| I tried to loosen off your hold but you stayed and nothing made you fall. | Come avevo previsto, i bacini a schiocco sul viso sortiscono l’effetto desiderato e mi ritrovo a pensare che basterebbe il suono della sua risata per farmi sentire a posto con me stesso per il resto della serata. Anche per il resto della vita andrebbe bene, ma immagino di dover tenere conto dell’esistenza di alti e bassi. Soprattutto adesso, che stare in questa casa la rende nervosa, dopo più di una settimana passata nella sola compagnia di sua nonna. Mi chiedo che tipo sia, la vecchia megera… Non riesco a immaginarla e, mentre avanzo con Megan tra i meandri della casa, mi ritrovo istintivamente a guardarmi un po’ intorno: non ci sono foto di lei su cui potrei basarmi. Non ci sono foto di nessun tipo. Ora che ci faccio caso, lo trovo strano. È un’assenza ingombrante e, in un certo senso, anche triste. Addirittura a casa mia ci sono ancora foto con un Barty felice e in salute che abbraccia me e mia madre o fa smorfie alla fotocamera. Nessuno le guarda mai per davvero, non io almeno, ma non sono mai state spostate dai punti in cui sono sempre state: semplicemente perché fanno parte del nostro vissuto, tanto quanto le tacchette sul muro della mia camera che hanno segnato la mia crescita negli anni, le tende scolorite dal sole in cucina e la chiazza di colla sul tavolino in sala. Non è un qualcosa a cui avrei mai prestato attenzione, se dalle parole di Megan non avessi colto il suo disagio nel vivere dentro queste mura senza personalità; eppure, ora che le osservo mi sento come trascinato nel ritratto di Dorian Gray. Quanta bellezza nei quadri, nei lampadari e nel marmo su cui risuonano i nostri passi; è tutto così perfetto, ricco ed elegante, che mi chiedo quanta sia la bruttezza che si celi dietro tutto ciò. Con una scrollata di spalle cerco di togliermi di dosso la sensazione d’inquietudine che mi assale seguendo Megan in sala. È una cazzo di stanza grande come tutto il mio appartamento. C’è pure un cazzo di pianoforte! Ma, nemmeno qui, nessuna foto di Megan da bambina o dei suoi genitori. Lo trovo così innaturale che non riesco a trattenere una smorfia. Non dovrei giudicare. A dirla tutta, in condizioni normali non avrei mai avuto interesse in riflessioni di questo genere, ne sono più che sicuro, ma ormai non riesco a smettere di pensarci e non capisco se sia solo l’atmosfera da Famiglia Addams a innervosirmi o l’agitazione di Megan che mi si è attaccata addosso per osmosi. Accetto il fatto di essere confuso e stranito, ma va solo a peggiorare quando scosta la mano dalla mia. Abbasso istintivamente lo sguardo. Sento un improvviso gelo sulla punta delle dita e l’eco della sua risata svanisce insieme alla rassicurazione provata solo pochi istanti prima. Vorrei stare con lei, nella nostra solita normalità, ma è tutto dannatamente storto quanto quello stupido quadro di Dalì che intravedo con la coda degli occhi. Non mi sorprenderei se fosse vero e non una riproduzione. Sono sul punto di chiederle di uscire. Penso che in questo momento addirittura quel cazzo di Coco Momo, o com’è che si chiama il locale che le piace a Gloucester, mi metterebbe più a mio agio. Mi girano così tanto i coglioni che non riesco a ragionare. E niente di ciò che vorrei dire trova voce. Mi sfilo la giacca in silenzio, a testa china. Poso su una poltrona lì vicina il cellulare e il tabacco, poi nascondo sotto un cuscino i due regali di Megan, cercando di non farle vedere nemmeno l’involucro. Non che siano perfettamente incartati, visto che li ho incartati io, ma insomma… Perché non posso andare con lei in camera sua? Confesso di essere curioso. Vorrei vedere com’è arredata, sedermi sul letto in cui dorme, magari almeno lì tiene nascosta qualche foto o qualche ricordo indelebile che custodirei gelosamente. Ma l’ansia mi travolge. Non trovo nemmeno la necessità di posare il mio giubbino per forza in camera sua. Continua a cercare le distanze e mi limito a concedergliele come fossi tornato ai tempi in cui ero relegato in un angolo della Sala Grande a guardarla da lontano. Le passo la giacca in silenzio e mi forzo di distendere le labbra in un sorriso che so che è più finto del tocco di colore dato dai fiori in mezzo a quella sala.
