A n t i h e r o

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view post Posted on 9/3/2023, 22:24
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It's me... Hi! I'm the problem. It's me!
Kensington Gardens, un quadro di acquerelli e gioia e bellezza.
Si estende davanti ai miei occhi e tutto intorno a me con una spontaneità quasi irritante, eppure sorrido al loro indirizzo come ho sorriso a Emma Woodhouse la prima volta che i nostri sguardi si sono incrociati. Sono una nota stonata in uno scenario che porta questi colori. Io, grigia e sbiadita, non spicco tra le pennellate di verde e fucsia né di fronte ai getti allegri delle fontane; all’aspetto sempre curato degli edifici.
Osservo una madre spingere un passeggino con espressione appagata. Ha i capelli arruffati, sistemati alla bell’e meglio con una grande pinza color verde pisello e una tuta spessa dal tessuto usurato. Il suo viso è radioso e gli occhi brillano. Istintivamente, nel vederla sorridere, le mie labbra si schiudono e le estremità si arricciano all’insù. Come la luna, risplendo di luce riflessa.
Imbocco un sentiero laterale, allontanandomi dalla folla. Il mantello scuro scende dolcemente sulle spalle, intarsiato di ghirigori argentati che richiamano la trama di grandi gigli astratti. Al collo e ai polsi, gioielli di una famiglia che non li ha mai reclamati. Ancora una volta, una storia che non mi appartiene.
C’è un motivo se mi sono inoltrata a Londra oggi e non è per il bisogno di contatto umano —che poi, se anche fosse, non lo ammetterei mai. A guardarmi dall’esterno, nessuno penserebbe che ho un appuntamento con uno spacciatore per la mia dose settimanale di Psilocibina, la sola cosa che mi consenta di andare avanti da un anno a questa parte. Abbasso il capo e mi concedo una risata bassa. Chissà quale sarebbe la reazione del pubblico nell’apprendere che non sono la damsel in distress ma l’antieroe della storia! Di certo, mi dico, darei una bella scossa a una trama sempre uguale a se stessa da che il mondo ha deciso di individuarci come il sesso debole.
Se solo sapessero di cosa sono capace…

Lo sculettare buffo di una papera mi distrae. Porto lo sguardo sullo specchio d’acqua. Ogni cosa nella vita sembra pretendere da me che non dimentichi chi sono; soprattutto chi sono rispetto agli altri. Splendidi cigni aggraziati nuotano accanto ad anatroccoli che di strada per farsi eleganti ne hanno ancora parecchia da percorrere. Vorrei dire al Fato che so benissimo quale sia la mia posizione e che non è necessario che stia lì a ricordarmelo con assillante ossessività. Non voglio essere niente di diverso da ciò che sono. E non è cambiato nulla, anche se i miei vestiti e il mio atteggiamento suggerirebbero il contrario.
Alla fine di tutto, sono una drogata che striscia nell’ombra per un po’ di roba, no?
Scosto i lembi della cappa sul davanti, esponendo il bianco abbacinante della camicia allo sguardo del sole, ed estraggo un portasigarette d’argento dalla tasca del mantello. Poco più tardi ne stringo una tra le labbra e sorrido, ammiccante, al ragazzo che è stato così solerte nel proporsi di assistermi quando gli ho domandato se avesse da accendere.
Arretro di poco. Non manca molto all’orario fissato, ma ho ancora qualche minuto per godermi il sole e l’illusione di appartenere a questo quadro. Poi, come avviene alle illustrazioni sulle pareti di Hogwarts, tornerò nel mio —ad accogliermi colori più tetri e scenari desolanti.

Tento di individuare l’albero dove avverrà lo scambio. Modifichiamo spesso il punto d’incontro per precauzione. Lo sguardo vaga, attento. Ne identifico le fronde spoglie, cinquanta metri più in là, e mi compiaccio del fatto che nessuno sosti nelle sue vicinanze. Dunque, continuo la mia perlustrazione —stavolta nei paraggi per il puro scopo di impiegare il tempo. Sono sul punto di tornare a godermi il tondo derrière delle papere, quando una curiosità puramente femminile mi costringe ad indugiare su un’esibizione che merita quantomeno una possibilità, mi dico con animo generoso.
Aspiro, scrupolosa nella mia osservazione. Un collezionista non ha mai valutato con altrettanta meticolosità un pezzo di antiquariato. Io, d’altra parte, sono convinta di essere di fronte a qualcosa che vale la mia attenzione. Espiro, piano, le labbra rosse accostate.
Sono gli occhi ad accorgersi del tradimento e a sbarrarsi. No, cazzo. Non è possibile. Sarò anche l’antieroe, ma non mi merito tutto questo odio. Aggrotto la fronte e mi lascio coinvolgere da una risata. La situazione è talmente ridicola che non posso fare altro. È sempre per lo stesso motivo che, quando i nostri sguardi si incontrano —inevitabilmente—, gli regalo la migliore delle mie pièce teatrali.
Scosto il lembo del mantello con il braccio la cui mano regge la sigaretta in modo che si sollevi. Dopodiché, faccio scivolare l’arto opposto dietro la schiena e mi piego in un inchino. Un cavaliere così, a Kensington Gardens, sono sicura che non si sia mai visto. Recupero la posizione nello stesso momento in cui la cappa si deposita, leggiadra, sulla mia spalla e riporto la sigaretta alla bocca.

