Alive or Just Breathing, Contest a Tema: [MARZO 2021]

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view post Posted on 31/3/2021, 15:31
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entropia.

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Disclaimer: questo post ha un contenuto forte, che potrebbe urtare la sensibilità del lettore.
Ti consiglio di evitare la lettura, se pensi che alcuni argomenti (relativi al rapporto conflittuale con sé stessi) possano turbarti. Per favore!


Nieve Rigos
17 anni
Mese di Dicembre, vacanze di Natale del IV anno
Segue: Skyfall (Parte I)
Precede: Skyfall (Parte II)
P l a y
Cammino.
Non so fare altro.
Il mio corpo, seguendo un impulso che gli permette di svolgere soltanto le più basilari funzioni organiche, si limita ad assecondarmi. Non sa dove stiamo andando e non lo so neppure io. Possiamo solo andare avanti, avanti, avanti… finché non potremo più.

Respiro.
Respiro a fatica contro il cemento duro di un edificio. Una macchia di sangue ne imbratta la superficie. In qualche modo, il rosso la impreziosisce e la sporca insieme, come impreziosisce e sporca la pelle del mio viso, tracciando una linea che percorre il profilo del naso fino all'arco di Cupido.
Sono stordita. Tengo gli occhi chiusi e rantolo un’espirazione, mentre una strana pulsazione lancia l’allarme.
Il mio corpo ha paura, lo percepisco. Ha paura che io gli impedisca di fare la sola cosa per cui sia stato concepito: resistere, combattere, sopravvivere.
Mi dice che non avrei dovuto farlo. Che siamo deboli, esposti, in pericolo. In queste condizioni, senza bacchetta, chiunque potrebbe farci del male e approfittare di noi.
Sorrido.
Non capisce.
È esattamente quello che voglio — perdermi.
Che sia per mano nostra o di qualcun altro, davvero, non importa.

«E sta’ zitta, ragazzina! Sto provando a dormire, cazzo!»
La voce gracchiante di un vagabondo mi rassicura, nonostante non ci siano né gentilezza né accoglienza nei suoi toni. Il puzzo acre di piscio che pervade il vicolo attenua la sensazione di sperdimento che mi ha stretto l’anima in sogno, strappandomi un grido di terrore.
Me ne sto rannicchiata su un angolo di pavimento senza neve, tremante, nel ventre buio di una Londra ostile. Porto la mano alla bocca, ma è troppo tardi. Un singhiozzo involontario lascia le mie labbra e una striatura di calore mi riga gli zigomi. Il pianto che mi sono imposta di trattenere ha trovato la via di raggiungermi.
Eppure non ha senso, mi ripeto ostinata.
Tutto questo non può essere vero, non lo è.

«Ehi, biondina! Dove vai tutta sola a quest’ora?»
La domanda mi raggiunge nel mezzo del torpore che mi avvince, allorché passeggio senza una meta precisa; solo perché non so stare ferma. Ad essa, seguono alcune risatine.
Tengo le braccia strette attorno al corpo, il capo basso, la mente vicino e il cuore lontano. Quando alzo lo sguardo, tre sagome d’uomo mi osservano sotto la luce flebile di un lampione malconcio. “L’amministrazione dovrebbe fare qualcosa a riguardo” è tutto ciò che riesco a pensare.
«Che ci fai a spasso da sola in piena notte?» mi chiede lo stesso interlocutore di prima, leccandosi il labbro e tirando su col naso. Sta assaporando le possibilità che gli si presentano davanti sotto le sembianze di una diciassettenne dall’apparenza fragile, in una notte cupa e gelida come poche altre ne ricorda. Lo osservo avvicinarsi. «Qualcuno ti ha fatto del male?» Accenna alla ferita che mi sono provocata poco sotto l’attaccatura dei capelli. «Ti hanno tagliato la lingua?!»
L’espressione mi ruba un sorriso.
Quest’idiota è così mediocremente scontato. Ha pronunciato, in successione, tutte le frasi del suo repertorio di comparsa nel film scadente che è la sua vita. Immagino che impersoni il pericolo nella sua versione più umana e trascurata; e che dovrei essere spaventata.
Il mio sorriso un po’ lo incoraggia, un po’ lo offende.
«Vieni, forza! Ci pensiamo noi a te. Se sei muta, è anche meglio, nevvero?»
Lancia un’occhiata d’intesa ai compari, che ridacchiano e annuiscono. Riesco a immaginare perfettamente cosa vorrebbero farmi. Senza saperlo, tutti insieme percorriamo mentalmente le fasi di una realtà che non avrà mai a materializzarsi.
Nel momento stesso in cui la mano dello sconosciuto si stringe attorno alla mia spalla con l’intenzione di condurmi altrove, invero, la prospettiva delle cose cambia a loro sfavore.
Un urlo barbaro, gutturale, spaventoso viene fuori dalle mie labbra.
Sciolgo l’intreccio delle braccia e un’ondata di pazzia s’impossessa di me, restituendomi le vestigia di chi sono stata prima della mia seconda vita. Prima della civiltà, dell’amore malato di una donna egoista. Prima di oggi.
Un attimo dopo, mi abbatto su di lui — su di loro — con una violenza disumana.

