Riverbero, Privata.

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view post Posted on 7/3/2023, 23:41
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Ocean eyes.

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I tried to loosen off your hold but you stayed and nothing made you fall.

Ho passato la maggior parte dei giorni rinchiusa in camera ad eccezione della piccola avventura avvenuta allo Zoo di Londra. Domani torno ad Hogwarts.
Fuori fa freddo. L’inverno continua ad imbrattare questa città morta ed io rimango a guardare. Il sole al tramonto sgocciola dalle grondaie e aggiunge ritmo a quel quartiere. La noia è sempre presente e non riesco a distrarmi se non per qualche minuto.
Sono sdraiata sul letto, una gamba dondola fuori dal materasso e il piede a terra struscia sul pavimento: aspetto che lui torni.
I bagagli sono pronti accanto all’armadio, in perfetto ordine. Guardo il cellulare in alto davanti a me; lo tengo ben saldo con la mano mentre con l’indice e il medio schiaccio i tasti laterali ad intermittenza. Accendo e spengo. Lumos, Nox. Ancora: accendo e spengo. Non c’è campo sull'aereo, mi dico. Campo, ripeto. Ho imparato quella parola e tante altre: emoticons per esempio, messaggi vocali, videochiamate…
Quelle poche ore passate insieme a Draven, prima della sua partenza, sono servite in qualche modo a mettermi in testa le funzioni base di quell’aggeggio babbano. Per la musica è molto utile, per il resto continuo a preferire gufi, giornali e specchi.
Tolgo la cuffietta e mi rendo conto del silenzio che permea la casa. Sono stati giorni duri e ho provato con tutta me stessa ad assecondare mia nonna. Devo essermela cavata bene, ho evitato un crollo emotivo e mi sono comportata da perfetta nipote proprio come voleva.
Sì, siamo arrivati a questo punto. Una continua scena teatrale che si ripete, ma il tempo passa e tutto peggiora. L’alcol non la sta aiutando e di lei non vi è rimasto che una sagoma vuota.
Stiamo affrontando un’altra fase del dolore, mi ripeto ogni volta. Quando finisce?
Mia nonna è presente ma non ascolta; fa ciò che deve, l’essenziale che le permette di gestire un’altra bocca da sfamare. È triste ma senza di lei cos’altro mi rimane? Ho desiderato a lungo vederla morta ma è l’unico legame che ho con la mia famiglia, l’unico che resta.
Il nostro rapporto è quello di due estranei che pretendono rispetto l’uno dall’altro, esigono risposte e le ottengono a qualunque costo.
C’è un po’ di lei in me.

«Oh, Liz...» la signora Miller si protrae in avanti e bacia Elizabeth. «Non so davvero come ringraziarti!» Le rivolge un sorriso colmo di gratitudine.
Non so quale razza di favore le abbia fatto mia nonna ma sembra contenta. Poi, volge lo sguardo e mi fissa: «Lei è tua nipote Megan, giusto?»
Non so quale reazione si aspetti da me ma le rivolgo un mezzo cenno e un sorriso di circostanza.
«Incredibile» continua, ma la fermo indovinando esattamente le parole che sta per pronunciare: «Sei tale e quale a tua madre Eloise».
Il tono rimane annoiato, evito lo sguardo di Elizabeth che sento proiettato verso di me carico di impazienza. Il tuo comportamento è inadeguato, non sfidarmi. Assurdo! Posso sentirla.
«Beh» sorride la donna, è sorpresa ma non demorde. «Immagino che questi anni non siano stati facili ma continuate a darvi forza a vicenda, come una famiglia».
Mi irrigidisco e freno una risata carica di sdegno. È evidente che mia nonna non dice tutta la verità e allora mi sollevo.
«Sì, certo» questa volta guardo Elizabeth con assoluta freddezza e non mi sfugge il piglio di dolore che le fa tremare le ciglia. «Una famiglia» dico a voce bassa, poi volto loro le spalle.
Quella donna è una giornalista della Gazzetta del Profeta. A confermarlo un biglietto da visita lasciato sul tavolino in salotto.


Chiudo gli occhi frenando quel ricordo e ancora non capisco perché mia nonna stia fingendo una vita che non ha, un rapporto che non abbiamo. Giacché vivo in questa stanza da giorni e non la vedo da altrettanti, se non di sfuggita. Mi sembra di camminare su un filo teso. Devo stare attenta a tenermi in equilibrio: perenne angoscia. Ho sempre la sensazione che accada qualcosa attorno a me e questo è estenuante. Perché la Sig.ra Miller era in casa? E che rapporti ha con mia nonna? Potrebbe essere una semplice amica, ma io non mi fido di nessuno.
Nei giorni scorsi, così, ho vagato in casa senza farmi sentire né vedere, facendo ritorno nella mia camera ogni volta. La vecchia stanza di Eloise.
È spoglia, del tutto impersonale; sembra essere ferma al tempo in cui mia madre ha abbandonato queste mura. Mi chiedo se anche lei si sentisse in trappola allora.
Le pareti blu e i mobili marroni scuro prendono spazio, la flebile luce da fuori ne evidenzia alcuni dettagli. Ci sono i libri a dare un tocco di colore un po’ ovunque: scrittoio, comodini e pavimento; persino sul davanzale della finestra aggettante alle spalle del letto. Una grande lampada di sale è accesa al lato sinistro della stanza, vicino alla scrivania, e illumina quell’angolo.
Sento la porta sbattere e finalmente capisco che Elizabeth è andata via. Qualche giorno fa l’ho sentita parlare di una serata al Royal Opera House a Covent Garden, un concerto di musica classica.
Un lungo e profondo respiro e il petto si svuota. Ora il silenzio è meno pesante e l’attesa meno attesa. Avvolta nel maglione, gambe nude e calzini fino al polpaccio, mi raggomitolo e chiudo gli occhi. Ancora poche ore.

Il suono di una notifica mi sveglia. Tremo e sbarro gli occhi alzandomi di scatto. Afferro il cellulare, ho solo dieci minuti e mi rendo conto di avere giusto il tempo di prepararmi al volo. Infilo il pantalone della tuta e stringo il laccio attorno alla vita. Metto la felpa e sistemo la cipolla disordinata stringendo l’elastico; alcune ciocche di capelli sfuggono dalla presa e si posano sul mio viso. Porto le mani sul volto e stiro la pelle cercando di scrollarmi di dosso il torpore portato dal sonno.
Lui sarà qui a breve.
Potresti venire da me, mi torna in mente quel messaggio inviato di getto. Inspiro ed espiro. Sono nel panico e penso che non sia stata la scelta più giusta e che avremmo potuto incontrarci in un pub al centro della città. Deglutisco e faccio uno sforzo, assecondando l’idea di poter trascorrere qualche ora insieme in un posto più intimo ma l’ansia torna puntuale. Inspiro ed espiro, ancora. Devo calmarmi.
Ce la faccio.
Scendo i gradini e raggiungo il piano terra. Il tempo di bere un goccio d’acqua dal bicchiere e il campanello suona. Mi irrigidisco, la mano trema; mollo la presa e lascio scorrere il vetro sul bancone.
Avanzo nell’atrio arrivando all’entrata. Un respiro soltanto, la mano si allunga verso la maniglia e apro la porta. Draven è davanti a me. Le pupille si dilatano e il rossore colora le mie guance di un rosa acceso. Mi sento avvampare e cedo ad un inchino, come una ballerina che ringrazia il suo pubblico dopo un’esibizione.
«Bentornato» torno dritta e rido, poi mi spingo verso di lui e lo abbraccio. «Ero stanca di usare uno stupido cellulare.» Mi sposto leggermente indietro, lo guardo e poso un bacio sulle sue labbra. La moto di Eliana accelera e sfreccia via, lo sguardo si spinge verso la strada, al di là del cancello: non ho avuto modo di salutarla e questo mi da sollievo.
«Vieni» abbasso le palpebre e mi allontano invitandolo ad entrare. Non so bene come mi sento in questo momento ma è strano trascinarlo in questa casa. Mi chiedo quali sensazioni avverta: si sente soffocare? Ha bisogno d’aria?
Forse era meglio un pub.
Poi, smetto di pensarci; ora che è qui e la leggerezza mi accarezza come il vento d’estate. Ascolto il battito del cuore, nel suo ritmo le sensazioni sollevano ogni mia incertezza: vorrei sentirmi sempre così, non sopportare il peso che porto dentro da sola. Torno a guardarlo e aspetto che mi affianchi. Non ho smesso di sorridere e quell’attimo di felicità mi avvolge. Sto bene.
«Non so nemmeno da dove cominciare» ammetto e porto le mani lungo il ventre. Dondolo come una bambina e stringo le dita tra loro.
«Non sono così brava ad accogliere gli ospiti ma saprò rimediare» continuo varcando la cucina.
«Possiamo mangiare, bere, guardare qualcosa, ascoltare musica o semplicemente...» Respiro finalmente, afferro il bicchiere e poggio la schiena contro il bancone.
«Beh, sì, possiamo semplicemente parlare» lo guardo e bevo un sorso d’acqua, mi fa strano averlo qui dopo giorni passati a raccontarci dietro ad uno schermo. Mi è mancato e lui lo sa. È difficile per me accogliere quella sensazione, faccio fatica a trattenerla perché ne ho costantemente il terrore; tuttavia, non voglio che smetta di farmi sentire così. Draven non sa ciò che ho dovuto passare in questi giorni e non voglio che lo sappia. Lavo via ogni preoccupazione, lascio che il breve piglio d’incertezza abbandoni il mio viso sperando che non se ne accorga.
C’è una cosa che devo dirgli ma non sono sicura di volerlo fare. Non voglio rovinare niente.
Poggio il bicchiere sul ripiano e stringo le mani sul legno.
«Beh? Com’è la Spagna?» chiedo, infine, riempiendo quegli esigui istanti di silenzio.



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view post Posted on 9/3/2023, 09:21
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L’acqua fredda mi scorre lungo il collo e giù per la schiena, i brividi mi scuotono le spalle. Qualche goccia sbatte contro il vetro della doccia, ma è sul suono con cui fluisce impavida e atterra sulla piastra in ceramica che mi concentro. Mi estranea da qualsiasi altro rumore. Attutisce il mondo esterno. Mi consente di ascoltare i miei pensieri e provare a darvi una forma meno caotica nel breve tempo che mi separa dal ricongiungermi a Megan. Non la vedo da otto giorni, o meglio, non l’ho vista di persona. So che non è poi così tanto tempo, ma dopo aver passato gli ultimi mesi sempre vicino a lei, o con la possibilità di incontrarla almeno di sfuggita, mi è sembrato un’eternità. Nella famiglia di Eliana sono tutti babbani, per cui, prima di partire per andare da loro, ho regalato a Megan un cellulare per poterla sentire sempre e senza incappare nel rischio di contravvenire lo statuto di segretezza della magia. Si è rivelata un’idea geniale. Nonostante non abbia mai assecondato nessuno dei miei tentativi di sexting e videochiamate a sfondo erotico, perlomeno mi ha permesso di sentirla e vederla praticamente ogni minuto di ogni giorno. E dal momento in cui l’ho lasciata a casa sua, la vigilia di Natale, ho passato tutti quei minuti di tutti quei giorni a contare il tempo che mancava per tornare indietro.
Cazzo. Sono così ossessionato da lei che, ormai, nemmeno ci provo più a negarlo.
Tiro indietro la testa e chiudo gli occhi. Lascio che l’acqua mi scorra sul viso. Il suono con cui atterra cambia, mi rende le orecchie più ovattate, ma non abbastanza da attutire la fidanzata di mia madre che mi grida da fuori la porta di darmi una mossa.
Non vedo l’ora di rivedere Megan, ma non ho resistito alla tentazione di perdere quindici minuti in più del previsto per finire tutta l’acqua calda col solo gusto di indispettire le due donne di casa.
Ci tengono spesso a ricordarmi che sono solo un bambino, per cui dare fastidio è mio dovere, no? Ed è giusto che io ricordi loro che è un bene che viva altrove per la maggior del tempo, altrimenti gli renderei la vita un Inferno in Terra.
Chiudo il getto d’acqua, felice di averle fatto raggiungere la temperatura della neve. Mi asciugo velocemente, friziono i capelli con un asciugamano ed esco dal bagno con indosso solo i boxer. Mi ritrovo Eliana a un metro di distanza e la vedo sussultare, come colta di sorpresa. Prima o poi dovevo uscire dal bagno e mi ha pure intimato di farlo alla svelta, di che cazzo si sorprende?! Si gira di scatto portandosi le mani in viso e si allontana da me praticamente alla cieca.
Spero vada a sbattere violentemente contro il muro verso cui è diretta.