Una strana sensazione contro la gamba mi costringe ad abbassare lo sguardo. Mi ritrovo faccia a faccia con un paperotto. Gli sorrido non appena apre il becco e si esibisce nell’accenno di uno starnazzo.
“Ti ho vista, sai? So cos’hai fatto prima” sembra dirmi.
Lo spingo via con il piede, delicatamente, perché non penso di dovere spiegazioni a uno sconosciuto e per giunta con le penne. Rido per l’indignazione con cui comincia a gridare e ad andarsene via in direzione del lago, raccontando a tutti —o almeno è così che mi piace immaginare— cos’ho combinato per vendetta.
Aspiro di nuovo, sollevo il viso e, esponendo il collo alla brezza di fine dicembre, espiro. Quando torno a guardare la persona che continua a incrociare il mio cammino nei modi più improbabili, mi sorge spontanea una domanda: se io sono l’antieroe, lui chi è?

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Edited by ~ Nieve Rigos - 11/3/2023, 20:52
 
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view post Posted on 11/3/2023, 11:27
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— e n c o r e —
Inspiro.
L’aria profuma di erba appena tagliata, di rugiada, di umidità, di metallo, di frangipani; mi riempie i polmoni, alimenta ciò che sento bruciare nella carne e che necessita di venir estinta.
Espiro.
Il suono attutito delle scarpe da ginnastica sull’acciottolato come un rullo di tamburi, la tensione dei muscoli delle gambe, un vento fresco che mi scompiglia i capelli: è tutto ciò che desidero, ora.
Il sole mi accarezza il volto mentre scatto in avanti, i gomiti piegati e stretti al corpo tagliano l’aria come fanno le mie ali da falco… anche se questa carne e queste ossa lo fanno in una maniera molto più sgraziata.
Nonostante conosca l’ebrezza della libertà nella sua forma più primitiva, c’è sempre qualcosa di liberatorio nella corsa. Sento scivolare via ogni pensiero mentre mi concentro sul respiro, finché non spezzo il fiato e vado avanti fino a farmi dolere il petto: è qui che so di aver raggiunto il mio limite e, ogni volta, lo spingo un po’ più in là, un chilometro alla volta.
Incrocio dal lato opposto una ragazza che, come me, ha scelto Kensington Park per abbandonare i pensieri, lasciarli alle sue spalle. Incrociamo i nostri occhi per un istante, riconoscendo l’uno nell’altra il bisogno di allontanarci dalle nostre vite con i nostri respiri condensati a scandire la fuga. In un battito di ciglia siamo già lontani, sconosciuti come tanti altri: è questo il bello.
Non c’è più nessuno, persino le anatre dormono tra i giunchi del laghetto che supero, con le teste smeraldo nascoste sotto le ali. Io abbasso il capo e corro, più veloce, più intensamente, più forte.

