e disgusto. Non riuscì a dire niente finché non si trovarono sul marciapiede opposto, al sicuro e quantomeno con uno spazio vitale che gli consentiva di non dover respirare l'anidride carbonica altrui. Quasi rischiando di inciampare sui propri passi, fece un balzo in avanti per fermarsi di fronte a lei e, sì, bloccarle la strada.
Cavolo, no! Non l'avrebbe lasciata andare via per l'ennesima volta e lasciare in sospeso l'ennesima conversazione.

Perché? - fu, però, l'unica cosa che riuscì a pronunciare, fissando gli occhi nei suoi e beandosi della solita sensazione di assoluta calma che erano in grado di infondergli. Un assolo di chitarra elettrica particolarmente prepotente irruppe in quel senso di beatitudine ricordandogli che aveva ancora le cuffie sulle orecchie e se le abbassò a posarle intorno al collo; senza deviare lo sguardo da lei, senza quasi nemmeno battere ciglia, con la solita paura che, chiudendo le palpebre, quando le avesse riaperte l'avrebbe vista sparire. Contro ogni indicazione logica e razionale, in totale conflitto con la propria coscienza, si disse che ovunque fosse andata l'avrebbe seguita finché non fossero riusciti a parlare come due persone normali.

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view post Posted on 7/10/2022, 14:26
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Compì qualche passo in solitudine, mischiandosi tra la folla. Testa bassa, occhi rivolti verso l’alternarsi delle strisce bianche sull’asfalto. L’ansia che gravava sulle spalle, schiacciandola, non aveva smesso di essere presente, nemmeno quando aveva tentato di allontanarsi da lui e da quel luogo. Non voleva scappare ma alleggerire quell’inevitabile tensione che trovava sfogo tra le dita strette nel tessuto. Continuava a riempire i polmoni cercando di prendere più aria possibile ma non sembrava essere mai abbastanza. Tornare indietro nel tempo riportava a galla sofferenze che non aveva intenzione di ripercorrere, pur sapendo che era l’unico modo per affrontare la realtà. Quella notte aveva cercato conforto e con lui era riuscita ad abbandonare qualsiasi tormento, anche se per pochi attimi.
Poteva dirsi forse di aver dimenticato? Ogni gesto, sguardo e momento trascorso con Draven da allora aveva solo una risposta precisa, che lei rifiutava di ammettere. Dunque, era riuscita a rimanere in quello stato evitando qualsiasi interazione con lui che potesse metterla a disagio. Draven, d’altro canto, aveva reagito allo stesso modo. Megan non poteva immaginare che avesse scelto di lasciarle solamente spazio per elaborare la cosa, per non metterle pressione; perciò, riuscì soltanto a razionalizzare addossandosi colpe per qualcosa che non meritava alcun giudizio da nessuno, nemmeno da se stessa.
Così, il tormento era tornato a galla in quell’incontro improvviso: lo sguardo dato di sfuggita, la mente in totale blackout; preciso, anche il desiderio di voler scappare ancora. Quando giunse in prossimità del marciapiede opposto, si spinse mettendo piede sulle vecchie lastre di granito e girò verso sinistra alzando lo sguardo. Frenò giusto in tempo prima di sbattere contro Draven che, prontamente, si era piazzato davanti a lei bloccandogli la strada. I battiti accelerarono per la paura questa volta, il corpo si irrigidì per poi rilassarsi l’attimo seguente.
«Hey!» disse d’istinto. «Perché?» le chiese lui nello stesso istante.
Megan piegò il viso da un lato e l’espressione mutò in un chiaro interrogativo. Aggrottò le sopracciglia sorpresa da quella domanda. «Sa che siamo compagni di scuola, no? È questo che le hai detto» alzò le spalle accennando un sorriso sbieco; dentro di sé era ancora vivo il dubbio che Cecilia sapesse di più sul loro conto. Poi si avvicinò accorciando le distanze, abbassò lo sguardo per qualche secondo sincerandosi di non pestargli i piedi. «Posso?» chiese tornando a guardarlo negli occhi, chiaro era l’obiettivo di proseguire verso la strada intrapresa. Il volto ora era rilassato ma dentro di sé il cuore non aveva smesso di martellare con forza, nemmeno quando lo spavento era ormai passato. Qualche secondo e si accostò a lui sfiorandogli la giacca, superandolo. Si fermò poco dopo dandogli le spalle; non stava scappando, aveva promesso di non farlo. Infine, si voltò ancora verso di lui lasciando con un gesto scivolare il cappuccio sulle spalle. Liberò le ciocche corvine e con le dita le sistemò lasciandole scorrere lungo la schiena. «Ti va di fare due passi?» chiese con voce incerta. Di fronte a quell’invito e agli occhi smeraldini di lui se l’avesse guardata, Megan tornò a sfregare il tessuto con le dita lungo il cannolè, sollevandolo appena.
Non era in grado di capire dove quella situazione l’avrebbe portata ma si era data abbastanza forza per andare avanti. Tuttavia, quanto in là si sarebbe davvero potuta spingere?