Pudore, cazzo! PUDORE! DRAVEN! - grida, a una frequenza che rischia di farmi sanguinare le orecchie.
Vorrei ricordarle il modo in cui l’ho conosciuta, mentre teneva mia madre a cosce aperte su di lei, ma è un’immagine che sto cercando di rimuovere definitivamente dall’archivio nel mio cervello, per cui mi astengo dal ribattere. Piuttosto, con occhi sgranati e mascella tesa sul punto di spaccarmi i denti pur di tenere la bocca chiusa, mi volto a cercare mia madre finché non incontro il suo sguardo.

Usa un accappatoio come tutte le persone normali. – mi dice, sollevando le spalle con nonchalance, come se non avessi vissuto sedici anni con l’abitudine di tenermi addosso il freddo dell’umidità ogni volta che faccio una cazzo di doccia.
Sbuffo e alzo gli occhi al cielo, ma di nuovo mi astengo dal commentare. Eliana è il mio passaggio per andare da Megan, quindi devo trattenermi dal fare incazzare lei o mia madre più del solito. Per quanto, dovrebbero sentirsi soddisfatte che mi sia comportato da perfetto figlio diligente nei giorni passati; anche se, gran parte del merito va al fratello di Eliana che mi ha tenuto lontano da loro per quasi tutto il tempo. Jorge, detto “J” perché non sopporta il modo in cui gli anglofoni storpiano la pronuncia del suo nome, cosa che me lo ha fatto subito andare a genio, visto che chiunque fa lo stesso col mio. Mi ha anche aiutato a scegliere un souvenir per Megan.
Mi vesto con l’unica tuta pulita che mi è rimasta di ritorno dal viaggio. Incastro in una tasca della giacca i due regali per la mia splendida ragazza e nell’altra il cellulare. Sono tentato di non portare il tabacco, visto che Megan non ne sopporta nemmeno l’odore, ma penso che se devo stare in astinenza averlo comunque con me mi darebbe sollievo.
Raggiungo Eliana fuori. Dopo il suo sbotto d’isteria è andata a scaldare la moto senza dire un’altra parola.

Fai guidare me?

Non ci penso nemmeno.
Le labbra si curvano in un ghigno, mentre mi accomodo alle sue spalle. So che riuscirò a convincerla, prima o poi.
Scrivo a Megan che sto arrivando. Dieci minuti dopo ci separano solo pochi metri.
Eliana riparte non appena supero il cancello dell’abitazione. Con una mano scuoto i capelli appiattiti dal casco, mentre con l’altra suono il campanello, come da indicazioni di Megan. Pochi istanti dopo me la ritrovo davanti. Il vento gelido che mi ha accompagnato fin qui sembra arrestarsi di colpo. L’intero mondo sembra fermarsi. No… Si riassesta con lei di nuovo vicina a me.
Dio, se esisti, raccogli i pezzi dissestati della mia dignità quando sarò morto.
Vedo le sue guance tingersi gradualmente di cremisi e sento le cicatrici intorno alle mie labbra tendersi per riflesso: mi ritrovo con un sorriso ampio da orecchio a orecchio ancora prima che uno dei due dica qualcosa.
Ci provo a parlare, ma ho la lingua impastata e il cuore in gola, per cui mi limito a ricambiare il suo abbraccio in silenzio. Desidero duri in eterno, ma si stacca da me troppo presto.
Mi bacia, improvvisamente ritrovo il controllo della mia lingua. Desidero duri in eterno almeno questo, ma si distanzia subito.
Qualcosa non va.
Mi ritrovo a protendermi verso di lei d’istinto e demordo immediatamente, vedendola voltarsi. Mi costringo a mollare la stretta delle braccia intorno alla sua vita solo per consentirle di camminare. Non ho intenzione di restarle più distante di cinque centimetri, ma non sono ancora nemmeno entrato in casa che già prende spazio.
È nervosa?
Acciglio lo sguardo, fisso su di lei al punto da non dare degna attenzione all’arredamento che non ha niente da invidiare a quello di un castello.
Schiudo le labbra in procinto di qualcosa da dire, che sia anche solo un patetico “grazie dell’invito”. Ogni tentativo, però, mi si ferma in gola e affianca il cuore, che ancora mi risuona dentro come un tamburo, quando inizia a parlare a raffica.
Sì, è decisamente nervosa.
Perché è nervosa?
Immagino sia strano avermi in giro per casa sua e, in un certo senso, la conferma mi arriva dal suo farfugliare sull’ospitalità. Ma non sembra totalmente a suo agio e ciò condiziona immediatamente il mio umore.
Possiamo mangiare e bere ciò che vuole, posso darle i contatti del mio Netflix seduta stante per vedere qualsiasi cosa, farle conoscere la musica che ascolto visto che ha una t-shirt dei Metallica e… parlare di ciò che vuole, anche se non ho fatto altro per otto giorni. È l’unico essere umano il cui tono di voce non pizzica i nervi sotto la mia pelle, ascoltarla è addirittura un piacere. Ogni suo desiderio è un ordine. Quindi, cos’è che la agita?
La seguo in una cucina che, per quanto sia distratto dalle mie riflessioni e dal tenere gli occhi su Megan, mi accorgo trasuda opulenza da ogni angolo.
È questo che la mette a disagio?
Il modo in cui sorride e ricambia i miei sguardi, con le iridi accese di un entusiasmo che non comprendo, mi confonde. Mi riempie il cuore. Al contempo, mi indispettisce il fatto che senta l’esigenza di colmare i silenzi.
Mi fermo davanti a lei per un breve istante, quando si appoggia di schiena al ripiano della cucina. Ricambio il suo sguardo, anche se non ho la minima idea di cosa vortichi nel mio… Frustrazione? Nervosismo? Delusione? So solo che, nonostante mi sia abituato alla sua presenza costante, non ho ancora capito come evitare di andare in tilt ogni cazzo di volta che la guardo negli occhi.
Resisto poco e chino la testa.
In compenso, riesco a muovermi e ad avanzare di qualche passo verso di lei.
Porca puttana.
Il suo nervosismo ha reso nervoso anche me.
Ho di nuovo il cuore in gola e batte a un ritmo doloroso.
Mi costringo a rialzare lo sguardo, per un solo brevissimo istante, il tempo necessario per consentirle di processare che sono più vicino. Poi, annullo totalmente le distanze cingendola per le spalle e accostandola al mio corpo. Le mie braccia la stringono con una tale sicurezza che sorprende anche me. E il sollievo è immediato. Mi sfugge un sospiro mentre affondo il viso nell’incavo del suo collo. Una ciocca ribelle mi accarezza una guancia e il profumo dei suoi capelli mi travolge.
Che io sia colpito da una fattura pungente se si scosta di nuovo da me.

Grazie del bentornato. Posso insegnarti a ordinare cibo a domicilio dal cellulare e come vedere tutti i film che vuoi, quando vuoi, senza dipendere dai canali in televisione. Potresti convincerti ad ascoltare i Metallica, visto che hai una t-shirt di Ride the lightning e puoi parlarmi di tutto ciò che ti passa per la testa. E possiamo restare così finché non ci si addormentano le braccia. Tutto quello che vuoi. Basta che stai bene. – dico a voce bassa, netta e definita, soffiando le parole con le labbra a un filo dalla sua pelle.
Io ho i miei tempi lenti di reazione e lei ha i suoi. Per cui, le concedo qualche istante, prima di sciogliere l’abbraccio, pur restando accostato al suo corpo. Le mani scivolano a incorniciarle il profilo del viso e poso la fronte sulla sua.

Stai bene? – aggiungo, azzardando un rapido sguardo verso i suoi occhi nel vano tentativo di riuscire a interpretare cosa le frulli nella testa.
Finché non la fisso troppo riesco a non diventare cerebroleso, ma non resisto alla tentazione per il semplice fatto che ho una dipendenza che mi impone di perdermi in quel blu cobalto e affogare. Ma riporto presto l’attenzione altrove, perché ho bisogno di lucidità mentale per capire cos’ha. È strana e voglio che mi spieghi da cosa dipende. Quindi, cerco di concentrami… Ecco, sulle sue labbra va bene. Tenendo a freno l’impulso di baciarla e solo per l’attesa di una risposta.



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Lo guardo e lui fa lo stesso. In quel breve lasso di tempo tutto si ferma e io rimango in attesa. Non muovo un muscolo, le mani ancorate al bancone tengono salde il legno come volessero spezzarlo e i polpastrelli, pallidi, frenano il sangue sulla punta delle dita. Penso di aver detto qualcosa di sbagliato; Draven non risponde.
Il cuore scalpita nel petto, mi sembra di sentire le mura della stanza tremare ad ogni battito.
I suoni appaiono lontani: l’orologio non parla della sua ora, le fiamme scoppiettano silenziose nella stufa accesa e il lento gocciolare dell’acqua dal rubinetto batte sordo sull’acciaio.
Quando lui avanza riprendo fiato. Sbatto le ciglia nel mentre il suo sguardo si fa basso e in pochi passi mi raggiunge. Respiro ancora e il suo odore mi travolge. Mi pare di avvertirne per la prima volta la fragranza ora che non ho più fretta di indossare le vesti di una maschera fatta di circostanze.
Non dico niente e nel momento in cui incrocio le sue iridi smeraldine da quella esigua distanza lui rifugge, nascondendosi nell’incavo del mio collo. È un abbraccio tenero che lascia sciogliere la tensione e porta a galla piccoli brividi che mi percuotono freneticamente. Allora le dita si staccano dal bancone, apro e chiudo i pugni; lentamente porto le mani sui suoi fianchi fino a salire sulla schiena. Stringo, le palpebre si riposano, stanche; e il respiro si cheta nel petto. Ancora qualche minuto, per favore…
Riapro gli occhi solo quando lo sento parlare e un sorriso mi addolcisce l’espressione.
Mi lascio abbracciare da quel momento, da lui. Lo tengo a me anche quando si scosta per accarezzarmi una guancia e posa la fronte sulla mia. Le mani si legano dietro alla sua schiena senza dargli una via di fuga: non voglio che si allontani.

«Stai bene?» mi chiede. Schiudo le labbra e l’esitazione frena il piccolo attimo che precede la risposta. Non voglio mentirgli ma ci sono cose che non riesco a dire.
«Sì, sto bene» rispondo con calma ma la voce trema.
Mi sposto leggermente indietro con le spalle aumentando le distanze, senza distogliere lo sguardo e sondando con cura il verde delle sue iridi chiare fino a quando me lo permette.
«Sono stati giorni difficili», le palpebre sbattono più lente e un sospiro svuota il petto. Gli occhi si tingono di un blu più profondo e non mi sorprende la tristezza che avvolge il corpo e scava nella pelle; l’attraversa, lasciva, fino a farmi tremare il cuore.
Lo so, non ho mai smesso di camminare e osservare un inverno perenne; e allora: a cosa serve far finta di niente?
Non voglio che si preoccupi.
Cerco di ricompormi, mi nascondo ai suoi occhi pur sapendo che sa leggere perfettamente ogni mia espressione. Il modo in cui Draven mi guarda lascia cadere a terra qualsiasi armatura e non vi è struttura più resistente che possa vincere in quel duello.
Fisso il vuoto ancora per un attimo. Il controllo, quando sono accanto a lui, sfugge come una saponetta tra le mani ed è faticoso lottare per trattenerlo; eppure ci provo.
Insisto.
Mi nascondo.
Non riesco a fare a meno di farlo e mi dispiace. Il riflesso delle mie esperienze segna la pelle con cicatrici invisibili e impossibili da rimuovere; lui può capire le mie espressioni e intuire se qualcosa non va, ma almeno quelle non può vederle ed è da loro che cerco di proteggerlo.
«Sai che Elizabeth non è una tipa facile con cui convivere» mostro un mezzo sorriso. Potrei elencare tutte le cose che mia nonna ha fatto negli anni per rendermi il tempo di permanenza a Kensington un Inferno, ma lascio i dettagli per me così come ero stata brava a fare da dietro un cellulare.
«Sono solo un po’ nervosa e odio questa casa, tutto qua.»
Sciolgo la presa: la mano sinistra lungo il fianco mentre la destra cerca il bicchiere. Un ultimo sorso d’acqua e lo lascio scorrere via sul ripiano.
Tutto qua?
Non sto del tutto mentendo, in fondo.



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view post Posted on 10/3/2023, 13:50
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In piena onestà, non so se indicare come warning che il seguente post è a tratti un po' inquietante, ma è proprio quello che sto facendo e.e Quindi, niente. I più sensibili (?) sono avvisati.