Ok. – bisbiglio. È tutto ciò che riesco a pronunciare. Mi butto di peso sulla poltrona con un sospiro profondo. Chiudo gli occhi e presso le dita sulle palpebre chiuse. Mi concentro sui cerchi di luce che la pressione scatena in quel buio imposto e resto così, a cercare di ritrovare un po’ di tranquillità per portare la serata su binari più sicuri. Da quant’è che sono qui? Dieci minuti? Non posso accettare che stia andando già così male. Sorride e si mostra entusiasta in un modo che stona dal suo solito essere e non so come affrontare questo lato di lei. Possibile che sia così diverso da com’è a scuola? Solo perché questa casa la mette a disagio? Per quanto capiti sempre più spesso, ultimamente, che sia lei a prendere iniziativa, so che tra i due quello che ha più bisogno del tocco dell’altro sono io, ma non si è mai tirata indietro. Non così. Faccio perno su un lato del mio corpo per sollevarmi appena e recuperare il tabacco tra i cuscini della poltrona. Non volevo fumare, nemmeno volevo portarmi dietro la roba, ma credo di essermi portato sfiga da solo pensando che potesse farmi stare meglio avere il tutto con me. Riapro gli occhi con l’intento di girarmi una sigaretta e uscire a fumare, dato che Megan dev’essersi persa alla ricerca di un attaccapanni, ma il mio sguardo si posa sulle librerie. È come osservare un’oasi nel deserto. Lecco e giro la cartina in meno di un secondo; chiudo la sigaretta e riappoggio il tutto sulla poltrona mentre mi rimetto in piedi. Non mi sono mai sentito più inopportuno di così in tutta la mia vita. Ho altro a cui pensare. L’atteggiamento di Megan mi preoccupa. Lo so. Lo so. Ma gli occhi sono attirati dalla rilegatura di un Moby Dick che non ho mai avuto il piacere di vedere nemmeno nelle aste online più prestigiose a cui abbia partecipato sotto falso nome e senza la minima possibilità di potermi aggiudicare nulla oltre la cospicua quota d’iscrizione. Le lettere nel titolo sono intarsiate in avorio e sto per svenire. In. Avorio. Ho perso contatto con la terra sotto i piedi. Mi faccio scivolare il bordo delle maniche a coprire le mani e, con estrema delicatezza, estraggo il libro dallo scaffale. Non intendo deturparlo al tocco della mia pelle per cui, quando lo appoggio sulla poltrona, vi scorro sopra le dita tenendole ben nascoste sotto il tessuto della felpa. È ciò di più bello su cui i miei occhi si siano mai posati. Oltre Megan, ovviamente. Apro la copertina e la prima pagina indica che è una stampa del 1930. Mi tremano le labbra. Chiunque abbia inventato il detto “i soldi non fanno la felicità” non ha capito un cazzo della vita. E di sicuro non era un collezionista. Richiudo il libro con la stessa delicatezza con la quale l’ho aperto e, allo stesso modo, lo ripongo al suo posto. Scandaglio gli scaffali alla ricerca di altre gemme e, pochi minuti dopo, mi ritrovo seduto per terra, a gambe incrociate, per osservare anche le file più in basso. Ho perso la cognizione del tempo ed evidentemente anche quella dello spazio. Per tutto quel lasso di tempo ho smesso di pensare a Megan e alla sua agitazione. Ho dimenticato anche la mia. Ma mi accorgo che è stato solo un riassestamento temporaneo, quando la voce di Megan mi riporta alla realtà. Scatto in piedi e mi volto verso di lei. Non riesco nemmeno a guardarla in viso, cazzo. Prendo la scatola che mi porge, è pesante. Vorrei vedere cosa nasconde, ma il cuore ha ripreso la sua corsa per battere ogni record di velocità. A ogni frenetico battito sento il tristemente famigliare macigno sul petto addensarsi e mozzarmi il respiro. Sto seriamente andando in panico perché Megan è una persona normale che non ha l’esigenza di starmi appiccicata ventiquattro ore su ventiquattro? Sì. Il mio cervello riesce ancora a ragionare e mi fa giungere alla conclusione che, probabilmente, sto enfatizzando un problema che non sussiste. Se avessi fatto qualcosa di sbagliato, non cercherebbe di coprire il suo nervosismo con il sorriso, giusto? Non avrebbe nemmeno senso nascondermi altre motivazioni di nervosismo dopo l'avermi detto, con sincerità, che è nervosa per sua nonna e la casa, no? Azzardo un’occhiata sul suo viso, da sotto le ciglia. Non ha gli occhi celati di tristezza, almeno. È un buon segno. Prendo un respiro profondo e le labbra si distendono in un sorriso più naturale, per quanto mi sa che quello con gli occhi tristi sono io.