Inspiro.
Il parco non è più silenzioso come un’ora fa, si è affollato di giovani madri con i loro passeggini colorati; di ragazzini che hanno marinato la scuola e se ne stanno sulle panchine sotto i salici a fumare pigramente, con ostentazione studiata; di chi, come me, preferisce stare all’aperto anziché rinchiudersi tra quattro mura che odorano solo di chiuso e gomma stantia.
Una volta mi avrebbe innervosito avere intorno gente, soprattutto mentre mi alleno, ma il mio momento sacro l’ho già avuto dove c’eravamo solo io e la strada.
Espiro.
Il mio corpo è teso come una corda: ne sento il peso mentre allungo le braccia verso l’alto e afferro saldamente la barra d’acciaio. Ne tasto la solidità della superficie fresca e umida con i palmi bendati dalla stoffa per non scivolare. Osservo le vene che mi percorrono i polsi mentre stringo la presa. Posso quasi vedere il sangue che le riempie pronte allo sforzo.
Inspiro.
La lucidità che la corsa mattutina mi ha regalato comincia a scemare e i ricordi penetrano, di nuovo. Ripenso al ballo, ripenso al volto di Emily increspato dalla sofferenza, ripenso alla mia rabbia bruciante.
Espiro.
È già passata una settimana. Mi sono permesso di tormentarmi solo quella notte, che ho passato raggomitolato sul tappeto di Isabella. Poi basta. Mi sono rialzato e ho rinchiuso tutto in un cassetto che ho sempre di cui ho sempre girato la chiave e che ho avuto l’ardire di riaprire solo per assaporare una memoria nostalgica e dolorosa. Pessima scelta, Horus.
Inspiro.
Mi sollevo facendo forza sulle spalle e sui bicipiti, tenendo rigida la schiena e unendo le gambe. Le braccia tremano per lo sforzo, i muscoli si tendono perfettamente sotto la mia pelle.
Uno, due, tre, quattro.
Il profumo dei frangipani sfuma dalla mia mente, si allontana insieme al resto delle emozioni mentre mi concentro solo e soltanto sull’esercizio. Socchiudo le labbra, ma non permetto all’aria di uscire tutta insieme o di rimanere incastrata in gola. Come nella corsa, il respiro è tutto e ogni sinapsi si concentra solo su quello, ancora una volta.
Uno, due, tre, quattro.
Non voglio che altro si intrometta: né Lei che mi guarda impassibile, mi liquida con un banale, ridicolo augurio di buona serata; né mia madre offesa perché da che sono in ferie non sono andato a trovarla come promesso; né Tu… gli Dei solo sanno quanto mi sto dannando per quel che mi hai portato a fare e a scegliere: ti odio tanto quanto ti ho amato, padre.
Uno, due, tre, quattro.
Conto con una smorfia.
Una goccia di sudore mi scivola dal collo alle scapole, attraversa i dorsali contratti, ma non sento dolore, solo la fatica del sollevare il corpo oltre l’acciaio.
Rimango così qualche secondo, osservo il parco oltre la sbarra; è frenetico, come un formicaio: l’atmosfera sonnacchiosa se ne va come la bruma sui laghetti. Mi piace venire qui, forse è per questo che ho scelto di abitare a Kensington.
Le braccia cominciano a tremare, i palmi, nonostante le bende, perdono la presa.
No, devo resistere, ancora un po’: ne ho bisogno, mi impongo.
Digrigno i denti per lo sforzo, alzo la testa e allungo il collo verso l’alto. 
Ancora: uno, due, tre, quattro.
Inspiro.
Espiro, butto fuori l’aria tutta insieme e scendo a terra, senza fiato.
Tiro un lungo sospiro mentre il petto si spande.