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Se l’avvicinassi a me più di così sono sicuro che si spaventerebbe nel sentire quanto forte mi batta il cuore in questo momento. A essere completamente onesto, ne sono un po’ preoccupato io stesso. Sento il muscolo pompare sangue a una velocità inaudita; pressa contro la gabbia toracica, minaccia di strapparmi il petto e lasciarmi agonizzante, ad annaspare aria nel vano tentativo di restare in vita.
Quando ero piccolo e gli attacchi di panico mi spaventavano al punto da bloccarmi il respiro, dicevo a mia madre che sentivo il cuore farmi male. Avevo paura di morire. Pressavo le dita sul petto, come se quello stupido gesto potesse tornarmi utile a contenere il dolore, a impedire al cuore di scappare via strappandomi la vita a cui mi appigliavo con tanto ardore. E mia madre, ogni volta, mi ripeteva mesta: “Il cuore non fa mai male, è solo un’impressione”. Crescendo, ho studiato e capito che, in un certo senso, aveva ragione. I fattori che indicano problemi cardiaci rischiosi, come un classico infarto, sono altri.
Solitamente, il cuore di per sé non fa male.
Il mio fa sempre fottutamente male. Stavolta non è un’eccezione.
Sento adrenalina e dopamina pulsarmi nel cervello, come tanti piccoli batuffoli di cotone che dal cranio mi rotolano sotto pelle, sfiorando le terminazioni nervose, mentre il sangue si perde nelle vene, incapace di assecondare il ritmo frenetico del cuore.
Anche se continuo a odiare gli attacchi di panico, non sono più violenti come una volta; quando si limitano alla sola tachicardia sono gestibili. Ho addirittura finito con l’assuefarmi a questo tipo di dolore.
Avrò compiuto venti passi all’interno di questa casa, quasi sento ancora il rombo della moto di Eliana allontanarsi in strada, non mi sono nemmeno tolto il giubbino, eppure già mi trovo a combattere contro un mio presumibile attacco cardiaco e una crisi emotiva di Megan.
La parte peggiore di me non potrebbe sentirsi più appagata da tutto ciò.
Dolore, rabbia, frustrazione… So gestirle. Per quanto accorgermi del nervosismo della mia splendida ragazza mi abbia messo in allerta e i suoi occhi, come di consueto, mi abbiano mandato in tilt per un lungo momento, non esito a voler indagare le cause del suo atteggiamento. Tutto ciò che di negativo l’ha segnata nel corso della vita è ciò che mi ha attirato a lei. Mi è bastato uno sguardo per leggerle negli occhi un tormento incommensurabile, un solo cazzo di sguardo per farmi andare totalmente fuori di testa per lei. Ero poco più che un ragazzino scorbutico, all'epoca; non sapevo identificare ciò che provavo, quella scarica elettrica che sentivo nelle membra ogni volta che la guardavo, l'esigenza di sentirle dare voce ai suoi incubi perché convinto di essere l'unico in grado di farla sognare. Non sapevo come o cosa farne di tutto quello che provavo e di tutto quello che volevo darle. C'è voluto un po' per arrivare a capire.
Sono abbastanza sicuro che qualsiasi direzione prenderà questa relazione, non sarò mai in grado di amare nessun altro.
Nutrirmi dei suoi traumi è ciò che mi tiene in vita, ciò che mi eccita. Voglio sentire sulla lingua il sapore del suo dolore, leccando vie le lacrime dalle sue guance. Aspetto pazientemente il giorno in cui succederà e quel giorno avrò adempiuto alla promessa di renderla felice, libera dal peso che le ha gravato sulle spalle per tutto questo tempo. Questo è il senso di ogni cosa. Il principio e l'arrivo.
Ma non è un obiettivo facile. Il percorso per raggiungere una meta così ambiziosa è lungo e tortuoso e intendo godermi ogni singolo secondo del viaggio. Per questo non insisto mai per spronarla ad aprirsi con me. A volte le risulta più facile esprimersi con dovizia di particolari, dipende molto dall’argomento in questione. Ma quando lo fa in piccole dosi… è una cosa che adoro, cazzo. Me ne basta poco, un po' per volta, per sentirmi appagato e crogiolarmi nella consapevolezza che io sono la cosa migliore che le sia mai capitata nella vita.
È stato il dolore a unirci. Fare l’amore con lei è stato illuminante da questo punto di vista, nonostante all’epoca fossi l’unico dei due a non considerarlo sesso occasionale e l’esperienza non si sia ripetuta più da allora, tristemente. Ha il potere di farmi male perché la mia sopravvivenza dipende da lei. Ogni incognita su di lei, su di noi è una tortura dal retrogusto così melenso da sfociare nel piacere dei sensi. E anche se rischio l’arresto cardiaco ogni volta che percepisco esitazione in lei, come in questo momento, l’eccitazione mi annebbia la vista.
L’unica cosa che mi impedisce di pressarle l’erezione contro l’interno coscia è il fatto che abbia nominato sua nonna. Sarebbe quantomeno inopportuno.
Mi ha parlato raramente del suo rapporto con lei, ma è stato facile intuire che la vecchia megera le rende difficile l’esistenza tra queste quattro mura.
Mi chiedo perché mi abbia invitato qui con tutto quello che mi sembra l’intento di restarci, se odia questa casa. E mi indispettisco realizzando che nei giorni passati in Spagna non mi sono minimamente accorto del suo disagio. Sentirci e vederci tramite cellulare ha placato il mio bisogno di stare con lei, ma pare che la limitazione dello schermo mi abbia impedito di percepirla concretamente.
La situazione rischia di prendere una brutta piega così.
Resto in silenzio per tutto il tempo, le do modo di snocciolare i suoi pensieri e le sue emozioni. Attendo, per essere sicuro che non abbia altro da aggiungere.
Ho insistito così tanto con lei per farmi concedere una possibilità. Le ho promesso che con me sarebbe stata sempre felice, per cui non permetterò che la vecchia stronza interferisca e nel tempo che avrò a disposizione dentro questa casa farò in modo di impregnare le pareti marce di qualcosa che meriti di restare impresso e ricordato negli anni a venire.
Le accarezzo le guance un’ultima volta e sostituisco, poi, al tocco delle mie dita quello delle mie labbra. Poso una scia di baci su tutto il suo viso, schioccando sonoramente le labbra in maniera giocosa, con l’intento di farla sorridere. Mi basterebbe anche solo vederla arricciare il naso in quella sua smorfia tenera che ho il privilegio di scatenare ogni volta che suscito in lei imbarazzo e divertimento.

Cerchiamo un posto più comodo in questa casa degli orrori. Puoi portare il tuo amico bicchiere, se vuoi. – esordisco, distendendo le labbra in un sorrisino mentre alludo al fatto che per il nervosismo si sia attaccata a quel bicchiere d’acqua come fosse un whisky riparatore.

Ho un paio di cose da darti.
Oltre alla mia totale devozione, vorrei aggiungere. Ma con l’esternazione dei sentimenti devo andarci piano. Fin dall’inizio, con Megan, è stato come camminare su una lastra di ghiaccio: una parola sbagliata e finirei congelato nel lago della mia disperazione. Scapperebbe come un animale ferito e farebbe in modo di coprire le sue tracce per non essere più ripresa.
La prendo per mano e l’attiro verso il mio fianco per spronarla a camminare. Mi dirigo verso l’ingresso a passo spedito, ma non ho la minima idea di dove andare, per cui lascio che sia lei a guidarmi tra i meandri dell’abitazione.



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I tried to loosen off your hold but you stayed and nothing made you fall.

Una lunga scia di baci si posa sul mio viso. La carezza tenera ne anticipa il tocco giocoso, il cui schioccare delle labbra mi fa ridere di gusto. Mi ritraggo, cercando di divincolarmi da quel carico di imbarazzo: mi sposto da un lato all’altro, porto il mento in alto e poi in basso ma mi arrendo l’attimo seguente, serrando gli occhi e arricciando il naso. Le sue labbra mi provocano piacere e i brividi non cessano di danzare lungo la pelle, solleticando il collo e infiammando il ventre. Schiaccio la schiena lungo il bancone e poggio le mani sul suo petto. È il suo cuore quello che sento battere forte sotto il palmo della mano e mi accorgo che la sicurezza che mostra non è che un castello di carte che potrei soffiare via se solo lo volessi.
Quando mi chiede di muoverci da lì lo assecondo. Non so dove voglia trascinarmi in quella casa con tale convinzione, pur non conoscendone gli angoli, ma lo seguo.
«Ho un paio di cose da darti» mi dice.
«Cosa?» rispondo con genuina curiosità, poi avanzo nell’ampio salone nel centro esatto in cui la scala si dirama ai lati del perimetro.
Supero la soglia, due colonne anticipano l’entrata e al centro della scena il grande camino acceso fa da protagonista e scalda lo spazio dinanzi a un tavolino basso circondato dal divano e da due poltrone poste in semicerchio. Ai lati opposti un pianoforte a coda e due grandi librerie colme di libri perfettamente in ordine. Questa casa vive di ricordi e di scene dettate dalla circostanza, persino i fiori posizionati in ogni angolo dipingono una vacua allegria.
«Se mi dai la giacca salgo al volo e la poso in camera» dico, mentre allungo la mano e attendo che lui mi assecondi. Ho anche io il suo regalo di Natale, non voglio rovinargli la sorpresa.
«Aspettami qui… Fai quello che vuoi, conosci quell’aggeggio meglio di me» sorrido indicando poi la televisione con un piccolo cenno laterale della testa: è su un mobile posto in diagonale rispetto alle sedute, poco distante dalle fiamme accese.
«Torno subito» aggiungo infine lasciandogli la mano.

Esco da lì e salgo i gradini della scalinata, poco dopo mi ritrovo in camera. Varco la soglia e chiudo la porta alle spalle. Mi avvicino all’armadio, lo apro e frugo tra la catasta di panni alla ricerca del regalo.
Deve essere qui mi dico, mentre dopo esigui istanti afferro i lembi della scatola. Cerco di tirarla via dal fondo della struttura e mi ci vuole un po’ prima di toglierla da un pezzo di scheggia appuntita che ne rovina inevitabilmente la confezione. Impreco e la poggio a terra prima che mi cada e finisca di rovinarla. Mi sento del tutto incapace di gestire ciò che mi circonda in questo momento: ce la posso fare, è quello che mi ripeto, ha funzionato prima e funzionerà anche adesso.
Le dita stanno tremando e me ne accorgo quando noto il mio riflesso allo specchio. Cerco di chiuderle in un pugno per attutire il tremolio ma quest’ultimo si espande sulle braccia e mi costringe a serrare gli occhi e a riempire i polmoni d’aria.
Provo a regolare il respiro, le palpebre si schiudono l’attimo seguente e la consapevolezza adesso mi guarda in faccia con più chiarezza: ha gli occhi blu, i capelli raccolti da uno chignon, un viso costellato da miriadi di lentiggini; il fisico asciutto, forse troppo, e sotto lo strato di tessuto cicatrici invisibili. Si accarezza il volto riordinando qualche ciocca dietro le orecchie, mentre il cuore batte forte nelle tempie e lo sguardo si sposta sulle linee sinuose del corpo che ancora sta imparando a conoscere.
Non mi sono mai osservata così, non mi sono mai chiesta se ci fosse qualcosa che non andasse in me. Ma ora… Ora lo sto facendo.
Ho provato ad assecondare i miei impulsi ma l’ho sempre fatto nel silenzio, vergognandomi del piacere che provavo. Draven, invece, mi sembra così sicuro e me lo ha dimostrato tante volte.
Mi sento una stupida.
La mente torna improvvisamente a quella sera dove l’alcol aveva alleggerito ogni cosa, dove spogliarmi e lasciarmi andare sembrava non avesse alcuna importanza. Eppure, adesso che le sensazioni sono talmente forti da lasciarmi in affanno non penso ad altro che a quel momento. Non ci siamo più sfiorati in quel modo e lo so che potrebbe succedere oggi, nel silenzio di questa casa dove niente ha importanza ad accezione di lui. Il panico sopraggiunge con forza adesso che la causa del mio nervosismo viene a galla senza dare spazio a scuse inutili. Lo avverto stringere la gola, quasi fosse inutile schiudere le labbra e respirare. Ho la nausea, impallidisco e sono costretta a sdraiarmi sul letto.
Ho bisogno di bere, penso mentre chiudo gli occhi e cerco di calmare il cuore che martellante rimbomba nelle tempie e mi fa impazzire. Lo so che devo ritrovare le forze e non lasciare che la paura mi sovrasti.