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view post Posted on 8/10/2022, 00:36
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Non aveva la minima idea di cosa fosse successo in quel negozio tra lei e Cecilia, prima e dopo il suo arrivo lì. Forse per salvaguardare un minimo la sua sanità mentale, non se l'era nemmeno chiesto. Nel breve viaggio in metro verso casa e di ritorno lì, non aveva avuto modo di riflettere adeguatamente. Aveva dovuto decidere se concentrarsi su sua madre e il modo in cui lo aveva fatto incazzare, oppure sull'immensa gioia, misto a stupore e preoccupazione, per aver rivisto Megan - in quel benedetto abito confezionato dagli dei. Tutto il resto era passato in secondo piano ed era giunto alla conclusione di non poter far altro che ignorare la coincidenza, fare finta di nulla con sua madre e non cercare Megan, né dentro, né fuori dal negozio. Tornare al piano originale: darle tempo e spazio. Ritrovarsela di nuovo davanti aveva mandato all’aria qualsiasi buon proposito. La sua affermazione seguente lo aveva mandato definitivamente in tilt. Con l’ultimo barlume di lucidità che gli restava, si era agganciato alle sue parole per darvi un senso. Non si era lasciato andare al pensiero che, per qualche motivo, Megan potesse aver raccontato davvero qualcosa di loro a sua madre, e fu più sensato chiedersi come fosse riuscita Cecilia a capirlo. Come e... perché. Non fu nemmeno certo di averlo detto ad alta voce finché non sentì la risposta di Megan: il tono sorpreso, l’espressione confusa, che gli sembrò celare qualcos’altro. Scetticismo o divertimento, per il fraintendimento. Si era appena preso gioco di lui…
Forse per quel po’ di orgoglio personale che gli era rimasto, si costrinse ad abbassare lo sguardo.
Erano successe tante cose in quei lunghi mesi dopo la loro conversazione in treno. Non ricordava la maggior parte di ciò che si erano detti allora, perché si era sentito per tutto il tempo come sotto a una grossa dose di antidolorifici, ma era stato in quel momento che aveva constatato il potere del suo sguardo. Non c’era un altro modo per spiegarlo: diventava scemo se la fissava troppo a lungo. Il cervello smetteva completamente di funzionare, spegneva ogni pensiero razionale e articolare frasi di senso compiuto diventava un’impresa a dir poco ardua.
Inumidì le labbra in un gesto nervoso.
Se quello era il suo modo per avviare una conversazione, l’avrebbe assecondata.

Si è incuriosita. Ho dovuto dirle qualcosa per non farle fare ipotesi. – ribatté alle sue parole, arricciando le labbra a nascondere un sorriso arrogante, tradito dalle fossette che si palesarono sulle guance. Avrebbe dovuto indietreggiare, lasciarla passare e affiancarsi a lei perché, cervello in tilt o funzionale, a quel punto era tardi per tornare al piano originale e sapeva che non sarebbe riuscito a impedirsi di seguirla. Ma era così vicino a lei da poter sentire l’odore di vaniglia e gelsomino che aveva sentito quella fatidica sera. Per istinto, si era chinato verso di lei. Fu certo di essere stato sul punto di risponderle di ‘no’ alla sua richiesta di passare, se non fosse che lo superò prima che potesse farlo.
Gli sembrò di essere come Dr Jekyll e Mr Hyde… Un attimo prima scemo, l’attimo dopo eccitato.
“Ambedue le mie nature erano assolutamente spontanee.”
Prese un respiro profondo e si sfregò il viso tra le mani.
Parlare come persone normali. Aveva un obiettivo. Una cosa semplice semplice.
Calma e sangue freddo.
Si voltò verso di lei, pronto a correrle dietro di nuovo, sicuro che in quel breve frangente di auto-valutazione lo avesse scartato di diversi metri pur di provare ad andarsene; invece, aveva fatto solo pochi passi. Doveva pensare velocemente, trovare un modo per convincerla a non andare via. La concentrazione gli contrasse i lineamenti del viso, le sopracciglia aggrottate e la mascella tesa, mentre lo sguardo si posò sulle sue dita che stringevano il cannolè delle maniche. Era agitata? L’aveva messa a disagio?
Contro ogni buonsenso, sentì il bisogno di assicurarsi che stesse bene e riportò lo sguardo sul suo viso, ma le sue parole arrivarono prima a chiarirgli il perché di quel nervosismo.

Dove vuoi. – ribatté prontamente, annuendole. Tutti quei secondi passati a chiedersi cosa avrebbe potuto mai inventarsi per cogliere quell’opportunità ed era stata lei a prendere l’iniziativa… Era nervosa per questo. Forse intimidita?
I piedi si mossero da soli per riportarlo al suo fianco e alzò lo sguardo sulla strada. Non ebbe nemmeno il tempo di godersi quel momento: un brivido di puro terrore gli attraversò la spina dorsale nel vedere una chioma scura che gli dava le spalle, le mani tatuate che posavano delle pinte sul tavolo esterno di un bar.

No, non è vero. Andiamo di qua. – esclamò, circondando la vita di Megan con un braccio. La spinse a sé per direzionarla verso una strada laterale sulla destra e la lasciò andare solo quando, con una rapida occhiata, si fu assicurato che Eliana non lo avesse visto.

Cazzo, che giornata… - gli sfuggì dalle labbra, mentre le mani tornarono a sfregarsi il viso per l’ennesima volta. Erano a malapena le sette e si sentiva stanco come se fosse piena notte.
Basta così con i pseudo-genitori e le montagne russe d’emozioni.
Parlare come persone normali. Poteva farcela. Doveva riuscirci.