Mentre prendo un asciugamano che ho lasciato sulla panca di questo piccolo spiazzo per gli esercizi a corpo libero, saluto con la mano un Babbano che incontro spesso qui; è l’unico che non ha indugiato né sulla voglia rossa sotto il mio occhio sinistro né sulla sottile cicatrice che mi taglia in due il busto. È l’unico che si fa gli affari suoi in questo posto dove gli sguardi, spesso, si fanno insolenti, curiosi da sfiorare la maleducazione.
Mi asciugo il viso ed il collo, soddisfatto del mio allenamento, e mi dirigo verso la borsa dove ho ficcato la maglia e la felpa.
Sto afferrando una bottiglia d’acqua, quando mi accorgo con la coda dell’occhio di una figura che mi osserva: ecco, appunto. Lì per lì non la inquadro, mi preoccupo solo di bere ignorando la curiosità altrui, ma poi ne colgo la chioma bianca ancor prima di vederne il viso. Mi giro di scatto e, quando la riconosco per poco l’acqua non mi va di traverso, colandomi maldestramente dalla bocca e dal mento.
« Non ci posso credere. »
E lo dico sul serio, mentre mi pulisco l’acqua col dorso della mano.
« Ora fai la spia guardona, Rigos? » Seguo l’eco della sua risata e spavaldo mi ci avvicino. I suoi gioielli riverberano del riflesso del sole che li illumina e rimango sconvolto nel constatare che la Nieve che ho visto al ballo non era un miraggio. Forse dovrei dire che quella che ho visto al Ministero era frutto di qualche incantesimo camuffante: ma quando diavolo è diventata così…. Sofisticata?
L’angolo della bocca mi si arriccia mentre constato, nel vederla così riccamente abbigliata, che i nostri ruoli si sono decisamente invertiti.
Quello ordinato, preciso, ben vestito sono sempre stato io; lei, invece, era ribelle, con i capelli arruffati, sempre con qualche graffio sul viso birichino e mai troppo attenta a come aveva messo la camicia o la cravatta della divisa. Mi ha sempre preso in giro, per questo, e ora me la ritrovo davanti agghindata di tutto punto, i capelli pieni di boccoli, il rossetto che ne dipinge la bocca mentre tiene la sigaretta sorniona sulle labbra. Io, invece, sembro il contadino che incontra la signora nei giardini della reggia; sudato, con i capelli disordinati e con indosso dei pantaloni di tuta sporchi del gesso che ho usato per gli esercizi.
Dovrei sentirmi a disagio davanti questa disparità d’aspetto ma la verità è che mi diverte: i nostri incontri assolutamente sconvenienti, la casualità di ritrovarci tutti e due nello stesso parco a Londra. Certo il Fato si deve proprio divertire a metterci uno davanti all’altra per vedere chi vincerà la prossima scazzottata.
C’è però una cosa che ho capito al ballo, dopo averla vista prima così altezzosa al fianco del suo amico e poi così fragile mentre uno stronzo gli si avventava contro: è una corazza. La nuova Nieve, non è la Nieve che conoscevo io. Pensavo fosse sparita e invece no, sono sicuro che è lì dentro. E io, dal ballo, mi sono ostinato a volerla tirar fuori: anche solo per vendicarmi. Di cosa, poi, non lo so nemmeno io. O forse… forse sì, lo so.
Mi riporto la bottiglia alle labbra, assetato. Sfrutto questo momento anche per scoccarle un’occhiata indagatrice. Un papero le zampetta intorno starnazzando con fare indignato, facendo da contorno all'inchino cavalleresco che mi riserva: è un complimento?
« Sei arrossita. » Le dico con un sorriso ferino. Non è vero, ma mi diverto a stuzzicarla, a vedere se quella parte che conosco farà capolino dietro quegli occhi algidi. Del resto, se mi odia, tanto vale divertirmi a darle un motivo in più: farla arrabbiare è la cosa che mi è sempre venuta meglio.
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Edited by Horus Sekhmeth - 8/5/2023, 16:24
 