Non voglio rovinare niente.
Devo scendere.
Non voglio che si preoccupi.

Un solo istante e il respiro si placa nel petto ma la sensazione non abbandona lo stomaco. Mantengo parzialmente l’autocontrollo e mi alzo con calma pizzicando poi le guance per riprendere colore. Spero che basti a cancellare ogni traccia, che Draven non ci faccia troppo caso. Spingo l’anta dell’armadio lasciandola sbattere sfogando la frustrazione che impedisce di liberarmi da quel pensiero e da quello che mi provoca: non mi piace ciò che sento.
Così, abbandono la camera con la scatola sotto al braccio e afferro il cellulare abbandonato sul letto. Scendo di nuovo le scale e lo faccio piano, permettendo a me stessa di riprendere contatto con la realtà mentre conto ogni gradino sul quale poggio i piedi.
«Hai detto cibo a domicilio?» chiedo sonoramente lasciando che la più naturale delle espressioni si mostri in volto non appena torno vicino a lui. Magari si è accorto del tempo che è passato da quando ho abbandonato il salone e voglio che non si allarmi in alcun modo. Tiro fuori il telefono dalla felpa e sventolo l’oggetto babbano in aria come una bandiera, poi lo appoggio sul tavolinetto.
«Scusami ma ho litigato con l’armadio e ha rovinato un po’ l’involucro: questo è per te! Mi spiace non avertelo potuto dare prima, ti avrebbe aiutato a combattere la noia» dico mostrandogli un sorrisino. «Su, su, apri!» Impaziente mi siedo, tolgo le scarpe e porto le gambe ad incrociarsi sul morbido divano.
Me la sto cavando.
Va tutto bene.






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Draven riceve:
- Nettuno, signore delle acque - Volume I (Neptuno)
- Pratica di Magia Difensiva e Suo Uso Contro le Arti Oscure (Iracundia)
- Fuochi e Rituali Magici (Circumflamma)
"Spiriti e Spettri del Mondo Magico" di Viktor Haunt
QUI l'acquisto ♡

 
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view post Posted on 13/3/2023, 12:40
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I tried to loosen off your hold but you stayed and nothing made you fall.

Come avevo previsto, i bacini a schiocco sul viso sortiscono l’effetto desiderato e mi ritrovo a pensare che basterebbe il suono della sua risata per farmi sentire a posto con me stesso per il resto della serata. Anche per il resto della vita andrebbe bene, ma immagino di dover tenere conto dell’esistenza di alti e bassi. Soprattutto adesso, che stare in questa casa la rende nervosa, dopo più di una settimana passata nella sola compagnia di sua nonna. Mi chiedo che tipo sia, la vecchia megera… Non riesco a immaginarla e, mentre avanzo con Megan tra i meandri della casa, mi ritrovo istintivamente a guardarmi un po’ intorno: non ci sono foto di lei su cui potrei basarmi. Non ci sono foto di nessun tipo.
Ora che ci faccio caso, lo trovo strano. È un’assenza ingombrante e, in un certo senso, anche triste.
Addirittura a casa mia ci sono ancora foto con un Barty felice e in salute che abbraccia me e mia madre o fa smorfie alla fotocamera. Nessuno le guarda mai per davvero, non io almeno, ma non sono mai state spostate dai punti in cui sono sempre state: semplicemente perché fanno parte del nostro vissuto, tanto quanto le tacchette sul muro della mia camera che hanno segnato la mia crescita negli anni, le tende scolorite dal sole in cucina e la chiazza di colla sul tavolino in sala.
Non è un qualcosa a cui avrei mai prestato attenzione, se dalle parole di Megan non avessi colto il suo disagio nel vivere dentro queste mura senza personalità; eppure, ora che le osservo mi sento come trascinato nel ritratto di Dorian Gray. Quanta bellezza nei quadri, nei lampadari e nel marmo su cui risuonano i nostri passi; è tutto così perfetto, ricco ed elegante, che mi chiedo quanta sia la bruttezza che si celi dietro tutto ciò.
Con una scrollata di spalle cerco di togliermi di dosso la sensazione d’inquietudine che mi assale seguendo Megan in sala. È una cazzo di stanza grande come tutto il mio appartamento. C’è pure un cazzo di pianoforte! Ma, nemmeno qui, nessuna foto di Megan da bambina o dei suoi genitori. Lo trovo così innaturale che non riesco a trattenere una smorfia.
Non dovrei giudicare. A dirla tutta, in condizioni normali non avrei mai avuto interesse in riflessioni di questo genere, ne sono più che sicuro, ma ormai non riesco a smettere di pensarci e non capisco se sia solo l’atmosfera da Famiglia Addams a innervosirmi o l’agitazione di Megan che mi si è attaccata addosso per osmosi.
Accetto il fatto di essere confuso e stranito, ma va solo a peggiorare quando scosta la mano dalla mia. Abbasso istintivamente lo sguardo. Sento un improvviso gelo sulla punta delle dita e l’eco della sua risata svanisce insieme alla rassicurazione provata solo pochi istanti prima.
Vorrei stare con lei, nella nostra solita normalità, ma è tutto dannatamente storto quanto quello stupido quadro di Dalì che intravedo con la coda degli occhi. Non mi sorprenderei se fosse vero e non una riproduzione.
Sono sul punto di chiederle di uscire. Penso che in questo momento addirittura quel cazzo di Coco Momo, o com’è che si chiama il locale che le piace a Gloucester, mi metterebbe più a mio agio. Mi girano così tanto i coglioni che non riesco a ragionare. E niente di ciò che vorrei dire trova voce.
Mi sfilo la giacca in silenzio, a testa china. Poso su una poltrona lì vicina il cellulare e il tabacco, poi nascondo sotto un cuscino i due regali di Megan, cercando di non farle vedere nemmeno l’involucro. Non che siano perfettamente incartati, visto che li ho incartati io, ma insomma…
Perché non posso andare con lei in camera sua? Confesso di essere curioso. Vorrei vedere com’è arredata, sedermi sul letto in cui dorme, magari almeno lì tiene nascosta qualche foto o qualche ricordo indelebile che custodirei gelosamente. Ma l’ansia mi travolge. Non trovo nemmeno la necessità di posare il mio giubbino per forza in camera sua. Continua a cercare le distanze e mi limito a concedergliele come fossi tornato ai tempi in cui ero relegato in un angolo della Sala Grande a guardarla da lontano.
Le passo la giacca in silenzio e mi forzo di distendere le labbra in un sorriso che so che è più finto del tocco di colore dato dai fiori in mezzo a quella sala.

Ok. – bisbiglio. È tutto ciò che riesco a pronunciare.
Mi butto di peso sulla poltrona con un sospiro profondo. Chiudo gli occhi e presso le dita sulle palpebre chiuse. Mi concentro sui cerchi di luce che la pressione scatena in quel buio imposto e resto così, a cercare di ritrovare un po’ di tranquillità per portare la serata su binari più sicuri.
Da quant’è che sono qui? Dieci minuti? Non posso accettare che stia andando già così male. Sorride e si mostra entusiasta in un modo che stona dal suo solito essere e non so come affrontare questo lato di lei. Possibile che sia così diverso da com’è a scuola? Solo perché questa casa la mette a disagio? Per quanto capiti sempre più spesso, ultimamente, che sia lei a prendere iniziativa, so che tra i due quello che ha più bisogno del tocco dell’altro sono io, ma non si è mai tirata indietro. Non così.
Faccio perno su un lato del mio corpo per sollevarmi appena e recuperare il tabacco tra i cuscini della poltrona. Non volevo fumare, nemmeno volevo portarmi dietro la roba, ma credo di essermi portato sfiga da solo pensando che potesse farmi stare meglio avere il tutto con me. Riapro gli occhi con l’intento di girarmi una sigaretta e uscire a fumare, dato che Megan dev’essersi persa alla ricerca di un attaccapanni, ma il mio sguardo si posa sulle librerie. È come osservare un’oasi nel deserto. Lecco e giro la cartina in meno di un secondo; chiudo la sigaretta e riappoggio il tutto sulla poltrona mentre mi rimetto in piedi.
Non mi sono mai sentito più inopportuno di così in tutta la mia vita. Ho altro a cui pensare. L’atteggiamento di Megan mi preoccupa. Lo so. Lo so. Ma gli occhi sono attirati dalla rilegatura di un Moby Dick che non ho mai avuto il piacere di vedere nemmeno nelle aste online più prestigiose a cui abbia partecipato sotto falso nome e senza la minima possibilità di potermi aggiudicare nulla oltre la cospicua quota d’iscrizione. Le lettere nel titolo sono intarsiate in avorio e sto per svenire. In. Avorio. Ho perso contatto con la terra sotto i piedi.
Mi faccio scivolare il bordo delle maniche a coprire le mani e, con estrema delicatezza, estraggo il libro dallo scaffale. Non intendo deturparlo al tocco della mia pelle per cui, quando lo appoggio sulla poltrona, vi scorro sopra le dita tenendole ben nascoste sotto il tessuto della felpa. È ciò di più bello su cui i miei occhi si siano mai posati. Oltre Megan, ovviamente.
Apro la copertina e la prima pagina indica che è una stampa del 1930. Mi tremano le labbra. Chiunque abbia inventato il detto “i soldi non fanno la felicità” non ha capito un cazzo della vita. E di sicuro non era un collezionista.
Richiudo il libro con la stessa delicatezza con la quale l’ho aperto e, allo stesso modo, lo ripongo al suo posto. Scandaglio gli scaffali alla ricerca di altre gemme e, pochi minuti dopo, mi ritrovo seduto per terra, a gambe incrociate, per osservare anche le file più in basso.
Ho perso la cognizione del tempo ed evidentemente anche quella dello spazio. Per tutto quel lasso di tempo ho smesso di pensare a Megan e alla sua agitazione. Ho dimenticato anche la mia. Ma mi accorgo che è stato solo un riassestamento temporaneo, quando la voce di Megan mi riporta alla realtà.
Scatto in piedi e mi volto verso di lei. Non riesco nemmeno a guardarla in viso, cazzo.
Prendo la scatola che mi porge, è pesante. Vorrei vedere cosa nasconde, ma il cuore ha ripreso la sua corsa per battere ogni record di velocità. A ogni frenetico battito sento il tristemente famigliare macigno sul petto addensarsi e mozzarmi il respiro.
Sto seriamente andando in panico perché Megan è una persona normale che non ha l’esigenza di starmi appiccicata ventiquattro ore su ventiquattro?
Sì.
Il mio cervello riesce ancora a ragionare e mi fa giungere alla conclusione che, probabilmente, sto enfatizzando un problema che non sussiste. Se avessi fatto qualcosa di sbagliato, non cercherebbe di coprire il suo nervosismo con il sorriso, giusto? Non avrebbe nemmeno senso nascondermi altre motivazioni di nervosismo dopo l'avermi detto, con sincerità, che è nervosa per sua nonna e la casa, no?
Azzardo un’occhiata sul suo viso, da sotto le ciglia. Non ha gli occhi celati di tristezza, almeno. È un buon segno.
Prendo un respiro profondo e le labbra si distendono in un sorriso più naturale, per quanto mi sa che quello con gli occhi tristi sono io.

Sì, posso insegnarti a ordinare a domicilio, se vuoi.
Poggio la scatola sul divano e, prima di andare a sedermi di fronte a lei, prendo le sue due scatoline da sotto il cuscino della poltrona.
Passo dall’ostentare una sicurezza da megalomane all’essere impaurito come un bambino timido. Il cambio pressoché repentino mi ha scatenato un tale mal di testa che anche il solo tenere la fronte aggrottata mi dà fitte lancinanti di dolore dritte nel cranio.
Fisso la scatola e, per un istante, mi sembra di essere tornato piccolo, ai tempi in cui mio padre aveva l’abitudine di riempire un sacco di iuta con tanti piccoli regali. Diceva sempre di aver sconfitto il Krampus a braccio di ferro e averli vinti oppure che aveva dovuto aiutare Babbo Natale a prepararli. Era una cosa così stupida… Soprattutto perché a quattro anni avevo già scoperto che i regali li compravano lui e mia madre e li nascondevano nell’armadio.
Odio il Natale.
Sospiro di nuovo e mi accingo a scartare il suo pacco. Le sopracciglia raggiungono quasi l’attaccatura dei capelli da quanto in alto si sollevano. Non è sorprendente che mi abbia regalato dei libri, quanto il fatto che me ne abbia regalati di così belli e interessanti. È come se la sola vista di queste splendide copertine basti a dissipare il macigno d’angoscia che mi si è piazzato sul petto. Un po’ com’è stato col Moby Dick in avorio e il resto della sua libreria. Gli angoli delle labbra si sollevano in un ampio sorriso senza che possa evitarlo, sento le cicatrici tirare e le fossette pressarmi nelle guance. Non voglio evitarlo. Mi piace questa sensazione, anche se continuo a trovarla strana e non riesco proprio ad abituarmici. Non so nemmeno definirla.