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L’attimo che seguì quel breve scambio di interazioni, lasciò in Megan il tempo di un sospiro di sollievo. Era fatta, aveva superato il primo step di una lunga e tortuosa scalinata. La risposta di Draven le lasciò modo di indicargli la direzione con un semplice gesto della mano. Le braccia, poi, tornarono lungo i fianchi. Si voltò nello stesso istante in cui lui la raggiunse. Il silenzio durò qualche secondo ma tanto bastò a farle comprendere che quell’incontro non sarebbe andato avanti con gli occhi rivolti altrove e le labbra serrate.
Così camminava, lo sguardo perso tra le macchine che percorrevano la strada alla sua sinistra in uno sfrecciare continuo. Il suono di qualche clacson e il vociare di persone che allegramente passeggiavano passandole accanto. Tutto andava avanti ma lei rimaneva ferma.
Si voltò guardando innanzi a sé solo quando Draven scelse di cambiare direzione. Le parole la sorpresero e per un momento si chiese perché mai quell'improvviso cambio di rotta - una donna a pochi metri serviva le birre ad un tavolo dando loro le spalle. Megan la vide ma non ebbe il tempo di memorizzarla che lui le cinse il fianco trascinandola con sé nella via adiacente. Evitò un uomo spingendosi verso Draven involontariamente e tanto bastò a metterla in imbarazzo. Un lungo brivido lungo la schiena e subito provò ad allontanarsi. In quel breve tocco sentì le emozioni tornare a galla, tentò di resistergli ma il cuore aveva iniziato a battere forte ancora e adesso ne capiva il significato. Una tempesta che per alcuni secondi la lasciò in balia delle profondità dell'oceano pronto ad inghiottirla. Era giusto resistere? Non sentì solo paura ma attrazione.
Pugni stretti, mentre le sensazioni lasciarono riaffiorare, quanto basta, i ricordi. L’immagine di un fuoco acceso nel bosco, mani distese verso le fiamme; poi, la le braccia di lui strette a sé. Turbamento. Al senso di pace seguirono i sensi di colpa.
Sì guardò indietro mentre allungava il passo veloce nella strada laterale. Tornò a respirare quando Draven mollò la presa, in volto un'espressione agitata.
«Cazzo, che giornata…»
«Cosa?» pronunciò con un tono di voce sorpreso ma appena udibile. Incrociò le braccia al petto, tentando di allentare la morsa stretta nello stomaco.
Involontariamente Megan aveva aumentato le distanze e guardava avanti adesso. Gli occhi rivolti un attimo verso il cielo terso. Cromie perfette che si sovrapponevano preparandosi ad un tramonto ormai prossimo.
Continuava a camminare. Un passo dopo l’altro verso una meta che non conosceva.
Respirò.
«Vorrei solo dirti…» quelle parole uscirono difficili, le labbra le tremarono appena, e il loro suono parve incerto. Silenzio. «Mi dispiace per tutto quello che è successo tra me e te. È stato…» si fermò esitando, lo stomaco si contorse ancora una volta, lasciando nascere sul suo volto piglio di dolore. Percepì l’aria sfiorarle il volto e per un breve istante soltanto chiuse gli occhi. Cercò la calma. Aveva imparato sulla propria pelle che rimanere in silenzio poteva essere più letale di qualsiasi parola detta.
«È stata colpa mia, non dovevo permettere tutto questo» la voce tremò giusto il tempo di ingoiare il nodo bloccato in gola. Lui aveva visto parte della sua fragilità e Megan non riusciva a sentire altro che la paura di poter essere nuovamente colpita. Non poteva permetterlo. Quella notte riaffiorò ancora e nel dolore di Draven ritrovò il suo.
«Non volevo che finisse così tra noi» iniziò a sentire il peso della situazione ora che stava confessando parte di ciò che sentiva in sua presenza. «Guardaci, parliamo appena» sembrò più sicura.
«Voglio che tu sappia che quella sera se non ci fossi stato tu, io… Io non so cosa avrei fatto». Arrestò il passo allora, prima di svoltare su una strada principale; prima che il traffico irrompesse tra loro come un invadente terzo incomodo.
Le mani sciolsero la presa attorno al busto e tornarono lungo i fianchi.
«Credo che sia importante che tu lo sappia, lo è per me» sorrise appena, gli occhi rivolti verso di lui senza cedere nemmeno per un secondo.
Le emozioni giocavano una partita infinita nella testa e Megan stava provando a tenere solamente il controllo.