Urlo una terza volta. Urlo di dolore.
Ho visto la superficie cornea di un’unghia cedere a contatto con i mattoni sbeccati di un casolare abbandonato, in una zona malfamata di Londra.
Il mio corpo continua a servirmi una pena che rifiuto.
Non la voglio perché non ha senso o, forse, perché non saprei sopportarla.
Astaroth non è morta. Non si è tolta la vita.
Non c’è nessun cimitero che l’abbia accolta, non qui e non in Germania.
Non importa cosa dicano Grimilde, Julian e quel tale giunto dal Ministero con le sue carte.
Non è mai successo.
Osservo la carne viva mostrarsi attraverso i bordi frastagliati dell’unghia, nel punto in cui ha ceduto all’impeto del mio grattare.
Violarmi è l’unico modo che conosco per spegnere l’una e contrastare l’altro — la sofferenza e il corpo.

«Sta’ zitto o ti ammazzo!»
Pronuncio la minaccia con sguardo allucinato e l’estremità appuntita di un pezzo di ferro arrugginito premuta contro il fianco di un giovane malcapitato. Prova a balbettare qualcosa, ma io premo più forte sul ventre per dimostrargli che non sto scherzando. Allora, si risolve al silenzio.
«Dammi il berretto e i guanti e ti lascio andare senza farti niente.»
Un’espressione confusa passa sul viso del ragazzo. Nel mezzo dello sconvolgimento dato dal mio attacco, sembra provare pietà per l’anima disperata che gli fa da carnefice. Non voglio soldi, o l’oggetto rettangolare che tiene tra le mani e che ha già tentato di offrirmi, né l’orologio del nonno che porta fieramente al polso. Voglio solo un cappello e dei guanti. Per il troppo freddo, suppone.
Osservo le sue labbra schiudersi e so già che vorrebbe pronunciare qualcosa per convincermi a stare calma; per dirmi che me li darà anche senza bisogno della violenza.
Io, di contro, serro le mie e ringhio. Con la mano libera dall’arma che gli sto usando contro, afferro il berretto di lana e glielo tiro via. Nel gesto, gli strappo qualche ricciolo e un mugugno sofferente.
Non ho il coraggio di ferirlo. Mi limito ad assestargli una gomitata sulla faccia — per stordirlo e impedire che m’insegua, nient’altro —, dopodiché mi approprio dei guanti e scappo veloce.
Mentre corro via da lui, ripenso a Ỳma e alle nostre scorribande.
La mela non cade mai troppo lontana dall’albero, rifletto e ridacchio.
Mi manca.

“Si è tolta la vita…”
La frase seguita a rimbalzare tra le pareti bruciate del mio cranio.
Suona come un’accusa — la statuizione che mette nero su bianco le mie colpe.
Scruto la mia immagine riflessa sul vetro di un negozio. Il berretto nasconde una parte delle sopracciglia e rende il mio visino sconvolto più duro, come se la vita non si fosse appena divertita a travolgermi con l’ennesimo, perverso colpo di scena.
Stringo i pugni contro i fianchi, odiando ciò che vedo, la persona che sono.
Non riesco a credere che Astaroth sia morta, eppure mi detesto.
Colei che vedo, ai miei occhi, è già colpevole di un crimine che mi rifiuto di vedere avverato e di mille altri che non hanno un nome ma un peso.
Sono un buco nero, ingorda e crudele.
E vorrei mettere fine alla mia esistenza prima ancora che il sole si erga troppo al di sopra dell’orizzonte, ma un istinto mi trattiene, perentorio.
Devo sapere. Devo vederla.
Poi, finalmente, potrò liberarla.

L’acqua fredda del Tamigi mi guarda, in attesa.
Ho ridisceso un punto pericolante dell’argine alto per raggiungerne quello più basso; e, adesso, guardo la sua superficie liquida del fiume con un desiderio morboso fisso in mente.
Digrigno i denti, stringo i pungi.
Il dolore dato dalle mezzelune che ho inciso sui miei palmi si mesce alla rabbia che m’infiamma il petto. Sono furiosa perché non so concedermi altro. Come Grimilde, uso un’emozione per coprirne di diverse. Se non la odiassi così profondamente in questo momento, riconoscerei che ho finito per assomigliarle anche se non mi ha partorita.
Mi butto, decido e annuisco con un movimento secco del capo.
Serro le labbra e respiro più avidamente.
Una parte di me sente già il bisogno d’aria prima ancora che me ne sia privata. Così, si abbevera più che può. Ogni ondata di ossigeno scivola con prepotenza lungo le pareti del naso fin nei polmoni che ne fanno incetta, avidi.
Mi butto e basta, continuo come a voler dare forza ai miei propositi.
A mano a mano che il momento della verità si avvicina, mi consuma il bisogno di rifuggirlo.
Perché perché perché?, chiedo a me stessa.
Se non credo che sia vero e sono assolutamente convinta della mendacità delle parole di Grimilde e dell’erroneità dei documenti in possesso al Ministero della Magia, cosa mi trattiene dal prendere parte all’appuntamento?
Se sono certa che Astaroth sia viva, qual è il senso della violenza che mi sto usando contro e del gesto che sono sul punto di compiere?
Mi lascio cadere sulle ginocchia e grido a denti stretti, le mani guantate premute ai lati del capo.
Sono esasperata e stanca.