Sì, posso insegnarti a ordinare a domicilio, se vuoi. Poggio la scatola sul divano e, prima di andare a sedermi di fronte a lei, prendo le sue due scatoline da sotto il cuscino della poltrona. Passo dall’ostentare una sicurezza da megalomane all’essere impaurito come un bambino timido. Il cambio pressoché repentino mi ha scatenato un tale mal di testa che anche il solo tenere la fronte aggrottata mi dà fitte lancinanti di dolore dritte nel cranio. Fisso la scatola e, per un istante, mi sembra di essere tornato piccolo, ai tempi in cui mio padre aveva l’abitudine di riempire un sacco di iuta con tanti piccoli regali. Diceva sempre di aver sconfitto il Krampus a braccio di ferro e averli vinti oppure che aveva dovuto aiutare Babbo Natale a prepararli. Era una cosa così stupida… Soprattutto perché a quattro anni avevo già scoperto che i regali li compravano lui e mia madre e li nascondevano nell’armadio. Odio il Natale. Sospiro di nuovo e mi accingo a scartare il suo pacco. Le sopracciglia raggiungono quasi l’attaccatura dei capelli da quanto in alto si sollevano. Non è sorprendente che mi abbia regalato dei libri, quanto il fatto che me ne abbia regalati di così belli e interessanti. È come se la sola vista di queste splendide copertine basti a dissipare il macigno d’angoscia che mi si è piazzato sul petto. Un po’ com’è stato col Moby Dick in avorio e il resto della sua libreria. Gli angoli delle labbra si sollevano in un ampio sorriso senza che possa evitarlo, sento le cicatrici tirare e le fossette pressarmi nelle guance. Non voglio evitarlo. Mi piace questa sensazione, anche se continuo a trovarla strana e non riesco proprio ad abituarmici. Non so nemmeno definirla.
Sono belli quasi quanto te. – esordisco, tirandomi di nuovo giù le maniche della felpa per sollevare la copertina del Volume I di “Nettuno, signore delle acque”.
Non vedo l’ora di leggerli. Grazie. – aggiungo poi, spostando appena di lato la scatola per avere lo spazio di fianco a me per protendermi verso di lei e rubarle un bacio. Veloce, tenero, senza malizia e pretese. Ho l’impressione che non abbia granché voglia di starmi appiccicata, per cui me ne torno subito dritto con le spalle contro lo schienale del divano. In confronto i miei regali sono stupidi, ma spero che le piacciano comunque. Senza volerlo, perché non potevo nemmeno immaginarlo, potrebbero tornargli entrambi utili più di quanto credessi. Glieli passo insieme, lasciando a lei la decisione su quale scartare per primo.
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© Esse | harrypotter.formucommunity.net Nella scatolina rettangolare: • Biglie Colleganti (x2). Un bigliettino spiega da un lato: All'apparenza sono semplici biglie colorate: in ogni confezione ne escono due dello stesso colore, sono incantate per collegare due persone o due luoghi istantaneamente entro 30km. Una volta sistemata una biglia in un luogo o affidata ad una persona, basta calpestare una per raggiungere l'altro capo. Non funzionano in zone antimaterializzanti, in quel caso si potrà apparire a metri dal luogo e/o dalla persona da raggiungere. Ottime per fuga. Un utilizzo per scatola. Mentre dall'altro, con un'altra grafia, c'è scritto: Queste potrebbero tornarti utili se volessi uscire senza chiedere il permesso. [Regolare acquisto qui]
Nella scatolina quadrata: • Stampante Portatile Bluetooth. Nella scatola ci sono anche otto foto di Draven o di panorami di Barcellona alle spalle, dietro ognuna delle quali c'è scritto un piccolo messaggio: - Giorno 1. Non mi ero mai reso conto che le città potessero avere odori diversi. (In foto: una via costellata di fiori sul marciapiede) - Giorno 2. Non ci sono ossa vere, ma è la cosa più figa che abbia mai visto. (In foto: facciata esterna di Casa Batllò) - Giorno 3. Questa è la sera in cui mi hai detto di no. (In foto: Draven con un finto broncio triste) - Giorno 4. Poco fa mi hai chiesto cosa stessi facendo e ti ho detto che pensavo a te. In realtà ero a cena, ma tanto ti penso sempre. (In foto: una tavola imbandita) - Giorno 5. Quando J mi ha portato allo stadio. (In foto: Camp Nou) - Giorno 6. Tu che mi aiuti per telefono in Erbologia è stata la cosa più divertente di questa vacanza. (In foto: la vista della città dalla camera) - Giorno 7. Mi fanno male gli occhi con tutti questi colori. (In foto: scorcio del Parc Güell) - Giorno 8. Oggi ti rivedo. (In foto: aeroporto di El Prat)
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