— e n c o r e —
Inspiro.
L’aria profuma di erba appena tagliata, di rugiada, di umidità, di metallo, di frangipani; mi riempie i polmoni, alimenta ciò che sento bruciare nella carne e che necessita di venir estinta.
Espiro.
Il suono attutito delle scarpe da ginnastica sull’acciottolato come un rullo di tamburi, la tensione dei muscoli delle gambe, un vento fresco che mi scompiglia i capelli: è tutto ciò che desidero, ora.
Il sole mi accarezza il volto mentre scatto in avanti, i gomiti piegati e stretti al corpo tagliano l’aria come fanno le mie ali da falco… anche se questa carne e queste ossa lo fanno in una maniera molto più sgraziata.
Nonostante conosca l’ebrezza della libertà nella sua forma più primitiva, c’è sempre qualcosa di liberatorio nella corsa. Sento scivolare via ogni pensiero mentre mi concentro sul respiro, finché non spezzo il fiato e vado avanti fino a farmi dolere il petto: è qui che so di aver raggiunto il mio limite e, ogni volta, lo spingo un po’ più in là, un chilometro alla volta.
Incrocio dal lato opposto una ragazza che, come me, ha scelto Kensington Park per abbandonare i pensieri, lasciarli alle sue spalle. Incrociamo i nostri occhi per un istante, riconoscendo l’uno nell’altra il bisogno di allontanarci dalle nostre vite con i nostri respiri condensati a scandire la fuga. In un battito di ciglia siamo già lontani, sconosciuti come tanti altri: è questo il bello.
Non c’è più nessuno, persino le anatre dormono tra i giunchi del laghetto che supero, con le teste smeraldo nascoste sotto le ali. Io abbasso il capo e corro, più veloce, più intensamente, più forte.
Inspiro.
Il parco non è più silenzioso come un’ora fa, si è affollato di giovani madri con i loro passeggini colorati; di ragazzini che hanno marinato la scuola e se ne stanno sulle panchine sotto i salici a fumare pigramente, con ostentazione studiata; di chi, come me, preferisce stare all’aperto anziché rinchiudersi tra quattro mura che odorano solo di chiuso e gomma stantia.
Una volta mi avrebbe innervosito avere intorno gente, soprattutto mentre mi alleno, ma il mio momento sacro l’ho già avuto dove c’eravamo solo io e la strada.
Espiro.
Il mio corpo è teso come una corda: ne sento il peso mentre allungo le braccia verso l’alto e afferro saldamente la barra d’acciaio. Ne tasto la solidità della superficie fresca e umida con i palmi bendati dalla stoffa per non scivolare. Osservo le vene che mi percorrono i polsi mentre stringo la presa. Posso quasi vedere il sangue che le riempie pronte allo sforzo.
Inspiro.
La lucidità che la corsa mattutina mi ha regalato comincia a scemare e i ricordi penetrano, di nuovo. Ripenso al ballo, ripenso al volto di Emily increspato dalla sofferenza, ripenso alla mia rabbia bruciante.
Espiro.
È già passata una settimana. Mi sono permesso di tormentarmi solo quella notte, che ho passato raggomitolato sul tappeto di Isabella. Poi basta. Mi sono rialzato e ho rinchiuso tutto in un cassetto che ho sempre di cui ho sempre girato la chiave e che ho avuto l’ardire di riaprire solo per assaporare una memoria nostalgica e dolorosa. Pessima scelta, Horus.
Inspiro.
Mi sollevo facendo forza sulle spalle e sui bicipiti, tenendo rigida la schiena e unendo le gambe. Le braccia tremano per lo sforzo, i muscoli si tendono perfettamente sotto la mia pelle.
Uno, due, tre, quattro.
Il profumo dei frangipani sfuma dalla mia mente, si allontana insieme al resto delle emozioni mentre mi concentro solo e soltanto sull’esercizio. Socchiudo le labbra, ma non permetto all’aria di uscire tutta insieme o di rimanere incastrata in gola. Come nella corsa, il respiro è tutto e ogni sinapsi si concentra solo su quello, ancora una volta.
Uno, due, tre, quattro.
Non voglio che altro si intrometta: né Lei che mi guarda impassibile, mi liquida con un banale, ridicolo augurio di buona serata; né mia madre offesa perché da che sono in ferie non sono andato a trovarla come promesso; né Tu… gli Dei solo sanno quanto mi sto dannando per quel che mi hai portato a fare e a scegliere: ti odio tanto quanto ti ho amato, padre.
Uno, due, tre, quattro.
Conto con una smorfia.
Una goccia di sudore mi scivola dal collo alle scapole, attraversa i dorsali contratti, ma non sento dolore, solo la fatica del sollevare il corpo oltre l’acciaio.