Sono belli quasi quanto te. – esordisco, tirandomi di nuovo giù le maniche della felpa per sollevare la copertina del Volume I di “Nettuno, signore delle acque”.

Non vedo l’ora di leggerli. Grazie. – aggiungo poi, spostando appena di lato la scatola per avere lo spazio di fianco a me per protendermi verso di lei e rubarle un bacio. Veloce, tenero, senza malizia e pretese. Ho l’impressione che non abbia granché voglia di starmi appiccicata, per cui me ne torno subito dritto con le spalle contro lo schienale del divano.
In confronto i miei regali sono stupidi, ma spero che le piacciano comunque.
Senza volerlo, perché non potevo nemmeno immaginarlo, potrebbero tornargli entrambi utili più di quanto credessi.
Glieli passo insieme, lasciando a lei la decisione su quale scartare per primo.



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Nella scatolina rettangolare:
• Biglie Colleganti (x2). Un bigliettino spiega da un lato: All'apparenza sono semplici biglie colorate: in ogni confezione ne escono due dello stesso colore, sono incantate per collegare due persone o due luoghi istantaneamente entro 30km. Una volta sistemata una biglia in un luogo o affidata ad una persona, basta calpestare una per raggiungere l'altro capo. Non funzionano in zone antimaterializzanti, in quel caso si potrà apparire a metri dal luogo e/o dalla persona da raggiungere. Ottime per fuga. Un utilizzo per scatola. Mentre dall'altro, con un'altra grafia, c'è scritto: Queste potrebbero tornarti utili se volessi uscire senza chiedere il permesso.
[Regolare acquisto qui]

Nella scatolina quadrata:
Stampante Portatile Bluetooth. Nella scatola ci sono anche otto foto di Draven o di panorami di Barcellona alle spalle, dietro ognuna delle quali c'è scritto un piccolo messaggio:
- Giorno 1. Non mi ero mai reso conto che le città potessero avere odori diversi. (In foto: una via costellata di fiori sul marciapiede)
- Giorno 2. Non ci sono ossa vere, ma è la cosa più figa che abbia mai visto. (In foto: facciata esterna di Casa Batllò)
- Giorno 3. Questa è la sera in cui mi hai detto di no. (In foto: Draven con un finto broncio triste)
- Giorno 4. Poco fa mi hai chiesto cosa stessi facendo e ti ho detto che pensavo a te. In realtà ero a cena, ma tanto ti penso sempre. (In foto: una tavola imbandita)
- Giorno 5. Quando J mi ha portato allo stadio. (In foto: Camp Nou)
- Giorno 6. Tu che mi aiuti per telefono in Erbologia è stata la cosa più divertente di questa vacanza. (In foto: la vista della città dalla camera)
- Giorno 7. Mi fanno male gli occhi con tutti questi colori. (In foto: scorcio del Parc Güell)
- Giorno 8. Oggi ti rivedo. (In foto: aeroporto di El Prat)
 
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Draven poggia il mio regalo sul divano e lo osservo raggiungere la poltrona per estrarre da dietro il cuscino due piccoli pacchetti. L’involucro verde cattura lo sguardo e abbozzo un sorriso sentendo l’eccitazione palpitare nel petto, vibra sulla pelle: le sorprese mi sono sempre piaciute, fin da bambina.
Sistemo le gambe e mi spingo a posare i gomiti sulle ginocchia piegandomi su me stessa. La sensazione che mi accarezza la pelle la conosco, è come togliere uno strato di polvere da un oggetto ormai dimenticato e scoprirne di nuovo la bellezza.
Lo guardo sedersi di fronte a me e la sua espressione non rifugge ai miei occhi. Un piglio di tristezza è forse ciò che scorgo ma me ne dimentico l’attimo seguente, quando lo vedo sorridere scartando il fiocco e aprendo la scatola. È felice, questo mi rilassa e l’ansia sembra aver abbandonato lo stomaco; non pesa più come piombo, non ho più il senso di nausea. Forse si è nascosta, penso, ma poco importa cerco di non soffermarmici più del dovuto godendo di quell’attimo. Provo a mantenere quel labile controllo che, ora, sento di avere.
«Sono belli quasi quanto te» commenta e io arrossisco abbassando lo sguardo per poi tornare su di lui. Mi spingo in avanti non appena lui si avvicina per darmi un bacio, veloce, e lo guardo tornare in posizione. Ha le spalle dritte contro lo schienale, è teso.
Che hai? chiedo in silenzio, il viso si contrae e mi mordo l’interno delle labbra. Percepisco che in qualche modo si sta frenando e ho la sensazione che sia colpa mia.
«Sono felice ti siano piaciuti» rispondo, cercando di celare il flusso di pensieri che hanno appena attraversato la mia mente.
Mi passa i due pacchetti, mantiene lo sguardo basso e non riesco a frenare un piglio di tristezza improvviso. Mi piace quando mi guarda, a volte mi capita di far finta di non vedere che punta gli occhi su di me solo per il gusto di lasciarglielo fare senza che interrompa quel contatto per colpa della mia stupida timidezza.
Cosa c’è che non va, Drav? Un’altra domanda che rimane in sospeso nella mente. Lo so, sto sbagliando tutto mi dispiace. È che… Continuo a pensare. Vorrei dirglielo se solo ne avessi il coraggio, ripetere quelle parole ad alta voce. È probabile che le mie siano riflessioni senza alcun fondamento, la sicurezza così vacilla e lascio semplicemente che le cose seguano il loro corso.
Mi accorgo che le dita stanno tremando mentre cerco di strappare la carta e le nascondo ostentando uno sforzo che non esiste. Con l’indice e il pollice di entrambe le mani tiro le due estremità del regalo, scarto il primo pacchetto e il colore delle biglie, un blu zaffiro, rifrange le cromie complementari delle fiamme accese del camino. Le tolgo dall'involucro di spugna e stoffa e le poggio sul palmo per osservarle meglio. Successivamente, le iridi oltremare indugiano poi sul piccolo contenitore, mi accorgo della descrizione per l’utilizzo sul biglietto legato accuratamente al suo lato; lo leggo e giro il pezzo di carta: “Queste potrebbero tornarti utili se volessi uscire senza chiedere il permesso.”
Un tenero sorriso m'illumina il viso; cerco i suoi occhi, vorrei che smettesse di rimanere lì a guardare un punto indefinito del mio corpo.
«Quindi una è tua, giusto?» chiedo mentre poggio la piccola custodia dinanzi a me, riponendo le biglie al suo interno con attenzione.
Prendo l’altro regalo togliendo la carta lucida che l’avvolge. Inizialmente confusa scopro uno strano oggetto che comprendo essere una piccola stampante solo perché scritto sulla scatola che la contiene. In realtà sono sicura che le stampanti sono grandi, quindi sono perplessa e non lo nascondo mentre la estraggo e la osservo attentamente.
Subito dal cartone cadono delle foto e si sparpagliano sul divano, alcune tra le mie gambe e altre a terra. «Ops, ho fatto un casino» dico alzando le spalle, stendendo le labbra in un sorriso colpevole. Poso la stampante a fianco alle biglie e sopra al suo contenitore; provo a rimettere in ordine quelle immagini, alcune le ricordo perfettamente. Le guardo, segnano momenti precisi del viaggio di Draven dal primo giorno all’ultimo a Barcellona: monumenti, strade, viste e attimi di semplice quotidianità. La particolarità è che sono tutte accompagnate da piccole ma precise frasi che mi fanno ridere, specialmente l’immagine che lo ritrae con il viso corrucciato e quella che si lega alla sera in cui, durante la spiegazione dei Fagioli Magici, avevamo finito di cadere in un momento di totale leggerezza tra una battuta e l’altra.
«È facile: li pianti e cresce una grande pianta di fagioli che ti condurrà ad un castello dove potrai diventare la persona più ricca del mondo se sconfiggerai il grande gigante!» Avevo detto decisamente poco seria, con un tono trionfo e il petto in fuori; il tutto allegando foto dell’omone e dell’enorme pianta di fagioli, memore di quella storia babbana che per curiosità ero andata a leggere all’epoca. Avevo anche azzardato un'imitazione perfetta della professoressa Fiachran, creando scenari improbabili raffiguranti la reazione della donna dinanzi a quel tipo di risposta.

«Sono bellissime, grazie…» dico finalmente. Tolgo la stampante e la sposto sul tavolinetto, così come la scatolina con le due biglie; poi, sciolgo le gambe allungandole sul divano portandole indietro.
Cerco di trovare riparo tra le sue braccia, appoggiando la testa sul petto: «Questa, poi, è la più carina» dico a bassa voce, certa che lui possa sentirmi da quella distanza.
Il ritratto del terzo giorno, con la sua faccia da finto imbronciato, è talmente tenero che mi fa arricciare naso e labbra. Ricordo chiaramente quel momento e la vergogna torna puntuale a colorarmi le guance che, ora, lui non può vedere.
«Pensi di potermi perdonare?» chiedo mentre alzo il mento e cerco i suoi occhi. Capisco di essermi esposta l’attimo seguente e così torno subito a fissare il bracciolo del divano. L’ansia torna ad avvolgermi, mi nascondo portando la mano destra sul suo fianco sinistro stringendolo in un abbraccio.
«Ti va di farci una foto e poi mi spieghi come stamparla?» Cerco di allungare il piede e afferrare il cellulare con il primo e il secondo dito, portandolo con facilità verso la mano. «Ovviamente voglio anche ordinare cibo» aggiungo alla fine, cercando di allontanarmi il più possibile da quell’agitazione che ho paura possa sfuggirmi di mano.



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Vorrei avvicinarmi di più. Sono arrivato qui con l’intento di recuperare con lei tutto il contatto perso nei giorni passati distanti l’uno dall’altra. Non mi sono chiesto cosa volesse lei. Non ho idea di cosa stia pensando. Non capisco perché mi abbia chiesto di venire qui se la casa la mette a disagio e sua nonna l’ha resa nervosa. So solo che a ogni approccio si è allontanata da me e l’ultima cosa che intendo fare è impormi, quando non è lei a consentirmelo. Mentre la osservo scartare i miei regali, ho la mente impegnata altrove. Ho rimesso in moto i neuroni per venire a capo di un soluzione, fare in modo che si senta a suo agio, che capisca che non è diverso da com’è quando siamo a scuola. Siamo sempre noi due, è solo un altro posto, un momento diverso, ma non per questo motivo di ansia. Non so se sia il caso di dirle qualcosa, provare a farla aprire di più, distrarla in qualche modo o semplicemente fare come se niente fosse per non metterle pressione.
Ho vissuto, per gran parte della mia crescita, nella sola compagnia di mia madre, una donna che non ha mai espresso i suoi pensieri ad alta voce, ma che in qualche modo si fa comprendere: da ciò che fa, dalle espressioni del viso. Ma Megan è diversa, è abituata a nascondersi da tutta la vita. Che lo faccia di proposito o involontariamente, sa farlo fin troppo bene.
Mi elettrizza che imparare a conoscerla sia come scavare a mani nude alla ricerca di un reperto prezioso, ma il più delle volte mi accorgo che è come se scavassi nel punto sbagliato. Se non è lei a volersi esporre, non c’è verso che io riesca a comprendere cosa le passa per la testa. Non credo che scavare con più insistenza possa essere utile in alcun modo, ma se non questo, allora, che potrei fare? Devo trovare una soluzione.
Cazzo, le donne sono un casino e la mia fa da capofila.
Mi ridesto dal groviglio di pensieri quando sento dal tono della sua voce che mi ha appena chiesto qualcosa. Alterno lo sguardo tra il suo viso e le sue mani e il cervello impiega qualche secondo di troppo per identificarmi il senso delle parole che ha appena pronunciato.