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Gli ultimi raggi di sole di quello stranissimo pomeriggio rifletterono sull’asfalto, facendogli bruciare gli occhi. Alla fine, se non avesse deviato per evitare Eliana, lo avrebbe fatto per evitare il sole. Ogni minuto che passava faceva meno caldo, anche se la temperatura restava mite e piacevole. Per istinto, si era stretto nella giacca. Nonostante si trovassero circondati dal traffico cittadino della metropoli, con quel gioco di luci e ombre che anticipava il tramonto, quell’aria fresca, piacevole e non fastidiosa, la sua vicinanza, che faceva sì che il suo profumo gli inondasse l’olfatto… Tutti piccoli dettagli che accentuarono il ricordo di quella sera. Se ne sentì così sovraccaricato, nel tempo di un battito di ciglia, che focalizzarsi sulla situazione e mantenere la concentrazione gli risultò ancora più complesso di quanto la situazione stessa non fosse.
Quella sera che aveva cambiato tutto e, allo stesso tempo, un bel niente; sicuro che avesse avuto una certa rilevanza solo per lui.
Gli incontri fortuiti che continuavano a metterli in difficoltà… Erano tutti degenerati in qualcosa che non si era mai concesso di pensare troppo apertamente, per non restarci deluso. Una dopo l’altra si erano susseguiti discorsi e azioni che erano rimasti sospesi in uno spazio che non apparteneva alla loro quotidianità. Si era ripetuto più e più volte di non volere niente da lei, mentendo a se stesso quando ogni fibra del suo essere sembrava non accontentarsi mai; voleva solo vederla felice, ma era consapevole di quanto gli facesse male il solo pensiero che potesse sorridere per qualcun altro o grazie a qualcun altro. Era da solo a lottare contro i propri impulsi, per dei sentimenti che si sentivano appagati da uno sguardo in corridoio o da poche parole rivolte fuori da un negozio. Era una condizione così stupida in cui vivere. Se ne stava a galla a boccheggiare, fingendo di sentirsi a suo agio; ogni volta che Megan gli dava un briciolo di attenzione, era come se quell’acqua pronta a farlo affogare abbassasse i suoi livelli e gli consentisse di respirare un po’ meglio. Solo che le situazioni che alzavano i livelli di quell’acqua immaginaria erano più frequenti…
Dopo averla vista vicino a sua madre e a pochi passi dalla nuova figura entrata a far parte della sua famiglia, e che era l’essere più irritante e invadente che avesse mai conosciuto; con tutte quelle emozioni addosso e il ricordo del treno, quello del ballo e della fatidica sera, che rappresentavano i tre eventi maggiori nel loro rapporto, qualsiasi esso fosse… lei gli aveva chiesto “cosa” quando l’esasperazione gli aveva fatto sputare fuori che era una cazzo di giornata. Chissà perché, in effetti.
Prese un respiro profondo, le mani che dal viso si spostarono a scuotere i capelli, lisciandoli indietro in un gesto nervoso; forse doveva imparare a darsi un contegno con i tick.
Avrebbe voluto dirle chiaro e tondo che non aveva la minima idea dell’effetto che avesse su di lui, ma razionalmente si accorse in tempo, prima di dar fiato alla bocca, che era una cosa decisamente troppo pesante da dire a una persona che gli aveva solo chiesto in maniera indiretta cos’avesse detto a sua madre su di loro. Per quanto non c’entrasse niente il raziocinio con ciò che provava per lei – perché, se avesse potuto averne il controllo, quantomeno non si sarebbe limitato a fissarla come un ebete – sapeva di dover restare lucido il più possibile, il più a lungo possibile. Non poteva dirle tutto ciò che gli passava per la testa, non poteva renderla partecipe di ciò che provasse quando non aveva la minima idea se fosse nel suo interesse saperlo, non poteva travolgerla nel proprio caos senza che fosse lei a volerne fare parte. Erano solo due compagni di scuola che… si erano consolati a vicenda una sera. Per quanto potesse essere terribilmente amareggiante ridurre la cosa in quel modo.

È una giornata strana. – si limitò a risponderle, facendo spallucce. Come racchiudere, male, in quattro parole qualcosa che non sarebbe riuscito a spiegare nemmeno attraverso un trattato. La comunicazione verbale già in condizioni normali non era il suo forte. Con lei, poi, era tutto enfatizzato: pregi e difetti, inettitudine e attitudine, istinto e pulsioni.
Gli era venuto mal di testa per tutto quel rimuginare.
Portò le mani nelle tasche della giacca e rialzò lo sguardo davanti a sé. La gente sembrava confluire nel lato opposto al loro, probabilmente in direzione della metropolitana. Erano poche le persone che come lui e Megan si stavano dirigendo verso l’entroterra del quartiere. Più fossero avanzati per quella direzione, più si sarebbero avvicinati a casa sua e, solo in quel momento, si rese conto che nell’assoluto disagio per l’imprevisto incontro, non si era nemmeno chiesto come ci fosse arrivata al negozio di sua madre.
Fu certo di essere in procinto di chiederglielo, ma il pensiero si arrestò al suono della sua voce. Istintivamente, si volse a guardarla. Ebbe l’ennesimo deja-vu, più simile stavolta a un vero e proprio flash visivo, nel vederla stretta in se stessa. Vulnerabile, ma non indifesa.
Per un istante si fermò e dovette sforzarsi di riprendere subito a camminare per non farle notare il peso di quelle sue parole. Eccolo lì, il discorso che aveva cercato in ogni modo possibile di evitare, o quantomeno di rimandare. Un ago dritto nel petto, che gli mozzò il fiato per qualche istante. L’idea che si fosse pentita di tutto che iniziava a prendere forma concreta.
Chinò la testa, quasi a volersi nascondere, forse nella speranza di sparire e farle dimenticare qualsiasi fosse il discorso che si stava plasmando nella sua mente.
“È stato”, cosa? Un errore?
Ogni respiro divenne più corto del precedente. Il cuore mitragliato da battiti veloci e dolorosi. Il sapore di sangue in gola, ormai fido compagno dei suoi attacchi di panico da qualche mese a quella parte.
Il senso di colpa… dato dall’aver fatto sesso con qualcuno che aveva dei sentimenti per lei, che lei non ricambiava? Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, anche in quel momento. E aveva comunque scelto di fregarsene, di accontentarsi di ciò che lei voleva da lui, qualsiasi cosa fosse o sarebbe potuta essere.
Un qualcuno che, forse, lei pensava si fosse creato castelli in aria, nonostante avesse tenuto i piedi piantati a terra per non farsi attrarre da nessuna illusione che la propria speranza provasse, con insistenza, a proporgli.
Schiuse le labbra e l’aria emessa divenne vetro graffiante lungo la gola. Sapeva di dover dire qualcosa, anche se non sapeva cosa, ma non riuscì a emettere suoni.
Per tutta l’estate non aveva fatto altro che pensare a lei e piangersi addosso perché gli mancava vederla, semplicemente vederla. Non si era preparato ad affrontare quel discorso con lei. Non si era aspettato di doverlo fare.
Si schiarì la voce, il più silenziosamente possibile, ancora nel tentativo di diventare in qualche modo invisibile e farle dimenticare che fosse lì al suo fianco, con la mente che si arrovellava in cerca di una scappatoia dalla situazione, dai propri pensieri ed emozioni, mentre lei continuava a parlare.

