Non mi piaceva sprecare il tempo in futili questioni ordinarie. L'attesa al bancone di Florian, ad esempio, riusciva a urtare i miei nervi già tesi, come se non fosse già abbastanza difficile aver trovato la forza e il coraggio di finire quella giornata a Diagon Alley. Non avevo idea del perché ci fossi venuta proprio quel giorno, ma forse la spinta vera e propria mi era stata data dai discorsi farneticanti di mia sorella sui buoni propositi e le questioni irrisolte. Solo Morgana sapeva quante ne avessi delle une e delle altre!
Fiona, che Merlino l'avesse in gloria, aveva quel modo tutto suo di affrontare la vita, come se tutto fosse in equilibrio precario su un filo sottile e lei dovesse mantenere ben tesi i due capi dell'esistenza stessa, bilanciando dare e avere, così come bene e male. Non le invidiavo certo tutto quel male di vivere e mi ero risolta a credere che fosse la sua natura di Grifondoro - coraggiosa e leale fino alla morte - a costringerla a quell'esercizio, mentale e spirituale, del tutto avvilente. Non avevo dubbi che mia madre ci avesse messo del suo nel darle una precoce infarinatura in merito.
Dal canto mio, non ero e non sarei mai stata per la pacata accettazione delle cose perché così doveva essere: certi dogmi andavano estirpati alla radice e, se proprio non potevo farci niente, almeno potevo cercare di sovvertire gli esiti. Se da bambina un divieto mi aveva imposto di andare in un certo luogo o fare certe cose, mi ingegnavo con solerzia degna di questo nome e, naturalmente, a mio discapito. Crescendo avevo imparato che certe lotte me le sarei potuta risparmiare ed altre, invece, avrei faticato a lasciarle perdere; quel tardo pomeriggio, mentre stringevo in una mano i volantini che avevo trovato su appartamenti da acquistare o affittare fuori Diagon Alley, avevo imparato un’altra lezione: non avevo idea di che cosa significasse davvero diventare un'adulta autosufficiente in un mondo popolato da gente ben più strana di me.
Da qualche minuto tamburellavo indice e medio sul bancone, indicando al garzone di turno la mia pazienza agli sgoccioli: ad una richiesta di una signora attempata, vestita a somiglianza di una bomboniera, il responsabile del banco si era diretto a rotta di collo in magazzino, seguito dal collega che - però - era poi tornato quasi immediatamente. Forse una delle torte aveva preso vita e si era mangiato vivo solo il primo dei due, pensai. Peccato fosse lui l'unico predestinato a soddisfare ogni mi richiesta: tutto pur di placare la mia fame chimica. Sì, perché non era solo la ricerca di una casa ad avermi fatta sconfinare sino a Londra. Dovevo incontrare qualcuno e non sapevo ancora se ne avevo davvero l’intenzione. Questo pensiero, ovviamente, mi innervosiva. Non ero mai stata impreparata in nulla: nessun incontro era mai troppo spontaneo, perché nella mia testa dirigevo le conversazioni come un maestro farebbe con la sua orchestra, bacchettando il musicista impenitente di turno riportandolo con autorità sulla giusta strada. Eppure, quella persona era stata capace di farmi vacillare in momenti in cui avevo un discorso pronto, azioni già decise in precedenza e - oltretutto - sentimenti ben definiti in merito alle faccende che ci riguardavano. Ero sicura di essere tornata in me, la vecchia me - la maniaca del controllo -, ma dopo l’ultimo incontro non ero più così certa delle mie capacità manipolatorie.
Così, più tamburellavo veloce, più l'anziana strega mi guardava male e quasi godevo del fastidio che parevo procurarle - disagio nullo, rispetto all'attesa che la sua richiesta aveva sortito sui miei programmi ben definiti, ritardandoli - sorridendo cortese, continuando i miei esercizi di ritmica imperterrita e irrispettosa come di rado ero stata.
Quando il garzone ebbe la decenza di tornare, smisi seduta stante il mio atto di rumorosa ribellione. Dopotutto la prossima in attesa ero io. Nessuno mi avrebbe privato della gioia di addentare un muffin o di assaporare una fetta del mio dolce preferito. Il fatto che tutto quel tempo non mi avesse aiutata a decidere che cosa volessi davvero era sintomo di una ben più che chiara situazione di disagio interiore.