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«Come potrebbe essere altrimenti al cospetto di un tale bocconcino?»
La risposta arriva con studiata lentezza. Prima di servirgliela, mi prendo il tempo di allontanare la sigaretta dalla bocca, di umettare le labbra arricciate in un sorriso e di riservargli uno sguardo di sfida. Mi piace pensare di non aver negato, di aver concesso una tacita convalida alla sua osservazione solo per smentirla con il sarcasmo; con il rimando a un trascorso di cui entrambi siamo ben consapevoli. Un’altra ragazza, al posto mio, si sarebbe affrettata a rifilargli un finto no o sarebbe arrossita, intimidita dalla sfacciataggine di Horus e dalle implicazioni del suo commento?
«Ti fai spesso vanto della tua avvenenza? Ti piace piacere?» rilancio poco dopo, secca.
Prendo in mano lo scettro del potere. Perché è questo che facciamo adesso io e Horus, non è così? Tentare di capire chi resista di più alle provocazioni dell’altro prima di defilarci e tornare ciascuno alla propria vita. È per questo motivo che lascio correre i miei occhi con spudoratezza su ogni parte del suo corpo esposta alla mia mercé: i fianchi stretti, gli addominali cesellati, il petto ampio e definito, la cicatrice che gli attraversa il busto longitudinalmente, le braccia toniche sulle quali ha sorretto il peso alla sbarra, le spalle larghe, il collo taurino. Non tralascio alcun particolare. Concedo ai secondi di farsi minuti, al silenzio di dilatarsi —inframmezzato solo dai sussurri del vento, dallo starnazzare delle anatre e dal chiacchiericcio dei passanti— e al tempo di diluirsi.
Poi, passo al viso con snervante minuzia. Il mento coperto dalla barba curata, la linea dritta della mascella, il naso elegante, gli occhi chiari, la voglia che ricordo di avergli accarezzato così tanti anni fa da rendere l’immagine più irreale che parte di un passato effettivo. Conduco la sigaretta alla bocca e aspiro, le pupille fisse nelle sue.
Quand’è che abbiamo smesso di essere bambini?
«Vieni a mettere in mostra la mercanzia?» incalzo, mentre volute di fumo serpeggiano oltre la fenditura sorta tra la piega delle mie labbra. Sto sorridendo. «Devo dire che quello che vedo, il regalino che ti ho lasciato —impenitente, rivolgo un cenno con il mento alla gamba lesa— «e la storiella su come sei sopravvissuto al mostro dagli occhi bianchi dovrebbero aiutarti a fare qualche conquista».
In realtà, non penso che Horus abbia bisogno di assistenza con le donne. Correvano sospiri sul suo conto già a scuola e lo sapevo persino io che ero immune alle chiacchiere. Non credo che le cose siano cambiate negli anni, anche se la scenetta cui ho assistito al ballo potrebbe avermi fornito qualche indizio sul groviglio sentimentale in cui dev’essersi cacciato. A tal proposito…
Le mie dita tamburellano pigramente sul bicchiere di vetro. Sento il calore dell’alcool pungermi la gola e un crescente bisogno di ottundimento farsi spazio nella pancia, avvilupparmi il cervello. Arrivata a questo punto della serata, sono sicura che la fiala che mi è stata inviata non abbia reagito bene a contatto con il mio sistema e che, oltre a compartecipare a molte delle scelleratezze che ho messo in atto stasera, stia dando fuoco al craving. Devo tornare in stanza e sperare che il nuovo pacchetto con la psilocibina sia arrivato, che il ritardo degli ultimi giorni si sia concluso…
Una sensazione di vicinanza improvvisa innesca in me una reazione altrettanto celere. Volto il viso verso sinistra e il braccio scatta per poggiarsi contro il petto della persona che si è accostata a me senza annunciarsi —un riflesso esacerbato dall’aggressione che ho agito e insieme subìto poco prima. Il palmo e le dita accartocciate esercitano una pressione che vuole bloccare e respingere; difendere. L’adrenalina scorre nelle mie vene, guidata dall’istinto primordiale della sopravvivenza a compiere la mossa successiva
È curioso, tuttavia, che il profumo della pelle di chi non riesco a vedere mi risulti ambiguamente familiare e il tocco si dimostri caldo e gentile. Lo sconosciuto sembra non avere alcuna intenzione di nuocermi. È per la brevità del lasso di tempo che passa tra l’avvicinamento e il momento in cui la voce di Horus raggiunge il mio orecchio che non lo attacco. Non ne ho il modo.
Il mio corpo libera la tensione accumulata in quei pochi secondi con un brivido, che si diparte dalla porzione di pelle dove il soffio di fiato del ragazzo si posa giù fino alla spina dorsale. C’è sollievo in quel tremore; e stupore. Infine, quando egli si distacca, sollievo.