Non credo di averti mai parlato tanto nemmeno prima. – furono le prime parole che gli uscirono dalle labbra, il tono di voce basso e rauco. Deglutì, nel vano tentativo che il sapore ramato del sangue, che aveva raggiunto la bocca, potesse sparire così.
Si volse a guardarla, riducendo le distanze per tornare al suo fianco. Se avesse incrociato i suoi occhi, avrebbe potuto notare un velo di tristezza nei propri, nonostante le labbra si distesero in un sorriso dolce, assecondato dalle fossette sulle guance che alleggerirono l’espressione del viso. La mano sinistra scivolò via dalla tasca della giacca.

Non pensarci troppo. – disse poi, posando la mano sulla sua testa in una carezza leggera, che voleva essere rassicurante. Se non si fosse scostata da quel tocco, avrebbe lasciato scorrere le dita tra i suoi capelli sciolti, fino a raggiungere la nuca e lasciarvi un’altra lieve carezza, la punta del pollice a sfiorare il profilo del suo viso.

Che ci fai in questa zona, comunque? – chiese poi, ritirando la mano che tornò prontamente a nascondersi nella tasca della giacca, con lo sguardo che tornò a posarsi distrattamente sulla strada davanti a loro. Il sapore ramato del sangue che ancora gli bruciava la gola e rendeva faticoso respirare, deglutire, restare in vita abbastanza a lungo da trovare il modo giusto di affrontare quel discorso. Non lì, non in quel momento. Forse mai, sarebbe stato meglio.


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L’aria accarezzò il corpo. I brividi lungo le gambe per metà scoperte la fecero sussultare appena costringendola a curvare leggermente le spalle e a sfregare veloce le ginocchia tra loro. Nel mentre le parole di Draven trovarono voce spezzando il viavai di pensieri che, in quegli esigui attimi, era tornato a tormentarla.
Il suono appena accennato, la consapevolezza di una verità amara. Megan poté constatare solamente la realtà dei fatti senza poter obiettare in alcun modo. C’era stato solo un momento in cui avevano avuto la possibilità di parlare veramente, da allora il tempo passato aveva colmato la mente di spazi vuoti per uno e di dubbi per l’altro. La convinzione di avere il controllo, la certezza di avere le risposte.
Rimase in silenzio senza interromperlo. Le iridi oltremare focalizzarono ogni dettaglio del suo viso non lasciandosi sfuggire il velo di tristezza che incupiva l’espressione. Lo lasciò avvicinare. Il movimento che seguì le parve così naturale da non rendersi conto di aver abbassato la palpebre per pochi secondi. Una carezza leggera a spostare le poche ciocche cadute in avanti, il pollice a sfiorare la guancia con estrema dolcezza. Un calore così familiare che l’avvolse e da cui per pochi istanti si lasciò travolgere totalmente. Tornò a sondare le iridi smeraldine sorridendogli appena prima di vederlo sciogliere quel breve contatto. Erano rimasti immobili. Draven ora aveva distolto lo sguardo osservando la strada ma Megan era lì che lo guardava, tracciando una linea immaginaria del suo profilo che dalla fronte percorreva naso, bocca e labbra, fino a giungere all’estremità ultima del mento.
«Forse hai ragione, non abbiamo mai parlato così tanto. Però, forse, era meglio di… Di questo» disse. Cercò di nuovo i suoi occhi sporgendosi appena nella sua direzione invitandolo a guardarla. Le parole si incastravano tra di loro in un perfetto discorso che dava voce ancora una volta alle proprie riflessioni. Un passaggio che la spingeva in avanti, verso di lui, di nuovo.
«Sono scappata e lo so bene. L’ho fatto per mesi dopo quella sera e non è servito a niente» continuò.
«Quindi ti prego di non credere che per me tutto quello che è successo non conti nulla, che basti non pensarci troppo» il tono della sua voce era chiaro, spezzato da alcune note dolci sul finale.
Avevano già fatto l’errore in passato di decidere per lei senza che ne fosse al corrente, arrogandosi il diritto di capire cosa provasse e cosa la spingesse ad agire in un determinato modo, lasciandola affogare nel livore e nella delusione. Non avrebbe voluto che quella situazione si trasformasse in qualcosa che aveva già vissuto e che ancora faceva tanto male. «Non volevo ferirti» confessò, l’espressione era terribilmente sincera. Gli occhi si assottigliarono a due fessure, come se volesse mettere più a fuoco la figura dinanzi a sé. Non disse altro che potesse turbare ulteriormente, giacché il velo di emozioni incerte che l’aveva avvolto riusciva a toccarla così profondamente da alimentare nient’altro che il senso di colpa ancorato nel petto. Avrebbe voluto restituirgli quella carezza a modo suo; credeva di aver fatto la cosa giusta per lui e soprattutto per se stessa.
Indipendentemente se Draven avesse rivolto su di lei lo sguardo o meno, lei avrebbe girato il mento verso la strada. Nel caos cittadino avrebbe trovato la calma per andare avanti e ripreso il passo poco dopo, accertandosi della presenza di lui, con l’intenzione di girare a sinistra ed entrare nella parte più viva della zona. Aveva percorso quelle strade migliaia di volte da quando si era ritrovata a vivere nel South Kensington contro la propria volontà. Il quartiere da quel punto della città si apriva agli occhi della gente invitandola ad immergersi tra locali e negozi. Niente di più accogliente rispetto alle mura fredde della grande casa di nonna Elizabeth. Ogni qualvolta che si ritrovava a Londra era più il tempo che passava fuori tra la gente che nella sua stanza. Era invisibile lì, una piacevole sensazione dopo mesi e mesi trascorsi con gli occhi puntati addosso.
«Abito a dieci minuti dalla Sartoria, l’ho vista per caso un giorno mentre camminavo e mi ha incuriosita. Ho portato un vestito di mia madre per fargli fare alcune modifiche, se riesco me lo farò spedire per dicembre» spostò il discorso assecondando la domanda di Draven. Successivamente, allungò la falcata superandolo di pochi centimetri per evitare una vecchietta che le veniva incontro. Ormai era diventato naturale per lei parlare dei suoi genitori ma il senso di vuoto e sofferenza non riusciva mai a lasciarla indifferente; infatti, storse le labbra e arricciò il naso per pochi ma chiari istanti. «Immagino che anche tu sia di queste parti, o non hai resistito al fascino di questo nobile quartiere?» il velo di ironia si mostrò nel tono ilare e in un sorriso appena trattenuto. Forse avrebbero potuto parlare tranquillamente di qualsiasi argomento, ricominciare da capo come fossero di nuovo su quel treno. Tuttavia, adesso sarebbero stati loro a decidere quale direzione prendere, fin dove si sarebbero dovuti spingere ancora una volta.