Non per forza. Se vuoi sì, ma penso basti lanciarne una dalla finestra, aspettare che atterri e poi schiacciare l’altra per farti ritrovare fuori casa. Più o meno avevo immaginato un utilizzo del genere. A prescindere da me… - rispondo, facendo spallucce. La voce atona e lo sguardo basso.
A dirla tutta, casa mia si trova in un raggio di otto chilometri rispetto alla sua, per cui se volesse potrebbe materializzarsi dalla sua stanza alla mia nel tempo di un secondo. Ma non è mai stata a casa mia; per quanto questa vecchia abitazione la metta a disagio, è perlomeno uno spazio a lei famigliare. Immagino che invitarla a stare nella mia stanza, sotto lo stesso tetto delle due donne più impiccione che l’Universo abbia mai generato, probabilmente la metterebbe ancora più a disagio. Quindi, non specifico la cosa. Magari glielo farò presente a tempo debito. È comunque consapevole che abitiamo a due quartieri di distanza e che, se solo volesse, potrebbe stare a casa mia con me a oltranza o finché non dovesse ritenerlo sequestro di persona.

È una stampante portatile. Puoi stamparci le foto che hai nel cellulare. Tipo quelle interessanti che ti mando io.
A voler accentuare il doppiosenso delle mie parole, l’unica foto che mi cade vicina, quando Megan apre la scatola e le riversa in giro, è quella più indicativa dell’aggettivo “interessante”. La recupero con un sorriso e la sventolo giocosamente di fronte al suo viso. Mi ritrae a mezzo busto nel letto, al terzo giorno ed è abbastanza innocua, a dir la verità. D’altronde come anche le altre, è il momento che racchiude a rappresentare una certa rilevanza. L’ho scattata quando ho iniziato a lamentarmi espressamente di quanto mi mancasse stare con lei. Essere eccitato dal solo suono della sua voce e non poterla toccare è stata l’esperienza più snervante della mia esistenza. Non ho dimenticato gli anni in cui a malapena era consapevole della mia esistenza e non avevo la possibilità di starle vicino a meno di dieci metri, ma ho finito con l’abituarmi a questo, a noi, alla sua presenza costante. Quello è stato il giorno in cui ho provato a spiegarglielo, ma mi ha negato ogni vacua possibilità di sollievo.
Ho dovuto accontentarmi della mia immaginazione una volta agganciata la telefonata, ma considerando come ha reagito quando le ho chiesto di toccarci insieme, a distanza, non credo voglia saperlo. E non mi sento in colpa per una simile omissione. La mia schiettezza ha il potere di farla chiudere a riccio, s’imbarazza facilmente per nulla e ogni volta che flirto con lei arrossisce. Adoro il modo in cui suo corpo reagisce al mio, ma se tiene le distanze è piuttosto difficile mettere alla prova tali reazioni.
Prendo un respiro profondo. La osservo spostare tutto sul tavolino e imito i suoi movimenti, spostando lì anche i libri. Nego a me stesso il motivo per cui lo faccio. Sento di doverci creare comodità su quel divano, ma tengo a freno i pensieri perché sennò è un casino. Mi serve lucidità mentale e già il modo in cui mi confonde mi rende le cose difficili.
Le mie braccia rispondono alla sua improvvisa vicinanza prima ancora che possa rendermi conto del fatto che sia stata lei ad accostarsi a me. L’avvolgo per le spalle e la vita. Mi chino su di lei per istinto. Un bacio tra i capelli raccolti. Un bacio sulla fronte. Mi raddrizzo con il busto e mi accascio sullo schienale.
Sono più confuso di prima. Mi vuole vicino o no? Cazzo, non capisco quanto mi vuole vicino.
Incontro il suo sguardo al suono della sua domanda e resto inebetito per qualche istante. Cosa si aspetta che risponda? Cosa cazzo dovrei rispondere a una domanda del genere?

Non c’è niente da perdonare? – dico, incerto al punto che il tono si alza a domanda contro la mia volontà.
Non ne esco. Piuttosto, continuo a vorticare in un nervosismo che accresce di potenza in maniera graduale.
Le mie braccia non la stringono quanto vorrei, ma sono sicuro che dalla postura che ha assunto e la vicinanza al mio petto possa comunque sentire la frequenza aggressiva dei battiti del mio cuore.
Vorrei baciarla e mi ritrovo di nuovo a testa china, proteso verso di lei, seguendo un istinto sul quale – a quanto pare – non ho il minimo controllo. Me ne accorgo quando ha già riabbassato il viso e mi ritrovo in una posizione scomodissima a fissare i suoi capelli. Bellissimi, ma non era questo l’intento.
Non riesco a trattenere l’ennesimo sospiro e mi affloscio ancora di più sul divano nel tentativo di portarmi col viso all’altezza del suo. Ho la mascella serrata, tanto quanto la bocca dello stomaco per via dell’ansia. Sono praticamente a bordo del divano e rischio di cadere da un momento all’altro, ma mi sostengo con le gambe e mi limito a prendere in mano il suo cellulare per adempiere alle sue richieste. Prima la foto, tanto ho tutto meno che fame.
Le sciolgo i capelli e mi ci nascondo in mezzo, prima di posarle un bacio sul profilo del viso. Alzo il braccio sinistro e scatto senza alcun preavviso.
Mi riavvicino il cellulare per osservare la foto dalla galleria, ma qualcos’altro attira la mia attenzione: una serie di selfie che Megan si è scattata a mia insaputa.
In una frazione di secondo mi ritrovo in piedi e lontano da lei perché lo so, LO SO, che proverebbe a impedirmi di vedere queste foto, perché altrimenti me le avrebbe mandate mentre ero in Spagna. Non so se le abbia tenute perché non sa cancellarle o se perché un giorno pensava di volermele mostrare comunque. Parti del suo viso, da ogni angolazione possibile e immaginabile. La messa a fuoco non è il suo forte, nemmeno l’inquadratura è il massimo. A volte si è fotografata un solo occhio, altre mezza bocca o direttamente mezza faccia. È la galleria di foto più bella che abbia mai visto.
Stendo il braccio il più in alto che posso. Seleziono le foto e me le invio, prima che Megan possa impedirmelo.
Nell’ardua impresa, mi accorgo che ha ancora le mie che le ho lasciato in galleria come promemoria, per così dire. Odio farmi foto, ma credo che per il bene di questa relazione abbia iniziato a prenderci gusto: un selfie e due nudes, per non farle mancare niente.

Le hai tenute… Le hai guardate spesso? – le chiedo di getto, senza tenere a freno la curiosità. Ha avuto queste foto per dieci giorni e non ne ha mai fatto cenno.
Per un attimo, dimentico l’ansia e mi accosto a lei. Fisso gli occhi nei suoi. Il cuore sembra diramarsi in tutte le direzioni, sotto ogni vena scorre un battito.
Come può ignorare la scarica elettrica che ci attraversa?



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Per esigui e profondi secondi ho sentito il battito del suo cuore, ancora. Il suono accelerato si univa agli sbuffi sincopati e densi del camino e ne creavano un'interessante armonia. Ho pensato di poter suonare su quel ritmo, ne ho immaginato una breve composizione e per un attimo ho dimenticato quel luogo. C’è solo un posto che può far tornare in superficie il desiderio di sedermi davanti ad un Pianoforte e accarezzare i tasti d’avorio: casa.
È tutto racchiuso lì, in quel momento, in tutto ciò che sento e percepisco ogni volta che mi è vicino; lo so, so cosa è.
Sorrido quando il solo pensiero mi sfiora la mente e questa volta il rosso che infiamma le gote non è imbarazzo ma quel sentimento che esplode nel motore pulsante che mi tiene ancora in vita. Lo conosco, l’ho dimenticato nel tempo ma non è mai andato via. Riprende vita dopo anni, rimasto lì nascosto in un angolo in fondo al petto, lontano dalla luce, elusivo. Il terrore torna a farmi rabbrividire ma non rifuggo questa volta e lo combatto; tanto da non lasciare che la distanza torni a portarmi lontano da lui.
Non esiste nient’altro che questo.

Il telefono mi sfugge dalla mano quando Draven si sposta e prontamente lo afferra. Lo lascio fare, scatta qualche foto mentre posa un bacio sulla mia guancia e sono sicura di aver fatto qualche smorfia stupida nascosta dietro i lunghi capelli che, ora, mi coprono il viso. Cerco di scansarli per riuscire a vedere cosa è venuto fuori ma quando lo vedo scorrere la galleria sprofondo nella più totale vergogna. Prima che possa in qualche modo fermarlo lui si tira su e allontana il cellulare dalla mia presa, impedendomi di arrivare a prenderlo con facilità. L’istinto mi porta a staccarmi dal divano e tirarmi su cercando di bloccarlo in qualche modo. La mano si tende e il lembo della sua felpa mi sfugge dalle dita: riesco a trattenerlo per qualche istante e poi scivola via. Allora mi alzo in piedi sulla struttura di cuscini e legno, cercando di sovrastarlo in altezza. Dei! Mi sento sprofondare in un buco nero fatto di vergogna e paura; come se avessi commesso chissà quale crimine e volessi nascondere tutte le prove esistenti per tornare ad indossare quella maschera che tanto si sposa bene sul mio viso e mi fa apparire sempre perfetta agli occhi degli altri. Ma io sono tutto fuorché perfetta.
«Esiste una cosa chiamata privacy anche nel mondo babbano, te l’hanno detto?» dico mentre prende ancora le distanze e io lo seguo. I piedi toccano terra e mi avvicino cercando di aggrapparmi al suo braccio con ormai un’arrendevolezza che mi fa mollare la presa qualche istante dopo. Metto il broncio e incrocio le braccia al petto: «Ti sto odiando in questo momento lo sai? Tanto, tantissimo!» dico con tono serio sapendo di mentire, ma so essere abbastanza convincente o almeno credo.
«Le hai tenute… Le hai guardate spesso?» finalmente parla e mi guarda.
«Cosa?» rispondo d’istinto mentre in un istante le sue parole prendono significato nella mia testa e comprendo di cosa sta parlando. Le sopracciglia, dapprima corrucciate in un sguardo severo, si alzano e mostrano le rughe d’espressione sulla fronte. Le labbra si schiudono e il cuore inizia a martellare dissonante tanto da farmi vacillare sul posto. Ho gli occhi sbarrati e sto andando a fuoco, letteralmente, e adesso desidero fortemente che una raffica di vento mi porti via da lì.
Abbasso gli occhi in cerca di una via d’uscita e in qualche modo mi aggrappo alla cosa più assurda che possa mai dire perché, diamine!, ogni mia espressione parla da sé: cosa devo inventarmi?
Sì, le ho viste e riviste.
Sì, ho provato qualcosa…
«Non ho idea di come si cancellano» rispondo mentre il respiro si fa sempre più ritmato e le pupille si dilatano come se il buio, inesplorabile, avesse d’improvviso inondato la stanza. Ma non c’è alcuna oscurità, io lo vedo. Sento ogni terminazione nervosa attraversarmi la pelle e i brividi percuotere il corpo tanto da lasciarmi tremare. Le iridi blu cobalto non smettono di fissarlo e prego che Draven faccia qualcosa prima che possa in qualche modo rovinare tutto.
La distanza è esigua, non ho fatto alcun passo indietro.
Desiderio e impulso mi chiudono la gola ed io rimango immobile.



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Cazzo, se ha ragione. Ha pienamente ragione. So che non avrei dovuto curiosare nella sua privacy, so che ciò che ho appena fatto contravviene qualsiasi buon criterio di giudizio. Non avrei dovuto guardare tra le sue foto. Non avrei dovuto inviarle nel mio cellulare senza il suo consenso. Ma mi sta bene così. Anzi, peggio: sono soddisfatto di come il mio istinto mi abbia fatto scattare prima che potesse impedirmi di mandarmi quelle foto. A quanto pare, per lei non è questo gran problema evitarmi o non vedermi, non sentire la necessità di starmi appiccicata, ma io ne ho bisogno più dell'aria. Ho sempre saputo che viaggiamo su due treni che, seppur su binari paralleli, proseguono a velocità diverse. Mi sono innamorato di lei quando a malapena sapeva il mio nome. Ho fatto l’amore con lei quando a malapena provava attrazione per me. L’ho accettato, continuo a farlo perché so che non posso spingere i suoi sentimenti ad andare di pari passo ai miei. So che il solo poterle parlare è una concessione, figuriamoci tutto il resto. So che sono tutt’altro che perfetto e che meriterebbe un meglio che non credo di poterle dare. So di metterla in imbarazzo quando non riesco a essere gentile come vorrebbe che fossi con persone che non sono lei e so che non mi avrebbe mai dato una possibilità se non l’avessi letteralmente pregata di farlo. Non voglio niente in cambio, mi prendo quello che può darmi. Mi accontento delle briciole anche se muoio di fame. Ma sono egoista e la voglio con me. Ho pazienza, o almeno credo di averne; solo non riesco a trattenere la frustrazione. Accetto i suoi ‘no’ tanto quanto accetto i suoi ‘sì’, semplicemente non sopporto quando si nasconde da me. Può farlo con chiunque altro, ma non con me.
Mi rendo conto che lo sguardo si incupisce man mano che le reazioni del suo corpo e delle sue parole mi attecchiscono dentro come un veleno che si dirama a tempo dei battiti cardiaci. Non me ne frega un cazzo se mi ritrovo a fine di questa serata con il cuore fuori dal petto e un dolore incommensurabile da sopportare. Non me ne fregherebbe un cazzo se qui e ora mi dicesse che non prova nulla per me, che ha cambiato idea, che non mi sopporta… Insomma, non saprei darle torto. A malapena mi sopporto io, non mi aspetto un tale spirito di sacrificio dagli altri, nemmeno da lei.
Ciò che non sopporto è ciò che mi spinge a provare. Perché lo sento che mi vuole, sento che mi desidera e percepisco fisicamente il modo in cui si nega ciò che prova per me con l'intento di spingermi via. Questo è intollerabile, cazzo.
All’improvviso, mentre mi dice che ha tenuto le mie foto perché non sa come si cancellano, sento artigli affilati pungolarmi le viscere. L’elettricità generata dalla vicinanza dei nostri corpi si tramuta in sudore freddo lungo la spina dorsale. Un brivido mi assale e irrigidisco le spalle di riflesso.
Queste cazzo di stupide foto sono solo un espediente.
Abbasso il cellulare all’altezza del suo viso, ma tengo il braccio teso, un po’ all’indietro mentre mi protraggo verso di lei, per evitare che me lo riprenda di mano. Faccio in modo che possa guardare lo schermo: seleziono le mie tre foto, clicco in alto a destra nelle opzioni e poi su “elimina foto”. Il rumore che ne segue è lo stesso di una porta sbattuta in faccia.