L’effetto di aconito e belladonna acuisce l’impudenza dei miei modi e la furbizia dei miei lineamenti. Se mai ho pensato di risparmiare qualcosa a Horus Sekhmeth, dev’essere stato in una vita precedente.
«Oh! Immagino che userai anche la storiella del ballo» lo stuzzico «e di come mi hai salvata da un malfattore, cavaliere dalla brillante armatura». Mi piace descriverlo così, fosse soltanto perché qualcosa mi suggerisce che lo detesti. «Racconterai anche che hai tentato di ammazzarmi senza motivo al Ministero? Così, chiedo per curiosità!»
Mi assicuro che la mano che regge la sigaretta funga da appoggio per il braccio opposto, dopodiché deposito il mento sul palmo con l’espressione interessata di una scolara che attenda di vedere risolto un dubbio dal proprio insegnante.
Oh, Horus! Ci dispiace così tanto per la tua tranquilla mattinata…

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Edited by ~ Nieve Rigos - 31/3/2023, 14:29
 
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view post Posted on 23/3/2023, 20:01
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— e n c o r e —
Vorrei poter dire che lo sguardo chirurgico di Nieve mi mette a disagio; invece non lo fa, ma mi infastidisce come mi studia con quella sigaretta ostentata, la minuzia plateale nei suoi occhi indagatori, la malizia nell’espressione del suo viso, delle labbra rosse incurvate con studiata soddisfazione.
Piego la testa di lato, il sorriso sulle mie labbra non ha minimamente accennato a scomparire, nonostante l’insolenza di lei. La lascio fare e non nascondo con un pizzico di superbia. Non voglio mostrarmi infastidito, nonostante io lo sia davvero. Anzi quando risale il mio viso, sostengo il suo sguardo con sfida; posso quasi riconoscere lo stesso bagliore che anima entrambi i nostri occhi.
Non sono sicuro che mi piaccia piacere: da piccolo la mia natura delicata e femminea mi aveva procurato un mucchio di complessi che solo col tempo sono riuscito a mettere a tacere. Mi ero convinto che sarei sempre stato così, un ragazzino che poteva esser spazzato via con un semplice Flipendo, così ubriaco delle rassicurazioni soffocanti di mia madre, da credere di dover convivere con la fragilità che sin dalla nascita i Medimaghi hanno ben pensato di appiopparmi.
Poi qualcosa è scattato: è stato il Quidditch e tutti i Bolidi presi, principalmente, a farmi comprendere che erano tutte cazzate, quelle di mia madre e la sua troupe idiota del San Mungo. Allora ho capito che migliorare il mio fisico, aiutava la mia mente a defluire i pensieri di troppo: ogni chilometro corso, ogni colpo in volo rompevano le sbarre della gabbia in cui ero stato costretto.
Quindi forse, sì, mi piace piacere: almeno, a me stesso.
Mi concedo uno sguardo altrettanto approfondito a Nieve, ripagandola —di nuovo— con lo stesso Galeone. Ho già stabilito che non riconosco quasi più la Grifondoro che avevo imparato a conoscere e nonostante il pesante mantello che indossa, scorgo il suo corpo magro. Del resto, è impossibile dimenticarlo, non quando l’ho afferrata al Ministero, quando le mie dita si chiudevano fin troppo facilmente sul suo braccio. Però c’è qualcosa di ammaliante in lei, un fascino impregnato di una sofferenza continua, perpetua. Continuo ad avere la sensazione di riconoscere, in lei, qualcuno ma mi sfugge continuamente l’appartenenza di questa somiglianza.
« Hai finito? Al prossimo giro, pagami almeno. » Le dico divertito dopo un po’, accartocciando la bottiglia vuota e lanciandola sopra la borsa di fianco a me.
Incrocio le braccia, malevolo: lo faccio apposta. Non c’è minima traccia di vergogna in me: quella mi ha lasciato un bel po’ di tempo fa, grazie agli Dei. A dirla tutta, la sua malizia mi diverte… ora, perlomeno. Ricordo piuttosto vividamente le sue parole quando è riuscita ad atterrarmi, nell’ufficio di quell’Avvomago. Il modo in cui si è chinata su di me e mi ha preso il mento, come mi ha sputato quelle parole e di come io gli ho soffiato il mio vaffanculo. Non pensavo l’avrei più rivista, ma, in particolare modo, non pensavo le avrei più parlato, non dopo l’odio che mi sono sentito scivolare sulla pelle.
E invece, eccoci qui. Ti ho scorta, sotto quella corazza di donna emancipata.
Mi chino a prendere un asciugamano, ignorando la frecciatina sulla mia gamba. È vero: mi ha lasciato un bel segno. Non era niente che non potesse essere guarito con la Magia senza lasciare nemmeno un segno sulla pelle, ma paradossalmente mi fido più di un losco guaritore di mia conoscenza a Nocturn Alley anche se questo comporta cicatrici ben più evidenti.
« Sì in effetti. » Le rispondo mentre mi asciugo i capelli umidi. Mi viene quasi da roteare gli occhi per la sua ingratitudine, ma so che le fornirei un valido appiglio per segnare un ipotetico punto sulla lavagna che ci vede avversari.
« Salvare una donzella in difficoltà? Niente fa rimorchiare più di questo. » Le rispondo per le rime, facendo saettare la lingua fra le labbra: quante volte vuole insinuarlo? « Da come ribadisci spesso questo concetto, vuoi forse dirmi che vorresti essere rimorchiata anche tu? » Continuo a punzecchiarla, ma il sorriso sfuma subito in una smorfia infastidita. Nascondo il viso nell’asciugamano, con la scusa di tamponarlo dal sudore.
Bel colpo, Rigos, ci sei quasi riuscita.
« Comunque mi sembra di averti anche salvato il culo. » Insinuo. Non voglio ribadire ciò che le ho già spiegato. Sono tentato di farlo, in verità, ma mi trattengo. Non deve capire quanto mi dia fastidio questo argomento e, onestamente, mi pento di essermi lasciato sfuggire il controllo su Hagalaz. Involontariamente, mentre abbasso le braccia, scocco un’occhiata all’anello con la Runa incastonata. Poi torno a guardare la sardonica proprietaria di quelle labbra insolenti.
So bene che, se la sua Magia fosse davvero esplosa, mettendomi a repentaglio, forse non l’avrei mancata. Come non ho mancato quei figli di puttana che hanno provato a farmi fuori.
« Anzi, a dire il vero, te l'ho salvato due volte. »
E per ribadire bene il concetto, le sventolo davanti la faccia due dita alzate.
« Mi devi ben due favori, Rigos. »

Oh, sì: questo sì che ti dà fastidio, non è così?
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Edited by Horus Sekhmeth - 8/5/2023, 16:24
 