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Era a dir poco peculiare il fatto che sentisse spesso la sua mancanza, ma non riuscisse a trovare mai il coraggio di affrontarla. Continuava a rimandare discorsi su discorsi ormai da mesi. Ed erano successe parecchie cose di cui discutere. Semplicemente, non voleva sapere. Gli stava bene ricevere i suoi sorrisi, fossero stati anche solo per pietà. Non voleva sentirglielo dire chiaro e tondo. Era così dal momento in cui l'aveva vista per la prima volta. Qualcosa lo aveva attirato, come se attraverso un solo sguardo fosse stata in grado di generare un legame infrangibile, che non era mai riuscito nemmeno a mettere in dubbio. Ci aveva provato e aveva fallito. Per quanto si fosse impegnato per ignorarla, continuava a confluire verso di lei, per un motivo o per un altro. A un certo punto, aveva semplicemente accettato passivamente la cosa, perché gli dava... vita.
Ricordava il sapore di vino sulle sue labbra, l'odore dei suoi capelli, la voglia sul polso sinistro, ogni singola lentiggine sul suo viso... Le sensazioni provate quella sera. Ma non aveva concesso a se stesso di credere che avrebbe vissuto di nuovo tutto ciò. Ci sperava, ma nemmeno troppo. Non aveva difese con lei e l'unico modo per salvaguardare se stesso era di non avere aspettative. Ma fin quando non gli avesse detto esplicitamente di non volerlo intorno o di non piacerle, una speranza ce l'aveva eccome. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tenersi aperta quella porta.
Quindi, evitare quel fatidico discorso era tutto ciò in cui poteva sperare ardentemente. Rimandare l'inevitabile in qualsiasi modo a sua disposizione. L'indole prudente gli impediva di lanciarsi nel vuoto per porle domande che avrebbero potuto dare risposte che non era pronto ad ascoltare, risposte che non avrebbe voluto accettare.
Ma Megan gli si era fermato davanti, praticamente costringendolo a incrociare il suo sguardo.
Non voleva ascoltarla dirgli che ciò che era successo "contava qualcosa", se le aveva scatenato sensi di colpa. Che senso aveva tenere qualcosa di bello ancorato solo a un ricordo, se non avesse portato a nient'altro? E non era per il sesso; era per il suo sorriso, per i suoi occhi e il modo in cui l'aveva vista libera dal dolore emotivo che l'attanagliava costantemente. Non voleva nemmeno sapere cosa fosse a renderla così, voleva solo avere la possibilità di farglielo superare, o quantomeno dimenticare per qualche minuto, qualche giorno, per un po', finché non fosse diventata un'abitudine facile e naturale da mantenere. Non sapeva come spiegarlo a parole un simile sentimento così articolato. Non era semplice amore, passione, desiderio o affetto... Era come se, da un certo punto in poi, dalla sua felicità fosse dipesa la propria. Qualcosa che non aveva mai cercato, né conosciuto prima di conoscere lei. Come cazzo si faceva a gestire una cosa del genere? O a spiegarla?!
Non sapeva praticamente nulla di lei, della sua vita o del suo passato. Sapeva solo di volerle dare tutto se stesso, per quanto patetico potesse sembrare.
Nel momento in cui, fuori dal negozio, gli si era avvicinato, aveva capito di non volerle dare spazio e tempo, almeno per quel singolo giorno. Aveva provato di tutto: era asfissiante, perché non poteva esternare nulla; era pressante, perché non aveva valvole di sfogo; era deprimente, perché era l'unico tra i due a sentirsi in quel modo. Era tante cose negative... Ma non lo aveva mai ferito, non direttamente. Non era colpa sua.
La contrazione sul petto che aumentava in risposta alla tachicardia, il sapore di sangue in gola, il mal di testa lancinante... Faceva male, maledettamente male, ma non per colpa sua.
Si accorse di aver chinato la testa, per evitare il suo sguardo, a un certo punto del suo discorso.
E quando riprese a camminare, spiegandogli come e perché si fosse ritrovata nel negozio di sua madre, lui la seguì per inerzia, in totale silenzio. Lo sguardo assente, la mascella tesa, i denti stretti in una morsa di frustrazione, così come le mani chiuse a pugno e nascoste nelle tasche della giacca.
Parlava poco o niente, anche quando aveva troppo da dire, perché gli mancavano le parole per potersi esprimere nel modo giusto. Non ci riusciva, non sapeva farlo e se non si era mai posto il problema con nessuno, non riuscirci con Megan lo metteva in ansia.