Si fa così. – mi limito a dire, glaciale, senza rialzare lo sguardo su di lei. Il nervosismo ha raggiunto il picco dell’incazzatura e non era così che avevo sperato di sentirmi rivedendola. Ho cancellato le foto per scatenarle qualcosa, perché penso che avrebbe voluto tenerle, ma mi sento immediatamente male per averla istigata. Con la mano libera le incornicio il viso e annullo le distanze per posarle un tenue bacio tra i capelli. Non serve a ridurre il valore di ciò che ho appena fatto, serve solo a quietare la mia coscienza.
Mi scosto da lei e torno a sedermi sul divano. Mi butto tra i cuscini praticamente di peso. Con espressione funerea in viso, appoggio la nuca sullo schienale e i gomiti intorno ai miei fianchi. Porto il suo cellulare davanti al viso e scarico l’app per il cibo a domicilio.

Che ti va di mangiare? – chiedo, mentre imposto il suo indirizzo e inizio a scorrere tra le possibilità nelle vicinanze. Il tono cupo della mia voce mi scatena l’ennesimo brivido sulla schiena.
Non è questo che voglio, ma se è questo che vuole lei… Me lo farò andare bene.



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La rigidità torna a posarsi sulle sue spalle e non fatico a vederla. Lo so che la mia risposta non è stata delle migliori e so anche che avrebbe voluto che non gli mentissi. Eppure l’ho fatto ma è una cosa che non riesco a controllare.
La vulnerabilità incornicia il mio corpo, come un quadro esposto al centro di una sala, nascosto dagli occhi di chi non riesce a sondarne i dettagli e si ferma alla superficie ma che si mostra solo a chi realmente è intenzionato a comprenderne il significato, profondo e di artefatta imperturbabilità. C’è una tempesta che disturba il paesaggio, pennellate veloci a creare fronde in movimento: un albero che tenta di restare ancorato al terreno, radici che si aggrappano con più veemenza al sottosuolo mentre intorno il caos macchia lo spazio di colori disturbanti.
C’è perseveranza, terrore e una silenziosa e dolorosa richiesta di aiuto. Combatte quell’albero, così come sto facendo anche io.

Gli occhi fissi di lui. Non smetto di guardarlo nemmeno quando percepisco la rabbia attraversare le iridi smeraldine. Non ho mosso alcun muscolo, aspetto che capisca senza che pronunci parola alcuna perché so che non riesco a fare altrimenti. Speranza che si sgretola nel momento in cui mi sbatte in faccia la realtà mostrandomi quelle foto e con un gesto secco le cancella.
«Si fa così»
Serro la bocca, il viso si contrae. Una fitta lancinante colpisce lo stomaco e il respiro si blocca. Non è l’azione di per sé a farmi mancare l’aria ma è il tono con il quale pronuncia quelle sillabe: freddo, totalmente distaccato. Poi, si avvicina e posa un bacio sulla mia testa e solo in quel momento il battito del cuore torna a scoppiare nel torace con violenza. Avviene tutto in una frazione di secondo: torno a schiudere le labbra, mi manca l’aria e il petto si gonfia ad un ritmo anelante; il nodo in gola ora stringe e vorrei portare le mani al collo per strapparlo via.
Resto immobile, forse sto tremando; lui mi lascia lì ed io provo a deglutire ma l’angoscia mi avvolge e il naso inizia a pizzicare. Lo sguardo in direzione del camino si perde in quella danza che non fa altro che alimentare il turbamento che provo. Adesso, il blu oceano delle iridi vive una tempesta troppo violenta da poter arrestare ma io insisto, vinco, ancora una volta soffoco quello che sto provando.
Sono brava in questo, lo sono sempre stata.
«Che ti va di mangiare?»
Il viso si contorce; mordo l’interno delle labbra, forte, e il sapore del sangue, il dolore che punge familiare, mi riporta ad assumere finalmente controllo. È come quando mi chiudo in camera e traccio sulla pelle solchi mai abbastanza profondi da farmi smettere. È l’unico modo che ho, l’unico modo che ho sempre avuto da quando conosco cos’è il dolore. Lui mi ferisce e questo mi spaventa. Lo fa con un solo sguardo ed io mi sento così vulnerabile; mi domando se è così che ci si debba sentire, se è giusto che io provi tutto questo.
La paura di perderlo è così forte da paralizzarmi.
Ce la faccio, non ripeto che questo da quando lui è qui, sto combattendo contro me stessa.
Mi volto, le fiamme tremano e la luce per pochi istanti viene sconfitta dall’oscurità: i capelli si muovono appena e l’aria mi attraversa penetrando dal comignolo; l'avverto per qualche istante e chiudo gli occhi quanto basta per tornare a sentire il cuore più calmo e il respiro più lento.
Guardo Draven, è seduto sul divano e fissa il telefono scorrendo le dita su quello stupido schermo ed io vorrei spaccare quell’aggeggio in mille pezzi. Rifuggo dalla rabbia, dall’impulso di strapparglielo dalle mani e buttarlo a terra.
«Non lo so» la voce trema appena, poi mi avvicino e siedo al suo fianco ma lascio che la distanza ci separi ancora una volta. Porto le gambe al petto chiudendomi a riccio e non faccio altro che rimanere immobile, con il mento sulle ginocchia e gli occhi puntati in avanti oltre il tavolino.
Vorrei stare qui
«Non credo di avere fame adesso» finisco per dire con un tono algido.
So che devo andare via ma voglio semplicemente stare qui.
Le palpebre si chiudono.



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Scorro i menù dei ristoranti senza davvero guardarli. Le parole chiave che attirano la mia attenzione contro la mia volontà bastano a torcermi le membra. Pensare al cibo mi dà il voltastomaco, ma è quasi piacevole rispetto all’alternativa. Lei è brava a nascondersi, io a dissociarmi. E intendo distrarmi da questa situazione di merda. Non voglio pensare a come con un solo gesto sia riuscito totalmente a cambiare l’umore di entrambi.
Sento il sapore acre del senso di colpa farsi largo dal fondo della gola. Sa di sangue, sa di rame, è un dolore acerbo che rischia di prendere il sopravvento sulla ragione. Ingoio e lo mando giù senza esitare: ho bisogno di un minuto per me. Per ricordarmi che ho vincolato la mia esistenza all’unico essere umano che mi sia mai piaciuto davvero. È per ricordarmi che lei non ha niente da perdere e io tutto. Che sto bene solo se lei è felice. Che se la ferisco per dispetto, mi sto autosabotando.
Ma non so cos’altro fare. Sono andato in corto circuito. Mi serve un altro minuto per rimettere in sesto l’orgoglio e ricordarmi che ne vale la pena struggermi per lei, perché ha bisogno di me, dopo aver passato la vita a dare più importanza ai suoi traumi che a tutto il resto. Avrò sempre e solo valore finché saprò renderla felice e nel momento in cui non ne sarò più in grado, non sarò più utile; scapperà via e non potrò farci niente. Dovrei essere più risoluto.
Odio dare ragione a Cecilia, ma sul fatto che sono un bambino capriccioso mi sa che non ha torto. Ho fatto una cazzata, perché divento dispettoso quando non ottengo ciò che voglio. Ma è rimediabile, no?
Non so per quanto ho finto di guardare lo schermo del suo cellulare, ma per tutto quel tempo Megan non si è mossa. Quando sono sul punto di darla vinta ai sensi di colpa e pensare di averla rotta, la vedo muoversi e tornare verso il divano. Silenzio un sospiro di sollievo, dissipo di nuovo il senso di colpa e resto fermo in quella posa apatica, limitandomi a osservarla di sbieco.
Devo fare qualcosa, ma sono in panico e non riesco a ragionare.
Mi sento addosso il suo sguardo e non posso voltarmi a leggere nei suoi occhi cosa sta provando. Crollerei come un castello di carte e devo prima venire a capo della genesi di questa situazione. Sì, ho fatto lo stronzo, ma solo perché lei oggi ha deciso di fare cento passi indietro e tornare ai tempi in cui si schermava dietro la facciata da Caposcuola accondiscendente. Mi ha mentito spudoratamente: sua nonna e la casa non c’entrano un cazzo. E io le ho creduto.
Blocco lo schermo del cellulare e lo appoggio di lato con un gesto stizzito. Incrocio le braccia sul petto e il macigno d’ansia sedimentato all’altezza dello sterno sembra espandersi al punto da bloccarmi il respiro.
Non so nemmeno da dove cominciare a parlare, ma ho fin troppo da dire per restarmene zitto a vedere come ci roviniamo la serata. Volevo solo stare con lei. Non può essere così complicato. Che cazzo di problema ha?
Schiudo le labbra e non riesco a emettere suoni. Il caos che ho nella testa mi rende difficile elaborare i pensieri. La logica non ha più sostanza e mi ritrovo con un groviglio di parole a cui non riesco a dare voce.
Mi sfugge l’ennesimo sospiro. Ogni secondo che passa mi fa stare peggio. Vorrei poter leggere nella sua mente e togliermi di dosso l’insicurezza generata dall’ignoranza.
Odio quando non riesco a capirla. Odio non riuscire a darle ciò di cui ha bisogno. Odio il modo in cui non riesco a esprimermi come vorrei. Odio questa versione di me, cazzo, a morte.
Ci riprovo: schiudo le labbra per parlare, ma è come se la lingua fosse impastata nella calce.
Fanculo.
Ho troppo da perdere se non faccio qualcosa per rimediare.
Sciolgo la posa e mi giro verso di lei. L’afferro saldamente da sotto le ginocchia piegate, sperando di coglierla impreparata e riuscire a farle distendere le gambe su di me senza che opponga resistenza. L’attiro per annullare questa stupida distanza che ci divide. Ho bisogno di un secondo di sicurezza per riacquistare lucidità e sperare che non mi allontani di nuovo. Le cingo la vita con le braccia e il viso torna a nascondersi nell’incavo del suo collo. Sarò appiccicoso, ma non me ne frega un cazzo: i sensi di colpa hanno preso il sopravvento. Ho perso la battaglia contro la ragione. L’orgoglio va a fare compagnia alla dignità nei meandri del mio essere e non potrei esserne più sollevato.

Non volevo fare lo stronzo. O meglio, l’ho fatto apposta, ma non volevo davvero. Mi rendi nervoso. Non devi dirmi che hai, se non ti va, ma se vuoi allontanarmi devi impegnarti un po’ di più… Così non basta.



