'cause i love how it feels
when I break the chains
Sei ovunque. Sei sempre qui. Con me.
Perché. Ancora.Un rumore d’ingranaggi mi riempie occhi e orecchie. Non ti ho ancora visto, eppure lo avverto nello spostamento di particelle —il cambiamento. Nel modo in cui il tuo sterno smette di contrarsi e la tua fronte scivola sulla mia spalla, delicatamente.
Crick crack. Sta succedendo, non è così? Il meccanismo si è inceppato perché ho trovato il punto in cui si celava la sua debolezza. Sembra assurdo che, dopo tutto quel battersi e urlarsi contro, è stata la calma ad aver fatto la differenza; ad avermi aiutato a bilanciare una situazione altrimenti irrecuperabile se non con un uso di violenza portentoso. Se non al costo di tutto —
tutto— quello che siamo stati.
“Vieni, Nieve! Guarda cos’ho trovato a casa di un cliente di cui curo il giardino!”
“Un manichino per esercitarsi con gli incantesimi?”
“No. Questo è un automa, un oggetto babbano. Guarda che belli questi ingranaggi!”
La voce di nonno Gaspare mozza il mio di respiro, stavolta. Appoggio la fronte alla porta e sospiro, sfinita. È solo un attimo, prima che l’ostinazione mi induca a girare su me stessa. Tu mi lasci andare, io mi assicuro che le cose rimangano tali.
Dio, quanto è bella la libertà! È tutto quello cui riesco a pensare mentre fai un passo indietro. Così, porto le mani ai capelli, lascio le dita affondare nella chioma leonina, alzo lo sguardo al soffitto e traggo un sospiro. Sugli stucchi neutri dei tuo appartamento, vedo le foreste immense d’Islanda. Sto correndo a perdifiato tra quegli alberi. Fa freddo, freddissimo, ma io continuo a volare sulle gambe nella natura incontaminata. Sono mia.
Umetto le labbra, torno a guardarti e rilasso le spalle. Sei un capolavoro di umanità,
Horus. Dietro tutta la ferraglia, riesco a riconoscerti finalmente e la sensazione di paura che ho provato finora si affievolisce. Si trasforma. Sei e sarai sempre una minaccia per
questa Nieve con il carrozzone di sentimenti che ti ostini a portarti appresso. È un controsenso che tu ne possa provare tanti e, allo stesso tempo, diventare metallico e distaccato fin quasi all’insensibilità; e che a farti quest’effetto sia la stessa identica persona.
Ascolto la piccola pietra rotolare nei tuoi occhi dalla cima della montagna dove hai deciso di raccoglierti —per sopravvivere, dici. E io ti capisco, ti rispetto. Cazzo! Ti sono serviti due minuti e qualche scricchiolio per farmi passare dall’odio alla comprensione. Non posso concederti altro tempo, lo so. Perderei il vantaggio che mi sono assicurata.
Sono sul punto di parlare, ma tu mi precedi e… le mie labbra tornano a congiungersi. Non usi nessun velo per smorzare il tono della tua accusa e riportarmi ai confini dell’autostrada. Penserai che io abbia dimenticato l’episodio di Eugene, che per me sia stata una scusa per lasciarti indietro, che non abbia significato nulla. È un bene che sia così. Se sapessi le volte che il ricordo di te è tornato a bussare alle porte della mia fronte, chiedendomi udienza, non potresti fare a meno che ripeterti —“lo sapevo che eri ancora lì sotto quella corazza da dura”. Allora io vorrei prenderti a pugni, sicuramente lo farei e ricominceremmo daccapo. Non sei stanco? Cos’è che non mi perdoni di quel giorno? Dimmelo. Dimmi cos’ho sbagliato.
Tu non ci riesci, però. Come me vai avanti ad omissioni. Va bene, non proprio come me. Tu sei più bravo a parlare di quel che senti, dei vortici che si agitano dentro di te. Riesci a dargli una forma che fa sembrare semplice confidarsi. Io, invece… A me le parole si fermano sul ciglio delle labbra. Mi fanno paura. Hanno un’eco che sembra espandersi nel tempo, durare per sempre, ingigantire il significato dei gesti, immobilizzarlo nelle ere. Come quando ci siamo promessi di diventare amici, ci ho creduto e il desiderio non è diventato realtà.