Non mi hai ferito. È stato bello vederti felice con me, sarebbe bello vederti sempre così, ma non mi aspetto niente, quindi puoi stare tranquilla. - si decise a dire, infine, rialzando lo sguardo su di lei. Dopo un tempo infinito passato a scandagliare i propri pensieri, forse era riuscito a trovare il modo di esprimere quantomeno un sunto di ciò che ritenne fondamentale dirle.
E pensare che, solo pochi minuti prima, si era detto che parlare normalmente con lei era un'impresa da poco...
Prese un respiro profondo e rialzò la testa, rendendosi conto solo in quel momento che, seguendola senza badare a dove stessero andando di preciso, si erano ritrovati nel pieno caos della strada principale di quartiere. Arricciò il naso e storse le labbra in una smorfia involontaria, corrucciando lo sguardo che vagò da una parte all'altra della strada, carico di disprezzo nei confronti della nullafacenza di tutta quella gente intorno a loro. Come se il suo umore non potesse andare più in basso di così.

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view post Posted on 11/10/2022, 22:32
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Aveva continuato a camminare, passi incerti ma disposti ad andare avanti in quello spazio, tra le vie indiscrete del quartiere. Testa bassa lungo il lastricato. Megan contava le grandi mattonelle che lo componevano e che dividevano simmetricamente ogni rivestimento, creando un gioco di incastri che non ammetteva alcun errore. Quando Draven diede voce ai propri pensieri rallentò per un solo istante, concentrandosi sul respiro e tornando a guardare davanti a sé. Non si aspettava che aprisse nuovamente il discorso - dato come lo aveva concluso qualche minuto prima - e fu sorpresa per come lo avesse fatto. Sorrise e allo stesso tempo il cuore mancò di qualche battito. Riprese la sua corsa subito dopo lasciando che quelle parole suonassero nel proprio petto come il rintocco preciso dei secondi che animano un orologio. Il naso aveva iniziato a pizzicare mentre gli occhi si inumidirono tentando di far uscire l’emozione che l’aveva improvvisamente investita. Erano delle bellissime parole, così belle da far emergere il timore di non riuscire ad accoglierle come avrebbe dovuto. Se tornava indietro, quei momenti trascorsi con lui riuscivano a conferire la giusta dose di serenità che non ammetteva alcun pensiero negativo. Era sicura che quella sera fosse stata rinchiusa in un luogo la cui esistenza era presente solamente nella sua mente. Uno spazio trascendentale, alimentato da una magia che non era in grado di descrivere perché a lei sconosciuta. L’unica cosa certa era che Draven fosse lì con lei.
«È stato bello vederti felice con me» l’eco di quelle parole ricostruiva il proprio percorso nella sua mente e per un secondo Megan pensò che lui le avesse ripetute. «Sarebbe bello vederti sempre così».
«Già…» rispose incerta, mentre alzò per un breve istante gli occhi al cielo per non permettere alle lacrime di rigarle il volto.
Lui non si aspettava niente ma poteva dire lo stesso lei? Dopotutto quella sensazione, il senso di libertà e totale serenità racchiusa in quei pochi attimi così intensi, le avevano permesso di vivere a pieno quel momento. Si era svestita di ogni abito e non solo letteralmente. Aveva deposto l’armatura e lasciato che lui la guardasse dentro.
«Io non vado da nessuna parte» le aveva detto allora.
Resta. Rispose adesso. Nella psiche l’irrazionalità agì d’istinto a quel ricordo così vivido, come se avesse avuto la possibilità di mettere improvvisamente in ordine parole non dette e attimi che avrebbero potuto essere vissuti. Una fine immaginaria, solo sua.
Si morse le labbra per risvegliare lo status in cui si era rinchiusa anche se per pochi minuti. Portò lo sguardo verso la strada, al di là dell’ampia carreggiata la scritta di un locale che conosceva prendeva spazio occupando due ampie vetrine di un palazzo. Si fermò. «Hai fame?» chiese rivolgendogli uno sguardo fugace. Tuttavia, prima che lui potesse semplicemente replicare Megan si lanciò in strada. Il suono dei clacson la travolse, una macchina si fermò a pochi centimetri dalle sue gambe e il conducente le imprecò contro ma andò dritta correndo dall’altra parte senza prestargli troppa attenzione. Una volta giunta sul ciglio, si piegò su se stessa come se avesse scalato una montagna: la mano sul petto tremante, il fiato corto e il cappuccio calato sulla testa - che prontamente tirò via una volta tornata in posizione eretta. Iniziò a ridere. Quella scarica di adrenalina fu elettrizzante. Sapeva bene come funzionava, per non pensare bastava spingersi oltre. Era divertente.
«Benvenuto da Coco Momo!» avrebbe canticchiato con tono ilare, ripetendo il nome beandosi di quella rima martellante. Dinanzi a sé Draven, se l’avesse seguita in quella folle corsa sfidando la morte, o comunque qualche osso rotto, non avrebbe fatto fatica a vedere lo spazioso locale. Quest’ultimo gli avrebbe accolti. Una struttura curata nei dettagli: il bianco degli infissi, le grandi finestre ai lati e due ampie tende da sole a coprire due spazi distinti divisi dall’entrata, al di sotto tavoli e sedie.
«Dentro o fuori?» Il sopracciglio alzato e uno sguardo che attendeva risposta.