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Nell’attimo di silenzio che ci divide ho gli occhi chiusi. Il respiro è calmo ma l’angoscia preme sulle mie spalle e gioca nello stomaco: temo che aprendo le palpebre torni la nausea e la necessità di scappare.
Non so come lui stia, posso solo immaginarlo, e non sento la necessità di chiederglielo. Mi sento in colpa per ciò che sta accadendo e non lo biasimo per quello che ha fatto. Draven odia le bugie e anche io, ma mento: a me stessa, agli altri e la cosa peggiore è che sono consapevole di farlo. Così, come so di averlo ferito adesso.
Apro gli occhi e tiro sù la testa, lentamente. Riesco a voltarmi in direzione della libreria e a fissare la finestra che lascia entrare la sera. Fuori la neve torna a cadere copiosa sul terreno, la vedo vorticare nell’aria senza fretta. Ne seguo il movimento e trovo pace lasciando scivolare via la tensione.
Basta.
Le spalle si rilassano ma, prima che riesca a lasciare andare giù le gambe e tornare dritta, Draven le afferra. Le mani scattano verso il tessuto del divano, tengo stretti i cuscini con le dita e lo guardo: il cuore manca un battito, schiudo le labbra e prendo aria.
Piano, cedo a quell’abbraccio. Mi trascina a sé e torna ad appoggiare la fronte nell’incavo del mio collo, le braccia a stringermi la vita con delicatezza ed io che non oppongo alcuna resistenza. Prendo spazio, mi sistemo in quel posto riservato a me e a nessun altro.
Le sue parole arrivano leggere, come una carezza, ma portano a galla il senso di colpa da cui non riesco a sottrarmi.
Stringo gli occhi, serro la mascella e poso la guancia sulla sua testa liberando un sospiro.
«Va tutto bene» dico semplicemente con un filo di voce. Il battito sembra aver smesso di correre veloce nel petto. Prendo qualche secondo per riordinare i pensieri e mi lascio trascinare da ciò che sento.
«Le ho guardate spesso» un piccolo ed evidente sorriso illumina il mio viso, annullo ogni costrizione che finora mi sono imposta.
Va bene se non ce la fai, mi dico.
«Ho le mie colpe e mi spiace averti mentito.»
Provo a fare leva con la spalla per costringerlo a guardarmi. Il blu delle iridi cercano luce per ritrovare colore.
Guardami. «È per noi che sono nervosa, per tutto questo» ogni sillaba pronunciata esce fuori con sicurezza questa volta, anche se il tono è basso. Osservo la stanza per un attimo soltanto, poi torno su di lui. Gli sto confessando un segreto, non voglio che nessuno lo senta.
Socchiudo le palpebre, le mani scorrono a giocare con i lacci della felpa, riversando su di loro il turbamento che dinanzi alla verità non tarda ad arrivare.
«Mi dispiace» sussurro. «Non ho intenzione di andare da nessuna parte, te lo assicuro. Allontanarti è l’ultima cosa che voglio fare.»
Lo stomaco si svuota di un peso trattenuto troppo a lungo. Gli occhi si posano sulle labbra e le fossette evidenziano un’emozione che mi coglie impreparata.
Torno a guardarlo, la sicurezza trema nel mare che inonda le iridi cobalto.
Intorno a me non c’è più niente.



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Non so che fare e sospiro, con le labbra schiuse a un filo dalla sua pelle. Inalo il suo profumo, chiudo gli occhi per nascondermi nel buio delle mie palpebre e isolarmi nella sensazione che, nonostante la posa scomoda, il mio corpo si incastri perfettamente al suo, come sempre. Restare abbracciati in silenzio sarebbe la soluzione che mi sentirei di proporre per andare oltre; trascurare cos’è che la rende nervosa, bypassare sui suoi tentativi di rifiutarmi e allontanarmi, fingere che sia andato tutto per il verso giusto dal momento in cui sono entrato in questa casa e che ammettere il mio errore abbia quietato la mia coscienza. Ma il macigno che sento ancora all’altezza del petto mi impone di dargli credito e non ignorare tutto questo.
Il calore del fuoco mi pizzica la nuca e, in un attimo, diventa tutto ciò su cui riesco a concentrarmi nel breve silenzio che segue le mie parole.
Tengo Megan tra le mie braccia e la percepisco come una consolazione, non come un premio. E il macigno si espande.
Le persone pensano che sia silenzioso per scelta, che parli poco perché non do importanza alle circostanze o alle conversazioni in atto, che con la mia arroganza mi senta superiore al punto da non voler spendere parole... Non che abbiano totalmente torto, ma non è propriamente così. È più che altro una conseguenza dell’essermi abituato al fatto che alle persone non piace la sincerità. L’essere umano reclama l’onestà e non sa gestirla, questo è il punto. Fingere e mentire rende tutto più facile, in apparenza.
Il mio cervello, selettivamente, ha imparato cosa dire e quando o se merita che io dica qualcosa in base a chi mi ritrovo di fronte e alla circostanza; che sia qualcosa di positivo o di negativo, ne ho il pieno controllo. Che sia per ferire o per aiutare do voce ai miei pensieri, consapevole del mio ruolo e totalmente indifferente delle conseguenze. Il problema sta nel fatto che tutto questo, tutto del mio essere va in tilt con Megan. Le mie regole comportamentali in sua presenza si annullano. L’idea che i miei pensieri, le mie azioni e le mie emozioni possano spaventarla, terrorizza di riflesso anche me. Ho sempre paura di dire e fare la cosa sbagliata e questo mi paralizza, non riesco a parlare. Quando mi sembra di camminare sull’orlo di un precipizio, mi accorgo che l’irrequietezza generata dall’incertezza e dal pericolo mi eccita, ma mi confonde al punto da non capire come procedere. Mi ritrovo fin troppo spesso davanti a un bivio: lei che mi dice qualcosa e io che devo decidere se crederle o no; lei che fa qualcosa e io che devo capire se è sentita o no. Non mi aiuta, per niente. Perché io so cosa provo per lei e continuo a non capire cos’è che lei prova per me.
Non esiste un manuale del perfetto fidanzato, ma ce la metto tutta per esserlo comunque. Io voglio essere quello che le asciuga le lacrime, non quello che gliele provoca, ma mi chiedo se lei abbia mai avuto la stessa accortezza per me o se i suoi traumi siano più rilevanti anche di me.
Non credo di volere una risposta a tutto questo, così come per mesi l’ho volutamente ignorata per evitare che lei potesse ignorare me.
So che voglio stare con lei e mi accontento di questo, indipendentemente da tutto il resto.
Alzo la testa a incrociare il suo sguardo, solo perché mi sono rotto il cazzo di stare a rimuginare senza appigli concreti. Voglio spegnere il cervello, guardare dritto nei suoi occhi e affogare. Non sentire altro che lei. Ma sento comunque il mio cuore pressare contro la gabbia toracica, ogni battito come una pugnalata; probabilmente non arriva in gola per colpa dell’ansia che mi opprime il petto. Il respiro è lento, ma pesante, faticoso e doloroso come inspirare aghi.
Nel giro di cinque minuti sono passato dal volerla scopare al desiderare che mi uccida per liberarmi da tutte le mie sofferenze.
È estenuante essere me.

Non c’è niente di diverso da com’è a scuola. A parte per la presenza di una libreria che fa invidia alla biblioteca di Hogwarts, cellulari che ti portano cibo e l’assenza di ragazzini petulanti. – commento, chinando la testa a incontrare il suo sguardo quando la vedo abbassarlo su un punto indefinito del mio viso.
Sento un contrasto tra ciò che mi ha appena detto e ciò che ha fatto dal momento in cui ho messo piede in questa maledetta casa e la consapevolezza di essermi improvvisamente intristito mi rende ancora più nervoso di quanto già non fossi.

Ogni volta che menti mi rendi più difficile crederti e mi mandi in palla, quindi se non vuoi parlarmi, basta che tu me lo dica. Quando insisto non è per metterti pressione, è solo perché mi piaci, mi piaci tanto.



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view post Posted on 20/3/2023, 15:41
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Ocean eyes.

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I tried to loosen off your hold but you stayed and nothing made you fall.

Allontanarti è l’ultima cosa che voglio fare.
La mente lascia scorrere quelle parole come un’eco infinita nella testa e mi rendo conto quanto suonino dissonanti. Ho fatto l’esatto opposto fino ad ora e lo capisco solo adesso che gli occhi faticano a guardarlo. Odio essere questa versione di me, ma lo sono da così tanto tempo che non ricordo come fosse quella originale.
Sto imparando anch’io ad accettare e a reagire di fronte a ciò che provo costantemente quando sono con lui. Non è facile, non lo è più stato da quando ho scelto di dargli una possibilità e farlo entrare nel caos che è la mia vita.
Sono un’egoista.
Abbasso le palpebre e controllo il respiro, celo la tristezza che mi colpisce. Chissà quante altre volte è successo, quante altre volte lui si è sentito così ed io non mi sono accorta di nulla. So di non essere brava a dimostrare ciò che provo, di aver finito per perdere tante persone nel corso degli anni anche per questo. Quante cose ho taciuto facendo spazio in un cassetto a cumuli di rimpianti, dimenticato di averne perché sono troppo codarda per sbatterci la testa contro. Evito il dolore quando posso e per farlo ne aggiungo altro, camminando in un circolo infinito e vizioso di cui non ho più alcun controllo. Mi sta bene ed è assurdo persino pensarlo ma è così.
Nessuno mi ha insegnato ad amare, quello che ho imparato si è sciolto sotto rivoli di lacrime anni fa e da allora il cuore ha taciuto troppo a lungo. È stretto nel petto e sono io a soffocarlo tra le dita impedendogli di lasciarmi vivere: sono la peggiore nemica di me stessa.

Così, combatto una guerra. Provo a non controllare il suono che si espande tra le costole tanto da farmi perdere stabilità quando Draven mi è accanto. Scappo dall'angoscia che grida e si dimena rischiando di farmi implodere. Voglio combattere la paura che mi soffoca e che tenta di sopire l’istinto quanto me lo ritrovo davanti.
Sento una fitta e scuoto le spalle con un movimento lento, prendendo un po’ più di spazio mentre lui parla ed io trattengo a malapena il sorriso.
È una descrizione accurata quella che fa ed è molto vera. Non dovrei preoccuparmi di niente ma non è facile e questo mi rende tesa: paura e desiderio con la stessa imperturbabile intensità.
«Ogni volta che menti mi rendi più difficile crederti».
Alzo gli occhi, lo osservo e lascio che quelle parole mi feriscano.
La fiducia si sgretola lentamente e l’istinto lo sento chiamare come una sirena tra le acque di un mare apparentemente calmo, mi trascina a fare un passo indietro.
No!
Ci risiamo ma resisto questa volta e non lo faccio, rimango immobile proprio dove so che voglio stare: non posso allontanarmi. Sento la gola andare in fiamme e il respiro mancare mentre le tempie pulsano acute. Sto lottando in silenzio e questo Draven non lo sa. Mi chiedo per la prima volta se adesso veramente per me sarebbe più facile andare via, ma non ne sono poi così sicura. Sapere che possa ferirlo è qualcosa che non riesco a sopportare, capire che farebbe male anche a me mi destabilizza.
Resisto.
Combatto.
Il corpo si ritrae appena ma non per sfuggirgli: mi raggomitolo in quel piccolo spazio mentre il viso di Draven si avvicina e il respiro accarezza la pelle.
«Ci provo» dico con un filo di voce. Il cuore batte ritmi frenetici e le guance prendono vita.
Vorrei baciarlo adesso e non sentire altro che i brividi accarezzarmi la pelle. Mi aggrappo del tutto a questa sensazione, desidero che mi trascini giù, ma parlo ancora, cerco lucidità.
«Lo so che tu non meriti questa versione di me ma quello che sento mi spaventa, Drav. Mi sento totalmente incapace di poter gestire qualcosa di così grande».
Mi sposto leggermente, una ‘piccola’ confessione esce dalle mie labbra senza indugio. Sto pregando affinché lui riesca a capire ogni singola parola. Faccio fatica, la voce trema; arriccio le labbra e le mordo nella speranza che riesca a bloccarne il moto involontario.
«Vorrei riuscire a dirti tante cose, che invece si bloccano nella gola, ed essere sempre del tutto sincera su quello che provo quando sei con me, quando sei lontano...»
Prendo un attimo di pausa, il panico sopraggiunge. Stringo le dita sul tessuto della sua felpa. «O quando discutiamo, come ora» finisco per sottolineare abbassando appena la voce. Gli occhi seguono i movimenti della mano che sale, scorre sul tessuto e accarezza il suo petto.
«E così, lo so, avrei dovuto accoglierti e dirti che mi eri mancato così tanto da non farmi dormire la notte e confessarti che tutte le volte che mi hai chiesto di spingerci oltre io dentro urlavo “sì”» sottolineo quelle parole scuotendo appena la testa e rivolgo lo sguardo in direzione delle fiamme. Sono certa di bruciare adesso, il calore lo sento e mi fa sudare.
«È ciò che sto facendo anche adesso».
Con il cuore in gola torno a guardarlo.



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