Rimango così qualche secondo, osservo il parco oltre la sbarra; è frenetico, come un formicaio: l’atmosfera sonnacchiosa se ne va come la bruma sui laghetti. Mi piace venire qui, forse è per questo che ho scelto di abitare a Kensington.
Le braccia cominciano a tremare, i palmi, nonostante le bende, perdono la presa.
No, devo resistere, ancora un po’: ne ho bisogno, mi impongo.
Digrigno i denti per lo sforzo, alzo la testa e allungo il collo verso l’alto.
Ancora: uno, due, tre, quattro.
Inspiro.
Espiro, butto fuori l’aria tutta insieme e scendo a terra, senza fiato.
Tiro un lungo sospiro mentre il petto si spande.
Mentre prendo un asciugamano che ho lasciato sulla panca di questo piccolo spiazzo per gli esercizi a corpo libero, saluto con la mano un Babbano che incontro spesso qui; è l’unico che non ha indugiato né sulla voglia rossa sotto il mio occhio sinistro né sulla sottile cicatrice che mi taglia in due il busto. È l’unico che si fa gli affari suoi in questo posto dove gli sguardi, spesso, si fanno insolenti, curiosi da sfiorare la maleducazione.
Mi asciugo il viso ed il collo, soddisfatto del mio allenamento, e mi dirigo verso la borsa dove ho ficcato la maglia e la felpa.
Sto afferrando una bottiglia d’acqua, quando mi accorgo con la coda dell’occhio di una figura che mi osserva: ecco, appunto. Lì per lì non la inquadro, mi preoccupo solo di bere ignorando la curiosità altrui, ma poi ne colgo la chioma bianca ancor prima di vederne il viso. Mi giro di scatto e, quando la riconosco per poco l’acqua non mi va di traverso, colandomi maldestramente dalla bocca e dal mento.
« Non ci posso credere. »
E lo dico sul serio, mentre mi pulisco l’acqua col dorso della mano.
« Ora fai la spia guardona, Rigos? » Seguo l’eco della sua risata e spavaldo mi ci avvicino. I suoi gioielli riverberano del riflesso del sole che li illumina e rimango sconvolto nel constatare che la Nieve che ho visto al ballo non era un miraggio. Forse dovrei dire che quella che ho visto al Ministero era frutto di qualche incantesimo camuffante: ma quando diavolo è diventata così…. Sofisticata?
L’angolo della bocca mi si arriccia mentre constato, nel vederla così riccamente abbigliata, che i nostri ruoli si sono decisamente invertiti.
Quello ordinato, preciso, ben vestito sono sempre stato io; lei, invece, era ribelle, con i capelli arruffati, sempre con qualche graffio sul viso birichino e mai troppo attenta a come aveva messo la camicia o la cravatta della divisa. Mi ha sempre preso in giro, per questo, e ora me la ritrovo davanti agghindata di tutto punto, i capelli pieni di boccoli, il rossetto che ne dipinge la bocca mentre tiene la sigaretta sorniona sulle labbra. Io, invece, sembro il contadino che incontra la signora nei giardini della reggia; sudato, con i capelli disordinati e con indosso dei pantaloni di tuta sporchi del gesso che ho usato per gli esercizi.
Dovrei sentirmi a disagio davanti questa disparità d’aspetto ma la verità è che mi diverte: i nostri incontri assolutamente sconvenienti, la casualità di ritrovarci tutti e due nello stesso parco a Londra. Certo il Fato si deve proprio divertire a metterci uno davanti all’altra per vedere chi vincerà la prossima scazzottata.
C’è però una cosa che ho capito al ballo, dopo averla vista prima così altezzosa al fianco del suo amico e poi così fragile mentre uno stronzo gli si avventava contro: è una corazza. La nuova Nieve, non è la Nieve che conoscevo io. Pensavo fosse sparita e invece no, sono sicuro che è lì dentro. E io, dal ballo, mi sono ostinato a volerla tirar fuori: anche solo per vendicarmi. Di cosa, poi, non lo so nemmeno io. O forse… forse sì, lo so.
Mi riporto la bottiglia alle labbra, assetato. Sfrutto questo momento anche per scoccarle un’occhiata indagatrice. Un papero le zampetta intorno starnazzando con fare indignato, facendo da contorno all'inchino cavalleresco che mi riserva: è un complimento?
« Sei arrossita. » Le dico con un sorriso ferino. Non è vero, ma mi diverto a stuzzicarla, a vedere se quella parte che conosco farà capolino dietro quegli occhi algidi. Del resto, se mi odia, tanto vale divertirmi a darle un motivo in più: farla arrabbiare è la cosa che mi è sempre venuta meglio.
[ Harder, Better, Faster, s t r o n g e r ]Code © Horus
Edited by Horus Sekhmeth - 8/5/2023, 16:24