Stavo per aprir bocca quando una voce accanto a me ordinò un milkshake alla menta, con altre due richieste ben precise che mi avevano fatto capire non solo che quella giornata era stata segnata, di nuovo, da un mio ritardo di reazione, ma anche che chi si era avventurato da Florian aveva le idee certamente più chiare delle mie. Ben mi stava a perder tempo su inutili elucubrazioni riguardo la metafisica della vita e le relazioni interpersonali.
«
Per me una fetta di Red Velvet e un tè ai frutti rossi. Grazie. » intervenni immediatamente, senza badare troppo a chi mi aveva sconsideratamente preceduta. Il mio sguardo veleggiava tra gli opuscoli nella mano sinistra ai movimenti del garzone davanti a me.
Avevo ordinato il solito, in sostanza. Non c'era occasione in cui non mancassi di ordinare sempre lo stesso set: la mia torta preferita, memore di un periodo non proprio idilliaco della mia infanzia, e la bevanda capace di calmare - per assurdo - i miei nervi sollecitati.
Non avrei dovuto fingere sorpresa per il fatto che il tutto si fosse svolto in modo veloce e quasi meccanico, ma la verità era che aspettavo la fine della giornata per vedere una persona che - ancora una volta - mi chiedevo se, e in quale misura, volessi incontrare. Non che avessi scelta. Prima o dopo avrei dovuto strappare il cerotto, quindi meglio farlo subito. Anche questo era uno dei miei sacri dogmi.
Il saluto incerto che richiamò la mia attenzione, facendomi voltare il capo a sinistra, cancellò immediatamente tutti i miei progetti. Non perché Draven Shaw fosse oggetto del mio particolare interesse, ma per la ragione ignota secondo la quale una divinità sconosciuta doveva avergli picchiettato un indice fastidioso sulla spalla e sussurrato all'orecchio di rivolgermi la parola. Povera anima, non sapeva di avermi trovata nello stato peggiore che gli potesse mai capitare.
Dal falò in cui ci eravamo incontrati, scambiando forse due parole in croce, ne era passata di acqua sotto ai ponti: un'estate intera, l'inizio di un nuovo anno, una cerimonia di Natale e il Torneo Crownspoon. Nei corridoi nemmeno un accenno di saluto - se c'era stato non me lo ricordavo - e comunque ero troppo impegnata a risolvere i miei conflitti da potermi occupare di altro che non fosse, egoisticamente, me stessa. Sapevo chi era - Prefetto e collega stretto di Mike -, chi frequentava per sentito dire e tanto mi bastava. Non ci avrei messo una croce sopra per amore del suo Caposcuola che di lui pareva essere abbastanza fiero.
«
Ciao» risposi, dando spazio alla sorpresa piuttosto sincera di trovarlo lì senza però esagerare «
La tua schiena come sta?»
Era un colpo basso, lo confesso, ma a mio discapito dovevo ammettere che la curiosità c'era e la preoccupazione pure. Non ero totalmente un'insensibile di fronte al male altrui e, dopotutto, la Grenger sapeva andarci giù davvero pesante con quei Bolidi. Mi ricordava l’altra Mary, la Corvonero che mi aveva lussato una spalla per amore dello sport preferito di noi maghi. Vedere Shaw in quello stato mi era perfino dispiaciuto, sul momento, e immaginavo che qualcuno sugli spalti si fosse sperticato in insulti verso la nostra difesa come pegno per tanta vigliaccheria. Che avessimo perso quella partita era tutto un altro paio di maniche.
«
Vedo che la Grenger non ha fatto troppi danni… sono contenta.»
Appoggiai i volantini sul bancone per trovare il sacchettino con i Galeoni nella borsetta di pelle nera a tracolla. Dovetti sfilarla e appoggiare sul bancone anche quella per trovare il fuggiasco e solo allora ricordai di non averlo, ma di aver sapientemente nascosto monete e un miscuglio di Falci e Zellini nelle tasche della giacca di pelle. Trovato il necessario lo deposi soddisfatta sul bancone, con un sorriso ben più felice stampato in volto di quanto si potesse immaginare.