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La zona di South Kensington, che per ironia nemmeno si trovava propriamente nel sud di Londra, era un conglomerato di quartieri tutti uguali. Indipendentemente dalle classi sociali che li abitavano o dai negozi e i locali che gli davano vita, ovunque vagasse lo sguardo si potevano vedere solo palazzine di un bianco tristemente ingiallito dalle intemperie, talvolta tappezzate di mattoncini a vista. Provocava un senso di smarrimento fastidioso e frustrante; perché la si poteva attraversare tutta, anche di corsa, fin quando i polmoni non avessero bruciato di dolore e il fiato corto non avesse impedito di proseguire oltre, tutt'intorno sarebbe rimasta sempre e soltanto quella vista. E non aveva mai capito perché fosse stata progettata così. Lo trovava claustrofobico e angosciante. Fatto stava che aveva praticamente perso il senso dell'orientamento nel momento in cui aveva deviato il loro percorso per schivare lo sguardo invadente della compagna di sua madre. Si era smarrito nei propri pensieri, quel po' di lucidità che era riuscito a mantenere l'aveva dedicato interamente a cercare di comunicare con Megan nel modo più umano possibile. Quando, finalmente, aveva alzato lo sguardo, prestando attenzione a ciò che li circondava, era stato immediatamente invaso da una sensazione di panico. Ovviamente. C'era molta più gente lì che intorno alla fermata della metro; perché era pieno di locali: pub, ristoranti, cafè, pasticcerie. E il clima mite e piacevole, il cielo sereno, favorivano i ritrovi sociali. Era un incubo. Come se cercare di mantenere la calma con il solo scopo di poter parlare con Megan non fosse già abbastanza impegnativo.
Non aveva notato in lei una reazione a quelle sue parole, né si era soffermato a chiedersi che peso potessero aver avuto - in relazione a quel meccanismo di difesa dietro il quale si proteggeva, senza farsi troppe speranze -, ma la sentì chiaro e tondo quando gli chiese se avesse fame. Onestamente, no. Anzi, aveva la nausea per via dell'ansia.
Gli sembrò di scorgere un luccichio nei suoi occhi, qualcosa simile a un improvviso entusiasmo, per cui le annuì senza alcuna esitazione, ma nel tempo di un battito di ciglia se la ritrovò a una considerevole distanza. Aveva iniziato a correre senza alcun preavviso e lui era rimasto a guardarla, esitante... Voleva che la seguisse? E perché di corsa? Cazzo, quanto odiava correre... Ma continuò a seguirla con lo sguardo e, quando la vide attraversare la strada senza badare al passaggio frenetico delle auto, scattò in avanti. Il ricordo della sua incoscienza, della sua attrazione al dolore e al rischio... Prima il fuoco, poi il traffico londinese. Non sarebbe capitato una terza volta...
La raggiunse sull'altro lato della strada dopo pochi istanti. Prima che il proprio cervello potesse percepire il suono di una risata, la sua, vederla piegata su se stessa fu come ricevere un pugno in pieno stomaco. Le si avvicinò e si chinò su di lei, afferrandola dapprima per le spalle per farle raddrizzare la schiena e poi posando le mani intorno al suo viso per incrociare il suo sguardo, per assicurarsi che stesse bene e fosse illesa. Ed eccolo lì, sorprendentemente, quello sguardo privo di dolore. Era bellissima.
Ma tanto folle.
Con un profondo sospiro di sollievo, abbassò le mani, lasciando che la braccia si distesero al proprio fianco.
L'improvviso entusiasmo spiegato da quel locale e dal suo ridicolo nome.

Fuori. - si limitò a risponderle e senza alcuna esitazione. La voce ancora bassa e provata dall'altalena di emozioni. Non riusciva a calmarsi e i battiti veloci del proprio cuore ne erano la prova fisica e materiale. Sospirò di nuovo, voltandosi a osservare l'ingresso del locale; nonostante le vetrate, i riflessi del tramonto in agguato gli impedirono di sbriciare all'interno e farsi un'idea di quanto fosse affollato. Dandogli una scelta, però, Megan gli stava dando la possibilità di evitare di stare a contatto con altra gente...

Ragazzi, avete una prenotazione? Abbiamo posto solo dentro. - sentì dire da una voce maschile alla propria destra. Presumibilmente un cameriere, al quale non rivolse nemmeno uno sguardo; piuttosto, tornò a osservare Megan. Se ci teneva così tanto ad andare a mangiare lì, l'avrebbe assecondata.
A ogni passo che li avvicinava all'ingresso del locale, però, sentì lo stomaco chiudersi sempre di più.
Il cameriere, che doveva avere due o tre anni più di loro, a giudicare dalla voce, gli indicò un tavolo con tre sedie e un divanetto. Draven si voltò a guardarlo, accigliato, solo a quel punto. Lo vide sorridere a Megan e poi rivolgere a lui lo stesso sguardo fintamente gentile, contro il quale il Serpeverde non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto.
Considerando quanto sembrasse altolocato quel posto, si affrettò a togliersi le cuffie dal collo e a chiuderle nella tasca interna della giacca; un po' a fatica, considerando che era stata precedentemente occupata da una cosa che aveva recuperato a casa, quando era dovuto tornare indietro per prendere i tessuti giusti per Cecilia... Lasciò che Megan decidesse dove sedersi per prima, poi si accomodò al suo fianco.

Comunque, sono nato e cresciuto qui. In realtà, a Earl's Court, ma le mie scuole babbane erano qui e anche il lavoro dei miei genitori... - esordì, la voce quasi tornata al suo tono più naturale. Fortunatamente, il locale non era troppo caotico; non ancora, almeno. E comunque, il suo sguardo era fisso su Megan, consentendogli di disinteressarsi di chiunque o qualsiasi cosa ci fosse intorno a loro.

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Entrata nel locale concordata
 
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