Il cuore martella contro il costato in preda alla mattìa.
Per ogni passo che muovo, pago in pegno due battiti e mezzo.
Ho già sperimentato questa sensazione, ma in circostanze differenti. Prima di un esame, di un incontro temuto con un insegnante, di una prova del Barnabus, il mio corpo ha reagito nello stesso identico modo — chiedendo di più.
Intravedo le prime abitazioni con i mattoni a vista e il trotto nel mio petto si trasforma in una corsa a perdifiato. Riesco a percepire ogni singola contrazione dei ventricoli, il suono ovattato del mondo che mi circonda e un sibilo ostinato ma lieve nelle orecchie.
Quattro figure pattugliano i gradini di casa. Le riconosco prima ancora di metterle a fuoco: i nonni, Julian, Grimilde… E ne intuisco il sollievo dal modo in cui si girano a guardarmi, dal rilascio di tensione che allenta la rigidità delle loro spalle, dall’istinto che li induce a toccarsi in segno di reciproca consolazione.
I miei occhi, per un momento, incrociano quelli di nonna Lucrezia. È l’unica donna raggiungibile rimasta nella mia vita della quale riesca ancora a fidarmi. Il contatto, però, non posso sopportarlo, non con lei. Mi scioglierei tra le sue braccia in pesanti singhiozzi, se solo permettessi all’amore che ci lega di fare breccia nella coltre di cocciutaggine che ho eretto.
Per questo, distolgo lo sguardo e lo fisso su Grimilde.
Le mie labbra, automaticamente, soffrono i segni di uno spasmo.
Sono così arrabbiata con lei, così mortalmente ferita dal suo egoismo. A tratti, sembro esserlo quasi esageratamente. Non riesco a decidere se mi abbia mentito o meno, se il mio risentimento dipenda dalla gelosia verso Astaroth che le imputo o se ci sia dell’altro.
So soltanto che vorrei spingerla via e riservarle lo stesso trattamento che ho servito al trio qualche ora prima, attingendo a una furia ferina che nemmeno immaginavo d’avere; ma mi trattengo.
Il rigagnolo di sangue che ricalca il profilo del mio naso, l’ematoma allo zigomo per lo schiaffo che ho ricevuto durante la baruffa, la linea violacea sotto i miei occhi e il pallore della spossatezza sono sufficienti a ferirla nel profondo, ne sono certa. La scalfiscono perfino di più dell’ostilità odiosa che le uso. Le danno la certezza di non essere riuscita nell’obiettivo cui ha votato la sua vita, da quando ci siamo incontrate: proteggermi.
È lo scontro che non si è mai aspettata di dover affrontare, l’unico dal quale sa di poter uscire solo sconfitta.
«Tu.»
Sono io a interrompere la stasi che ci avviluppa tutti.
Ho compiuto la mia scelta nel momento stesso in cui ho visualizzato i cinque punti cardine che compongono la geometria della mia esistenza: io, la mia madre biologica, Astaroth, nonna Lucrezia e Grimilde.
È un ennesimo colpo da maestro della sorte il fatto che, di tutte noi, la sola sulla quale possa fare affidamento per porre fine agli indugi sia proprio l’ultima.
«Portami a Villa dei Gigli» le ordino.
Un fremito d’intemperanza le percorre il corpo e schiude le labbra. Infine le richiude, annuisce, stoica, e mi porge una mano.
Osservo il palmo carnoso rivolto verso l’alto e trattengo a stento il bisogno di farle quello che ho fatto ai miei; di lasciarle addosso un segno tangibile del dolore che è già riuscita ad arrecarmi e che meriterebbe di condividere, se solo non la trovassi indegna.
Ma cos’è che mi ha fatto? Cosa non le perdono?
Quando insinuo le mie dita nella cupola creata dalle sue, il mio sguardo le restituisce il messaggio di guerra che ha tentato di placare con una richiesta di tregua, inviata sulle ali timide di un’occhiata pietosa.
Non significa niente per me.
Questo contatto non significa niente.
Questa scelta non significa niente.
Lei non significa niente.

Trattengo il respiro.
Da ultimo lo rilascio, meccanicamente.
È tutto ciò che riesco a fare al momento.
Nessuno mi ha mai detto che si può morire anche da vivi.

When you hurt under the surface
Like troubled water running cold
Well, time can heal, but this won't

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