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Battibeccare con Horus Sekhmeth è un bel passatempo, dopotutto, specie se l’offerta comprende la vista sulle sue spalle e sui suoi addominali. Da studentessa, non ho mai —neppure per caso— pensato a lui con malizia. Non importava quante e quali voci corressero su di noi e sulle nostre tresche negli sgabuzzini delle scope, nei labirinti ai balli, negli spiazzi durante le lezioni di Cura delle Creature Magiche. In Horus non ho mai visto nient’altro che un amico cui fare i dispetti e al quale rinfacciare la sua popolarità tra le ragazze a scuola. Adesso, serpeggia tra di noi un velo di inesplorata impudicizia che fa capolino tra i flutti d’odio, rancore e inespressa gratitudine.
«Io so quello che voglio e non ho bisogno di usare mezzucci per prendermelo» rispondo più per cancellare dal suo immaginario l’idea che una ragazza abbia bisogno di essere approcciata per prima da un uomo per sentirsi legittimata a desiderare a propria volta. Continua a tornarmi in mente la scena di Emily Rose, immobile al centro del bar con l’aria dimessa come in attesa di una mossa da parte di Horus. È a questo che è abituato? Aspiro l’ultimo boccone e lo rilascio con lentezza, gli occhi di ghiaccio fissi in quelli di Horus. «Se ti volessi, ti prenderei. Contro un muro, su un tavolo, sul pavimento, in qualsiasi momento della giornata». Le mie parole scivolano calde come un bourbon lasciato invecchiare e bevuto durante una giornata fredda davanti a un camino acceso. «Non avrei bisogno di aspettare un tuo gesto».
Il sesso è un tema sul quale Horus deve procedere con attenzione. Non m’importa di essere circondata da bambini e famiglie. Attorno a me si leva un’aura di lussuria che potrebbe avvolgerlo, se solo volessi compiere un passo nella sua direzione. Non è detto che riceverei un sì, di questo sono consapevole, ma mi basterebbe che la sentisse, la concupiscenza che sobbolle oltre la superficie di fragilità che tutti mi attribuiscono —il potere che essa trascina con sé.
Il mio sguardo si distacca da lui e corre all’albero designato per l’incontro. La persona con cui devo fare affari non è ancora arrivata e la sigaretta risplende ancora tra le mie dita. Istintivamente, la spengo sul dorso della mano destra, là dove la cicatrice del panettiere svetta sulla pelle con fierezza. Penso a quel bastardo con rancore e il desiderio di vendetta, per un attimo, mi consuma. Serro appena le labbra per il dolore, mentre Horus mi rinfaccia i favori che gli devo. Potrei correggerlo e continuare questo gioco bambinesco per cui entrambi siamo troppo cresciuti. Invece, un’idea mi coglie di sorpresa quando l’immagine dell’ultimo ballo scolastico torna a farmi visita.
«Facciamo che te ne devo tre» esclamo, tornando a guardarlo.
La mia espressione è riflessiva, come se stessi ancora vagliando i termini dell’accordo da proporgli. In effetti, la mia mente continua a domandarsi se Horus Sekhmeth sia la persona giusta per l’obiettivo che mi propongo di raggiungere, ma mi accorgo presto di avere poche alternative. A scuola sono una puttana, la mia famiglia adottiva è stata dilaniata dalle menzogne, di mio non ho nulla. Sarà un paradosso, eppure lo straniero che mi fronteggia ha ancora qualcosa da darmi.
«Ho bisogno che mi aiuti con la magia. Non riesco più a usarla». È un’informazione che so di avergli distrattamente dato al ballo. Sono altrettanto convinta che non la ricordi, impegnato com’era nell’assurdo gioco di sguardi con la Rose. «Hai presente la storia del Ministero? Sarò anche un parassita che porta devasto, ma non sono un Obscurus. Semplicemente ho perso il controllo della magia. Non so più canalizzarla e, quando provo qualcosa di molto forte, si dispende nell’ambiente. È come se l’ambiente fosse diventato la mia nuova bacchetta».
Il ricordo del giorno in cui Aurelius Morgan è entrato nella mia vita vela i miei occhi di una sofferenza arcana, insopportabile. Percepisco la vibrazione delle finestre della casa di Grimilde, il tintinnio dei cristalli dei lampadari a Villa dei Gigli e il tremore dell’acciottolato davanti al colonnato poco prima che svenissi.
«Come avrai notato al ballo, la mia popolarità a scuola non mi permette di rivolgermi a nessuno e, in realtà, non voglio nemmeno che si sappia. Per ora ho mascherato abbastanza bene» aggiungo. «E, quanto al pagamento, chiedi soldi, antichi manufatti o quello che ti pare. Avrai ciò che ti spetta! Chi mi conosce sa che pago sempre i miei debiti».
Il mio piglio da affarista emerge con chiarezza. Non ho intenzione di prendermi gioco di lui, né di rendere questa proposta un appiglio per forme di sentimentalismo. Non torneremo amici, non mangeremo cioccorane in ricordo dei bei vecchi tempi e non ci racconteremo degli anni trascorsi lontani per colmare il vuoto di un silenzio che ha già detto abbastanza —“Non ti voglio nella mia vita”. A renderlo evidente il legame con Eloise Lynch.
È un accordo professionale. «Ci stai o hai bisogno di moine?»