Osservo le tue braccia piazzarsi ai lati dei mio viso. Con gli occhi li raccolgo uno a uno, gli ingranaggi che stanno venendo giù e che non voglio cadano a terra. Perché ti ho a cuore anche quando non dovrei; anche quando non vorrei? Ringrazio il momento di tregua che ci concedi, abbassando il capo e nascondendoci reciprocamente. Dietro le tue spalle, fatta eccezione per il quadro rovinato al suolo, l’appartamento è immacolato. Siamo noi ad essere sottosopra, reciprocamente colpevoli di vandalismo l’una ai danni dell’altro. Di violenza, di furto, di crimini d’odio e barbarie.
“Ma per quanto voglio esserlo con te, Rigos, tu mi spingi continuamente al limite. Da un estremo all’altro.”
Perché. Vorrei chiederti perché. Perché non ci riesci, perché non mi volti le spalle come altri hanno fatto prima di te. Perché non “io ci ho provato”. Perché sei così maledettamente testardo. Perché respingerti dev’essere un impegno da fanteria costantemente schierata sul campo di battaglia. Perché sei così insistente, persistente, infestante.
Sei ovunque. Sei sempre qui. Con me.
Perché.
Ancora.La tua mano scatta in direzione del mio viso. Istintivamente il mio braccio si alza per bloccare il tuo. Sei stato violento con me e, prima di te, altri hanno fatto di peggio. Mi fermo quando capisco che il tuo gesto, stavolta, non nasconde un fine tirannico. È il mio di movimento a rimanere sospeso e, con esso, pensieri e deduzioni logiche.
Un’altra contrazione spaziotemporale, la stessa di quel giorno in autostrada prima che mi alzassi per darti un pugno in faccia. Lo scontro dell’ultimo quarto d’ora passa davanti ai miei occhi al rallentatore, gettando luce là dove l’avversione aveva sparso ombra.
Ti avvicini ancora al mio viso. Lo siamo meno di prima, Umanoide, ma il tuo calore adesso lo sento. Mi rigiri la domanda e mi scappa un sorriso. Il divertimento è gentile, nessuna nota di derisione a imbrattarne la morbidezza. È sempre la stessa storia con te. Proprio non ce la fai a rispondere e basta.
Il braccio che ha sospeso il movimento sale, accompagna la mano destra finché non si deposita sulla tua guancia, cingendoti il viso. Sul palmo, realizzo, il tocco della barba è piacevole.
Cosa voglio io da te? Che domanda del cazzo, Sekhmeth! Dall’automa, vorrei che la smettesse di fare il coglione con i suoi modi di merda perché è capace di farmi incazzare come nessun altro. Dalla persona che ho di fronte, io non…
Dio, Nieve, ammettilo! Almeno qui, nella tua testa, ammettilo! Smettila di fare la codarda e dillo!
Vorrei che restasse, va bene? Solo per un minuto. Solo per un attimo. Per poi sparire di nuovo.
Vorrei concedermi il lusso di farti rimanere e quello di non fuggire, ma non posso dirtelo. Torneresti a parlare della vecchia Nieve, dell’amica che hai perduto, della persona che sono stata. Io non posso darti questo. Non posso darti le emozioni. Non posso restituirti quello che ho smarrito lungo la via. Non sono Dio. Quello che posso darti è…
Il mio sguardo si intensifica nel tuo. Una liquidità incandescente scivola dalla pupilla all’iride. Se fossimo in una situazione di pericolo, io sarei quella che si lancia nella mischia e tu quello che pensa al modo per salvare il salvabile, me compresa. Io prendo l’iniziativa, tu ti assicuri di battere l’ultimo colpo, quello vincente se possibile. Tranne con me, s’intende.
Inclino leggermente il viso e ti raggiungo a metà strada. Stavolta ti bacio davvero, nessun secondo fine. E il mio corpo si protende verso il tuo morbidamente, chiedendo accoglienza. Il tocco sulla tua bocca è caldo. La pressione dei polpastrelli sulla nuca, tra le tue ciocche, gentile.
Questo posso farlo. È l’unico modo in cui posso dirti che voglio rimanere —e che voglio tu rimanga— senza usare le parole. È tutto quello che posso darti di me, il mio corpo, lasciando indietro le emozioni.
Vorrei essere buona di nuovo, la Nieve che manca a tutti, ma le sirene nella mia testa me lo impediscono. Impazzirei se ti concedessi di entrare, di capire, di conoscermi. Lo faccio per il tuo bene, ma anche per il mio. Tu non hai bisogno di me d’altra parte, te lo assicuro. E sono sicura che in fondo lo sai anche tu. Quello che sta succedendo è solo un errore nella trama del tempo, un imprevisto.
E tu mi respingerai, vero? Ti prego. Mandami via.
i will win, not immediately but definitively