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view post Posted on 8/5/2023, 18:32
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— e n c o r e —
La ascolto con un misto di divertimento e sorpresa.
Nieve non è mai stata una che va troppo per il sottile e in questa sua schiettezza posso dire che almeno questo lato di lei non se n’è andato, ingurgitato dalla maschera della sua nuova esistenza.
Poi scoppio in una risata forte che proruppe dalle mie labbra in maniera così genuina che per un po’ proprio non riesco a fermarla. In realtà ricordo bene cosa hanno sibilato quei ragazzi alla festa ad Hogwarts. Mi sono persino domandato, successivamente, come se la fosse procurata quella nomea da poco di buono. Io, però, sono l’ultima persona a poter giudicare comportamenti libertini: sono peccatore anch’io, no? Perciò, l’aura di desiderio perpetuo che mi sembra avvolgere Nieve, con le sue provocazioni e il suo sguardo licenzioso sul mio corpo, non mi sconvolge. Ciò che mi sorprende è solo la sua convinzione di poter fare di me ciò che desidera, se solo lo volesse, dice. A dirla tutta, pur non avendo mai pensato a lei in alcun altro modo se non, al massimo, con un’affettuosa pacca sulla spalla, l’idea potrebbe persino solleticarmi.
« Tu prenderesti me? » Ripeto, sarcastico. Stavolta sono io a guardarla attentamente con una lenta occhiata minuziosa, soffermandomi sulla linea del collo elegante, sul suo rossetto rosso e sulla vita sottile che si intravede al di sotto del pesante mantello. Mi balena nuovamente la circonferenza del suo braccio, l’impressione di poterlo rompere con la sola pressione dell’indice e del pollice.
« Sono troppo violento per una signorina perbene come te. » Dico, sollevando le sopracciglia con scetticismo, la malizia sulle labbra e un'allusione –doppia, invero– di facile interpretazione. Non nego a me stesso un’immagine piuttosto lasciva di lei e del suo collo nelle mie mani. Questo pensiero non mi disturba come avrebbe fatto in passato; ho abbracciato totalmente la mia natura e, onestamente, non me ne vergogno.
… per la maggior parte delle volte almeno.
“Potrei spezzarti come un ramoscello, se solo lo volessi”: è questa la frase che sul momento mi è venuta in mente ma che non ho pronunciato. Non so da cosa derivi la sua magrezza, ma so che la percezione del proprio corpo è un argomento troppo delicato persino per due come noi, abituati a lanciarsi frecciatine al vetriolo. Io, per primo, ho sofferto in passato per la mia fragilità e non ho intenzione di insinuare nient’altro, sul suo corpo.
Mi volto senza aggiungere altro, infilandomi frettolosamente la felpa e buttandomi sulla spalla la borsa della palestra. È stato un siparietto divertente, ma mi sono stancato e ho solo bisogno di una doccia.
Tuttavia mi trattengo ancora e noto il modo in cui lei si spegne la sigaretta sul dorso della mano, cogliendo nel suo viso non più malizia, ma dolore. Corrugo la fronte per la contrarietà e la repulsione che mi ispira quel gesto inutile. Non l’ascolto immediatamente, sono occupato a notare una cicatrice spessa sulla sua mano. Che razza di abitudine è quella di spegnersi una sigaretta in questo modo? Che gesto di… disprezzo verso se stessi comunica?
Mi mordo le labbra, perché sono tentato di fare un commento caustico, ma è quando colgo ciò che mi sta dicendo che accantono questo pensiero e mi concentro su di lei. Ci tornerò a tempo debito, ne sono certo anche se non so né il modo né il contesto.
Rimango in silenzio, ancora una volta stupito dal suo repentino cambio d’umore.
Lei che chiede aiuto a me, dopo tutto questo tempo e dopo ciò che mi ha fatto patire al Ministero, è davvero il colmo. Cerco di ripescare dalla memoria l’episodio a cui fa riferimento, ma tutto ciò che mi torna davanti agli occhi è la figura di Emily immobile al centro della sala, in attesa che sia io a muovermi verso di lei. Stringo la presa sulla tracolla, le nocche si sbiancano, ma rimango impassibile davanti a Nieve.
« Non mi interessano né denaro né i manufatti, figuriamoci le moine. » Commento serio. Lascio sospesa la mia decisione ancora per qualche istante e mi chiedo se non ci sia qualcosa sotto. Se però la schiettezza di Nieve è un tratto che ricollego all’amica che conoscevo, inevitabilmente questa si collega anche alla sua mancanza di secondi fini. So che non è un Obscurus, l’ho capito dal momento in cui l’ho vista tentennare quando mi ha preso il viso; non la prima volta con disprezzo e rabbia, ma la seconda, quando ho colto, anche se solo per una frazione di secondo, il velo delle lacrime nei suoi occhi stinti.
« Ma saprò prendermi la mia ricompensa a tempo debito. » Un ghigno torna sulle mie labbra ancora una volta, mentre mi incammino.
Quando le passo vicino mi trattengo qualche secondo, piegando appena il capo per osservare il profilo dei suoi capelli candidi scivolare in morbide onde sulle sue spalle ammantate. La leggera aria che ci sfiora mi porta il suo odore che sa di fumo di sigaretta e si mescola alla freschezza della neve, a qualcosa di fresco, fragrante come il profumo delle mattinate d’inverno.
« Fatti trovare questa domenica davanti il civico quarantasei di Queensway, alle nove di mattina. » Le ordino.

Non so bene come proprio io possa aiutarla in un compito tanto delicato quanto raro, ma so, invece, quale sarà la mia ricompensa. So anche che Nieve non ne sarà tanto felice, forse.

[ Harder, Better, Faster, s t r o n g e r ]Code © Horus




 
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